I miei scritti


Tempo di coronavirus , tempo di riflessione.

( Mie riflessioni e pensieri sconnessi…)

Oggi è il 28 Marzo 2020. Sono circa venti giorni che sono chiusa in casa con la mia famiglia a causa della pandemia da coronavirus che attanaglia l’Italia e il resto del mondo da un mese. Sebbene siamo stati tutti catapultati in un’altra dimensione, stiamo vivendo in una realtà diversa dalla quotidianità a cui eravamo abituati, questo tempo che qualcuno ha definito come il tempo della lentezza, proprio in contrapposizione alla frenesia delle nostre azioni di qualche giorno fa, questo è anche il tempo giusto per fermarsi a riflettere con sé stessi e fare i conti con la propria coscienza. Ieri ho seguito la benedizione Urbi et Orbi di Papa Francesco e mi sono emozionata. Ogni volta che veniva inquadrato il Crocefisso sotto la pioggia avevo una strana sensazione, il sangue misto alla pioggia che cadeva in quel momento rendeva Gesù presente in quel momento, era come se la Passione di Cristo la stessimo rivivendo in diretta, come se quel sangue stesse sgorgando di nuovo per noi in quell’istante. Vedere il papa camminare a fatica sotto la pioggia, la piazza deserta mi ha provocato tanta tristezza. Ascoltando le parole del Papa e guardando il suo sguardo mi ha fatto capire quanto veramente siamo niente dinanzi a Dio. Lui solo può salvarci. Noi siamo nel bel mezzo della tempesta. Una tempesta che è giunta inaspettata, che non sapremo quanto durerà e come ne usciremo. Solo Lui può salvarci. È a lui che dobbiamo affidare la nostra vita, le nostre preghiere e sperare che ci ascolti. Dobbiamo avere Fede e aiutarci a vicenda perché nessuno può fare nulla solo. Questo il messaggio del Papa. Per ora sappiamo solo che abbiamo avuto tante perdite. Tanti uomini e tante donne sono morti, qualcuno ha detto sinora “ma erano anziani, molti con patologie pregresse”, ma che vuol dire? Il diritto alla vita è un diritto che abbiamo tutti. Il valore che ha la vita per me è identico a quello di un anziano o un bambino. Sono vite. Sono persone. Non sono numeri.

Da quando è iniziato tutto tante notizie contrastanti ci hanno bombardato. Siamo un paese allo sbando, non sappiamo quello che è vero e quello che non lo è. C’è chi continua a gridare al complotto, sostenendo che alla fine dietro a tutto questo ci sia chissà quale interesse politico o economico o quale magagna. Secondo le prime notizie circolanti il virus non era altro che un’influenza un po’ più forte, sarà stata questa informazione a far prendere sotto gamba questo virus? Poi si è passati a dire che colpiva maggiormente anziani e con pregresse patologie. Erano loro i più fragili, i più colpiti, quelli che ci lasciavano le penne. Poi a quanto pare questo virus ha cambiato forma, è diventato più aggressivo ed è stata la volta dei giovani, ha iniziato a colpire anche i giovani e i bambini, gli adolescenti, che inizialmente erano stati definiti come quasi immuni. Ora ci troviamo a vivere nel terrore, aspettando lo scorrere dei giorni, guardando alle ultime notizie, aspettando ogni sera il bollettino della Protezione Civile alla stregua di un bollettino da guerra… Quando si sono verificati i primi casi in Cina io, che sono un soggetto ansioso e ipocondriaco, ho iniziato a temere e a chiedermi se avesse mai potuto raggiungere l’Italia. La Cina è così lontana…intanto la gente moriva e si ammalava. Poi è stata la volta del Nord Italia, la paura è aumentata parecchio, però poi sentivo i discorsi della gente che diceva: “Non arriverà in Puglia…siamo lontani”. Poi ti svegli una mattina e ti rendi conto di vivere un incubo…il virus ha raggiunto la Puglia, si registrano i primi casi e da lì un susseguirsi di casi e decessi, polemiche contro chi dal Nord ha deciso di prendere un treno e raggiungere la propria famiglia, polemiche contro il Governo che ci lascia soli e non prende le giuste misure, polemiche dei medici e degli infermieri che lottano ogni giorno in prima linea per salvare le nostre vite ma sono lasciati senza dispositivi adatti a preservare la loro stessa di salute. E poi ti fermi e rifletti. È grazie a gente così, è grazie ai medici, agli infermieri, alle forze dell’ordine, ai volontari della Protezione civile e tanti altri che l’Italia non si è fermata del tutto e sta cercando di risollevarsi. Riflettevo tra me e me. Questo virus giunge in un periodo particolare: la quaresima. Tempo di silenzio, di riflessione e ci blocca. Ci impone di fermarci. Ci vieta di incontraci, di fare baldoria. Ci limita negli abbracci, nei baci, nelle carezze. Ci fa guardare i nostri figli negli occhi e ci fa sentire fragili, più di loro. Incapaci di dargli quella sicurezza che cercano in un genitore. Quanto vorrei poter guardare mio figlio negli occhi e dirgli “Non avere paura. Andrà tutto bene. Questo brutto virus passerà presto”. Ma come faccio a dirglielo? Non voglio mentirgli. Ho una paura matta anche io. E se mi dovesse venire a me mio figlio che fine farebbe? Tanti brutti pensieri attanagliano la mia mente. Siamo passati da giorni di ansia continua alimentata da continue ricerche di notizie sul cellulare, a fasi di rassegnazione e ricerca di un minimo di serenità per non farsi venire un infarto, abbandonando completamente l’idea di cercare e sentire notizie, ad un’altra fase ancora di rabbia e nervosismo, perché non puoi farci niente, una soluzione non ce l’hai. Ora i giorni si susseguono con umori altalenanti…si insinua la paura dell’altro. All’inizio quando si è diffuso si è presentata la paura verso i Cinesi che erano visti quasi come “untori”, abbiamo iniziato a non frequentare più i loro negozi e ristoranti e molti hanno dovuto chiudere (e colmo dei colmi i la prima a darci una mano in questa grande emergenza è stata proprio la Cina che ha dato una grande dimostrazione dinanzi a tutto il mondo! Quando il resto dell’Europa se n’è fregata di noi, è stata la Cina a mandare per prima medici e mascherine in nostro aiuto, come dimenticarlo!), poi abbiamo iniziato ad additare chi proveniva dal Nord come untore, ora siamo passati a ricercare l’untore nei nostri piccoli paesi per cercare di capire se abbiamo avuto un contatto, un incontro. Questo virus ci ha reso persone aride e vuote, abbiamo perso il senso dell’amore per il prossimo, eppure accanto alla nostra paura c’è il lavoro di medici e infermieri che stanno rischiando ogni giorno la loro vita per salvare altre vite…loro che il contatto non lo possono evitare e poi c’è LUI, il Signore che tra pochi giorni farà il suo ingresso in Gerusalemme, che ci ricorda che siamo tutti fratelli e da soli non possiamo fare nulla, dobbiamo rimboccarci le maniche ed essere uniti nella preghiera, in un abbraccio universale virtuale, per ora, ma come stanno dicendo i nostri bambini in questi giorni, un giorno ci riabbracceremo e saremo più forti di prima. Le scritte “Andrà tutto bene” sui balconi, i flash mob e le canzoni urlate sono il simbolo di un’Italia che non vuole arrendersi, che ancora spera, nonostante i tanti morti, nonostante ciò che è successo a Bergamo, nonostante questo virus ci stia annientando e privando della dignità di essere uomini e donne. Ci priva dell’affetto dei nostri cari, ci allontana da tutto e tutti, non ci fa respirare, ci fa morire soli senza neppure un saluto alla famiglia, non ci dà diritto a ricevere un funerale né ad una tomba su cui i nostri cari possano piangerci. Il fatto che tutto questo avvenga durante la Quaresima che sia per noi segno importante per riscoprire il vero senso della vita, dar valore alle piccole cose, apprezzare i gesti più semplici e chi ci sta accanto, senza dare tutto per scontato. In questo periodo di immobilità anche il nostro Pianeta ci sta ringraziando, è diminuito il tasso di inquinamento, l’aria è più pulita, la gente inizia a prendere consapevolezza delle proprie azioni, allora forza, stringiamo i denti e preghiamo, continuiamo ad amare, a sorridere, a sperare e siamo più responsabili delle nostre azioni. Restiamo a casa per il tempo necessario ancora. Rispettiamo le regole. Dedichiamo più tempo a noi stessi, alla nostra famiglia, alla nostra coscienza. I bambini in questa occasione ci stanno dando una grande lezione: chi più di loro sta soffrendo di questo immobilismo, della fine della scuola improvvisa, del non poter vedere i propri amici, i nonni, uscire all’aria aperta, vedere il mare…siamo tutti imprigionati in un sogno che sembra non voler avere una fine. Con l’augurio che tutto questo possa finire presto e possiamo tornare ad una quotidianità più bella e sentita, senza malvagità, astio, rancore verso gli altri. Buona vita a tutti!


Lettera scritta per un'amica che ci ha lasciato troppo presto! (Novembre 2019)

Cara XXXXXXX,

non avrei mai immaginato di trovarmi qui seduta a scriverti una lettera, sapendo poi che non la leggerai mai, ma sento forte e impellente il bisogno di dire ciò che provo in questo momento, le sensazioni che mi attraversano, i pensieri più diversi che attanagliano la mia mente negli ultimi giorni a questa parte.Non avrei mai voluto ricevere quella telefonata qualche giorno fa, né avrei mai immaginato che le cose sarebbero andate così...chi se lo sarebbe mai aspettato! Risalgono ad appena dieci giorni fa i nostri ultimi messaggi in cui mi dicevi di stare meglio, che pian piano ti stavi riprendendo e che eri una tosta, seguita da quelle buffe faccine e invece..cos'è accaduto?

Giovedì sera la telefonata di tuo marito per aggiornarci sulle tue condizioni di salute che erano improvvisamente precipitate...non potevo credere ai miei orecchi: da una settimana eri allettata e con l'ossigeno fisso.Pensavo di non aver ben capito. Poi la richiesta, inaspettata, di tuo marito che ci chiedeva di pregare . Le sue parole sono state:"Anche se la malattia ha fatto il suo corso, voi pregate lo stesso, per lei, per la nostra bambina, magari il Signore vi ascolta e ci fa il miracolo!"Rimasi interdetta dinanzi a quelle parole. Cosa dire dianzi alla disperazione di un uomo che si sta vedendo portar via la moglie giovane da uno dei più brutti mali del nostro tempo? quali parole per consolarlo?Nessuna. Non esistono parole, non esistono spiegazioni. Solo il vuoto e lo sconforto più totale.

Ricordo ancora la prima volta che ci siamo conosciute due anni e mezzo fa in spiaggia. Quando ti vidi arrivare con quel piccolo batuffolo di bimba e tuo marito mi venne da sorridere. Eravate così goffi e impacciati nei movimenti, tutti protesi verso quella bambina a riempirla di attenzioni, a cercare il posto più vicino al bagnasciuga per farla giocare meglio e familiarizzare con l'acqua, lontani da chiunque fumasse o accendesse sigarette e pronti a cambiar posto pur di non far arrivare il fumo alla piccola. Ti osservavo ormai da qualche giorno. Il nostro era un appuntamento fisso: stesso posto, stesso atteggiamento, mai una parola o un saluto fra noi finchè quel giorno non so bene come ci ritrovammo a parlare, mentre i nostri figli avevano preso ad interagire. Non avrei mai potuto immaginare che bella persona eri se non mi avessi raccontato la tua storia e fu da quel giorno che ci ritrovammo a parlare, a cercarci, a sentirci e a veder nascere la nostra amicizia. Si davvero, un'amicizia di quelle sincere, schiette, spontanee, nate senza secondi fini... di quelle dove non hai bisogno di sentirti o vederti ogni giorno, ma su cui sai di poter contare. Quelle amicizie che ti spingono a dire e confidare le cose anche più intime, a cercarsi per il piacere di trascorrere una serata in compagnia o semplicemente a messaggiarsi per sapere solo l'altro come sta. La nostra amicizia era così...spontanea e pulita, come il mare quella mattina che ci siamo parlate.

Erano passati solo pochi giorni da quando ci eravamo conosciute e avevo già capito come eri fatta: una giovane donna sempre sorridente, un po' ingenua, a volte incosciente tanto da sembrare l'eterna ragazzina, tanto dolce... mi guardasti negli occhi e mi raccontasti quello che appena un anno prima avevi dovuto affrontare. Eri rimasta incinta della tua piccola quando venisti a scoprire di avere un tumore al seno. Dopo il parto dovesti lasciare quella bambina così piccola e affrontare da sola il tuo calvario: l'operazione prima, poi le cure. Il tuo pensiero costantemente rivolto a quella bambina che non potevi vedere, nè prendere in braccio. La tua unica forza: la tua Fede. Sei sempre stata convinta che Lui ti ha salvato: Finalmente sembrava essere andato tutto bene, avevi riabbracciato la tua bambina e ricordo ancora il tuo sguardo pieno di commozione quando mi dicesti di essere rimasta male quando la prima volta che la prendesti in braccio dopo tanto tempo la piccola iniziò a piangere forte, rifiutandoti e cercando la nonna. Quanto ho sofferto anche io a quelle parole, mettendomi nei tuoi panni ed essendo io stessa mamma. Una madre vive per i propri figli, sopporta tutto ed è pronta ad affrontare tutto in nome di quell'amore indicibile, difficile da descrivere e spiegare...proprio come avevi fatto tu. Quella bambina che avevi desiderato tanto e che era arrivata quando ormai non ci speravi più..ricordo anche la vostra gioia e l'emozione nel ricordare il momento in cui avevi scoperto di essere incinta. Sorridevi, sorridevi sempre mia cara amica e quel sorriso era contagioso. Tante cose brutte e tristi hai dovuto affrontare nella tua vita, eppure mai niente è mai riuscito a farti perdere il sorriso, l'ottimismo, la Fede, quella con la F maiuscola.

Tante volte ripensando alla tua storia mi sono chiesta come facessi a sorridere e continuare ad essere ottimista. Mi vergogno di me stessa, ma a volte ho pensato che fossi un po' matta e invece tu oggi mi hai dato un grande insegnamento amica mia. Mi hai insegnato ad apprezzare di più quello che abbiamo, a sorridere, a godere della vita e di ogni istante che ci viene regalato, perchè la vita è un dono e va vissuto a pieno, senza timori, senza indugi, senza rimurginamenti vari... e lo dice una che sta sempre a lamentarsi e vive perennemente con la paura della morte. Tu invece che la morte l'hai avuta di fronte, l'hai guardata in faccia e le hai sorriso, chiedendole se poteva risparmiarti una seconda volta, come due anni fa e in cuor tuo lo so che ci speravi, forse ci credevi veramente che ce l'avresti fatta... e invece no. Questo brutto male si è ripresentato sei mesi fa e in così poco tempo ti ha trasformato, ti ha distrutto, ti ha logorato. Era un pomeriggio di aprile quando mi chiamasti per dirmi che il male era tornato. Una recidiva mi dicesti. Io senza parole, senza sapere cosa dirti. L'unica cosa che riuscii a dirti fu:"Continua a credere in LUI!". Chiusi il telefono e scoppiai in lacrime. Volevo disperatamente trovare un modo per starti vicino, per aiutarti senza essere invadente. La tua riservatezza, la compostezza del tuo dolore non mi ha mai fatto capire quanto stessi soffrendo e se avessi potuto fare di più per te. Ho rispettato quella che mi sembrava la tua volontà: ci siamo sentite tanto, messaggiate finchè quest'estate non mi hai chiesto di vederci. Stavi facendo la chemioterapia. Ero contentissima di vederti. Ho visto persone fare la chemio che non uscivano di casa, prive di forze, apatiche..il fatto che tu mi avessi chiesto di vederci durante la terapia mi è sembrato un buon segnale. Quando ti vidi eri bellissima..con il tuo solito sorriso sul viso, un filo di trucco, un po' più magrolina del solito, ma ti ho trovato davvero bene e te l'ho pure detto. Poi mentre mangiavamo il gelato quella sera ho ricevuto un'altra tremenda notizia: alla PET erano risultate delle metastasi al fegato e in testa. Mentre me lo dicevi sorridevi e io dentro volevo morire. Ciò che mi dispiace di più ad oggi è di non aver capito che stavi male a tal punto, avrei potuto sicuramente fare di più, starti più vicino, dirti che ti voglio bene e che la nostra amicizia per quanto strampalata e inconsueta per me era importante e aveva un senso e infine avrei voluto dirti "GRAZIE" per ciò che sei stata, per quello che hai insegnato a tutti noi con il tuo esempio e la tua grande forza. Ora il pensiero costante va al giorno del tuo funerale, a quel corpo e quel viso che non riconoscevo, a quel colorito porcellanato, a quel mancato sorriso che ci accoglieva, alla disperazione di un uomo ormai perso senza di te, alla tua piccola di soli tre anni che non ti avrà più vicino... quanto dolore, quanta tristezza, quanto vuoto che hai lasciato, ma sono convinta che ora tu sia finalmente serena e abbia raggiunto quella pace tanto a lungo cercata qui e pensando a noi quaggiù tu stia sorridendo, con un sorriso ancora più luminoso e che farai in modo che la tua piccola affronti al meglio la tua assenza, rendendoti presente sotto altre forme, standole vicina e guidandola lungo il suo cammino. Sorridi amica mia e fa' in modo che le lacrime versate dai tuoi cari possano presto trasformarsi in sorriso pensando a te. Ciao amica mia. Forse un giorno ci riabbracceremo.

Con tanto affetto,

Stefania.

Qualche capitolo del mio primo romanzo: "CUORI IN CONCERTO" (2010)


CAPITOLO 1

Sogno infranto

Era l’estate del 1998, io ragazzina di sedici anni avevo appena realizzato il mio più grande sogno, finalmente lui, Claudio, il belloccio della scuola aveva avuto uno sguardo per me, mi aveva notato, aveva deciso di mettersi con me, dopo avermi fatto stare male per due o tre anni, periodo in cui non mi filava di striscio e non faceva altro che prendermi in giro, dicendomi che ero brutta e grassottella. Ora cosa era cambiato? Io mi vedevo sempre la stessa, il brutto anatroccolo che guardandosi allo specchio chiudeva gli occhi chiedendo il miracolo, sperando di alzarsi una mattina e ritrovarsi ad essere una bella ragazza magra, anzi magrissima, alta, con le forme al posto giusto, proprio come le tante modelle e stereotipi che ogni giorno vediamo in TV.

Inutile dire che potevo sforzarmi quanto volessi, ma il risultato non cambiava, anzi, finivo con il vedermi ogni volta peggio. Mi sentivo sempre più avvilita, cresceva sempre più in me l’insicurezza e la paura che lui, ancora una volta, si stesse prendendo gioco di me. Lui ora però stava con me, si era ricreduto sul mio conto, mi voleva bene, aveva mille attenzioni, aveva visto in me la donna che stavo diventando, la piccola donna. Era riuscito a percepire i cambiamenti del mio corpo, anche i più piccoli, mentre io mi lasciavo trascinare da tutto e da tutti, senza sapere quello che stavo diventando, senza percepire alcunché di nuovo, vivendo un’esistenza non mia e per di più, senza accorgermene!!

Lui era stato sempre il ragazzo dei miei sogni, quello con cui io e tutte le mie amiche avremmo voluto stare, il classico belloccio, dolce, gentile e con una passione comune a molti giovani: la musica. Era bravissimo a suonare. Quando lo sentivo sognavo ad occhi aperti! Con la chitarra o la tastiera aveva la capacità di sollevarmi da terra e portarmi in luoghi meravigliosi quanto sconosciuti, farmi provare emozioni e sensazioni mai provate prima, riusciva a commuovermi ed entrare nel profondo delle persone, cercava di capirle, vedendo il buono di loro senza fermarsi all’apparenza. Passavo ore intere ad ascoltare quelle soavi note uscire da una scatola scura che fino a poco tempo prima non mi diceva niente, a vedere quelle dita scorrervi sopra veloci, con una maestria e allo stesso tempo con una naturalezza inimmaginabile. Quelle mani sembravano essere state forgiate appositamente per lui e a quell’unico scopo. Mi sembrava di continuare a vederle muoversi e ad ascoltare quella melodia anche quando me ne ritornavo a casa. Mi ero innamorata di lui, delle sue mani, di quella musica, insomma del suo mondo. Ancora oggi ricordo con un misto di malinconia e nostalgia quel periodo della mia vita che segnò - per me - l’inizio e l’apertura verso un mondo nuovo e pressoché ignoto: il mondo dei maschi e dell’amore.

Quella mia prima storia fu molto importante, durò sei mesi ma, per come è stata vissuta, a me sembrò molto di più. Non c’era giorno in cui non lo vedessi o sentissi! Lunghe passeggiate in bicicletta, tante canzoni suonate e cantate insieme, lunghi momenti fatti di sguardi attenti e silenziosi, i primi baci, le dolci coccole e qualche piccolo litigio, anche se molto raro. Poi con l’inizio della scuola, ricordo che i miei genitori mi proibirono di vederlo - Devi pensare a studiare! - mi dicevano - Ci sarà tanto tempo in estate! - continuava mia madre. Sì, peccato che eravamo solo a settembre e sarebbe dovuto passare l’autunno, l’inverno, la primavera… e poi sarebbe arrivata l’estate! Sempre che i miei non si fossero messi d’accordo con qualcuno per non farla arrivare proprio l’estate! Ne sarebbero stati capacissimi!

E così io passavo il tempo sui libri, mentre fuori il mondo scorreva, le persone si amavano e si divertivano e a me sembrava ingiusto e tutto mi era ostile. Non mi restava altro da fare che perdermi nel vuoto, mentre cercavo di immaginare il suo sguardo, i suoi occhi, i suoi movimenti e le azioni che Claudio faceva in mia assenza nella lunga, direi interminabile, durata della settimana, quando la domenica sembrava solo un miraggio lontano, un traguardo irraggiungibile. Quant’era bello rivedersi dopo una settimana, avere la voglia di stare abbracciati per tutto il tempo, quante cose da dirsi! Eppure il tempo era così tiranno… E i genitori pure, sempre rigorosi nell’orario del rientro. La mia mano non lo avrebbe mai lasciato andar via, l’ultimo secondo per un bacio, poi un altro, un altro ancora; io mi allontanavo ed ecco lui che mi riveniva dietro - Ma un ultimo bacio non me lo dai?- Il periodo che sono stata con lui è stato duro e sofferto e non solo perché avevamo poco tempo per vederci e stare insieme. C’era qualcuno che ostacolava il nostro amore, qualcuno che all’improvviso ha fatto precipitare le cose e ha cambiato la mia vita. Dopo poco che io e Claudio avevamo iniziato a stare assieme cominciarono ad arrivare a casa delle telefonate anonime, di mattina, di sera, perfino di notte, in cui ricevevo delle minacce da un uomo che mi diceva di lasciar stare il mio ragazzo perché era suo, perché prima di me era stato suo… Inizialmente pensai ad uno scherzo e sinceramente, anche di cattivo gusto. Poi la cosa divenne sempre più incalzante e cominciai ad avere paura; uscivo e mi accorgevo di essere seguita, ero con Claudio e lo sentivo strano; era sempre come se volesse dirmi qualcosa di terribile e sul più bello gli mancasse poi il coraggio di andare fino in fondo in quell’oscura faccenda.

Un giorno venne a casa mia a trovarmi e, mentre era con me, squillò il telefono; andò a rispondere mia madre e dopo poco venne da noi tutta preoccupata cercando di chiarire quella questione una volta per tutte e parlò con Claudio di queste strane telefonate che ormai da un po’ di tempo arrivavano a casa nostra e, cosa strana, lo riguardavano. È passato tanto tempo da quel giorno, ma provo i brividi ancora adesso. Rivedo ancora i suoi occhi angosciati e pieni di paura, la dolcezza negli occhi di mia madre e tutto ciò che venne dopo… non mi sembra vero che sia successo veramente!

Quella sera stette a lungo a casa nostra e si confidò con mia madre e disse che quell’uomo era Don Peppino. Si trattava in sostanza del nuovo parroco della chiesa matrice, adagiata nel bel mezzo della piazza del paese. Don Peppino era un uomo né giovane, né vecchio, che si faceva volere molto bene nel paese per via della sua grande disponibilità, della sua sensibilità nei confronti dei problemi dei giovani e soprattutto di quelli, apparentemente meno gravi, dei bambini. Era di origine calabra, era stato in missione nel Congo per molti anni e poi, non si sa bene per quale ragione, aveva deciso di trasferirsi in Sicilia, proprio qui da noi. Claudio raccontò che Don Peppino aveva cercato di avvicinarlo da un po’ di tempo e nell’ultimo periodo era divenuto insistente, cercava di avere il controllo sulla sua vita e le sue scelte. Inizialmente il suo sembrava essere un atteggiamento protettivo, poi era divenuto addirittura possessivo e geloso, portandolo ad insospettirsi di tutte quelle attenzioni ricevute. Claudio aveva tentato in ogni modo di evitarlo e andava via ogni volta che lo incontrava ed era da solo. Don Peppino era molto intimo con la sua famiglia, li aveva aiutati molto dal punto di vista economico in un periodo un po’ difficile. Il padre di Claudio, infatti, aveva perso il lavoro e per la disperazione si era dato all’alcool, non sapendo come portare avanti una famiglia con cinque figli; la moglie, quella povera donna, si era data da fare e si sbatteva da una parte all’altra, facendo la donna di servizio presso diverse famiglie del paese, ma da sola non poteva farcela ed ecco che si era rivolta a quel gran signore - per il quale a distanza di anni, nonostante non sia più vivente, non riesco a non provare ribrezzo! - Claudio non si era sentito di dare un ennesimo dispiacere alla sua famiglia, pensava che sarebbe riuscito a gestire da solo quella situazione e non ne aveva parlato con nessuno, solo che ora gli era sfuggita di mano!

Quella sera stessa mio padre decise di accompagnarlo a casa per parlare con i suoi genitori e metterli al corrente del problema e delle difficoltà che il figlio si stava trovando ad affrontare da solo, ma lo faceva soprattutto per me, che mi ero legata tantissimo a lui e non potevo continuare a vederlo impaurito e angosciato. È inutile dire che le cose non andarono proprio come si sperava; invece di trovarsi di fronte a delle persone comprensive e aperte al dialogo, mio padre si trovò di fronte un muro invalicabile: loro non volevano saperne nulla, non volevano fargli del male, né denunciarlo, - In fondo – dissero - non ha fatto altro se non stargli vicino un po’ troppo, dargli mille attenzioni e fargli qualche carezza intima. Tutti possono sbagliare e poi vuole bene a Claudio. - Dire che a casa mia da quella sera ebbe inizio il putiferio è dir poco! Mi proibirono di vederlo, dovevo dimenticarlo, i suoi erano stati maleducati e, invece, di ringraziare mio padre per l’interessamento, se l’erano pure presa a male. A me faceva schifo la situazione, faceva ribrezzo e paura quella persona e ora avevo il terrore anche a rimanere sola con Claudio, perché non facevano che venirmi in mente tutte le scene che m’aveva raccontato. All’inizio fu così dura per me accettare la cosa che per un po’ non volli più vederlo, però non potevo cancellare l’amore, l’affetto e la stima che avevo per lui; in fondo non era colpa sua se i suoi genitori erano così. Claudio non era che una vittima, proprio come me.

Tempo dopo, mio padre chiamò anche i carabinieri per fare ascoltare loro delle telefonate minatorie che continuavano ad arrivare a casa nostra e che eravamo riusciti a registrare, dove vi era il solito avvertimento e ben riconoscibile la voce del sacerdote. Dire che questo paese è uno schifo, che tutti quelli che ci circondano fanno ribrezzo, che l’ordinamento è uno squallore è dir poco. Mi vergogno di vivere in questo paese, di farne parte come cittadina… Volete sapere che cosa è successo? Il maresciallo Capolupi disse che non era opportuno rovinare l’immagine di un sacerdote, essendo un personaggio pubblico e di spicco per un paesino come il nostro. La notizia si sarebbe presto diffusa e poi, si trattava di una persona malata e bisognosa di cure. Tra le altre cose, confidò a mio padre che loro già erano a conoscenza del fatto, perché lo avevano visto e fermato in una zona periferica del paese dove in genere la gente “poco raccomandabile” si appartava. Non so se mi spiego, ma questa è pedofilia, questo è difendere qualcuno che è sicuramente malato; significa lasciarlo libero di agire e far del male a quelli che saranno i nostri figli di domani. È incredibile pensare quanto ai giorni nostri conti ancora il potere e l’immagine, quanto l’ingiustizia possa restare nascosta e impunita solo perché artefice dell’atto è una persona che conta, un politico, un sacerdote, un signorotto.. Ma, d’altronde è sempre stato così da che esiste l’uomo. Sono sempre bastati i soldi e la forza ad averla vinta. Era ai tempi del Manzoni quando don Rodrigo ne “I Promessi Sposi” riusciva a fare il prepotente e ad averla vinta sui poveri, ma a quanto pare ancora oggi le cose non sono cambiate. A me la cosa non andò giù per niente, io non rischiavo nulla, badate bene, perché a Don Peppino piacevano i maschi e le sue “attenzioni” le dava solo a loro, ma non potevo assistere ad una tale ingiustizia, a tanto squallore. Era una questione di morale, di coscienza.

Mio padre pensò bene di lasciar perdere, anche perché aveva fatto fin troppo, aveva trovato tutte le porte chiuse e i diretti interessati non avevano voglia di parlare, se ne stavano indifferenti e quieti nelle loro case, come se la cosa non li riguardasse affatto.

Prima di mettere una pietra sopra l’argomento, però, mio padre fece un altro tentativo di “recupero” per quella che chiamavano “persona malata” e andò a parlare con la famiglia di Don Peppino, il quale per un po’ di tempo fu chiuso in una clinica per essere sottoposto a delle cure. Io da allora ho fatto di tutto per evitare di poterlo incontrare, ormai avevo paura di rispondere al telefono, di uscire, di rimanere in casa da sola, di poter incrociare di nuovo quello sguardo meschino. Mio padre mi proibì di andare in quella chiesa la domenica mattina, così avrei anche evitato di vedere il mio ragazzo.

Con Claudio continuai a starci ancora per poco; ormai qualcosa si era rotto, non lo sentivo più mio. Era come se lo dividessi continuamente con qualcuno; potevo vederlo solo di nascosto dai miei e lui ne soffriva tanto, mi scriveva ogni giorno una lettera, era dolce, forse troppo, s’era legato tanto a me; eppure le sue parole mi suonavano sempre tristi. Io iniziai a odiare i sacerdoti, m’erano crollate giù tante cose in cui credevo fermamente e per un adolescente non credo sia facile superare questi traumi. C’è voluto tanto tempo prima che riuscissi a credere di nuovo nelle persone, in alcune “figure”. Era troppo tardi per continuare a stare con Claudio, ormai non lo amavo più, o forse, avevo solo paura…

CAPITOLO 4

Piccole bugie

Erano passati tre mesi dall’ultima volta che lo avevo visto e in questo periodo, in cui ero caduta in un’apatia incredibile, dovuta alla sua assenza, ad un vuoto che non riuscivo più a colmare, non mi ero di certo arresa e avevo continuato a cercarlo finché un giorno non arrivò un suo messaggio: - Non lo merito. Sei troppo buona. Mi sa che è arrivato il momento di vederci e parlarne di persona. Kiss – Inutile dire che quel messaggio non diceva niente, ma per me risuonò come un invito a banchetto, non potevo dirgli di no e non lo feci. Sarebbe stata l’ultima volta in cui lo avrei visto, ma ci dovevo andare. Concordammo di vederci nel pomeriggio di quello stesso giorno. Era un sabato e lui mi aveva chiesto di stare insieme l’intero pomeriggio. Io avevo detto di sì, senza pensare a ciò che avrei dovuto escogitare con i miei. Era solo l’una, eravamo appena uscite da scuola, ed io ed Ely non facevamo che ripetere il nostro piano. Ovvio che era lei a dovermi coprire con i miei genitori. Sarei stata da lei per aiutarla a ripetere il programma della maturità e poi ci saremmo fatte un giro con i suoi. Questo era il piano. Poteva funzionare. Ely tanto doveva vedersi con Egidio e stavamo entrambe tranquille che i suoi, a causa del lavoro, non erano mai in casa, pertanto anche se i miei avessero chiamato o si fossero presentati lì, non avrebbero trovato nessuno. Se il piano non avesse funzionato e mi avessero “sgamata”, beh! non mi importava. Avevo una voglia matta di vederlo! Quel giorno a pranzo non toccai nulla, alla vista del cibo mi saliva la nausea, era come se tutto mi desse fastidio, forse era il senso di colpa misto alla paura, perché cercavo di non pensarci, ma la paura c’era… Iniziai a prepararmi: una goccia di Choco Chanel, il profumo buono di mamma, così da sentirmi più donna; la maglietta Coconuda rossa, la mia preferita, quella che scendeva morbida sui fianchi, così da nascondere qualche chilo di più, ma che al contrario metteva in evidenza un prosperoso decolté; un paio di jeans scuri, scarpe rosse di vernice con tacco a spillo, uno zainetto rosso in pelle, un po’ di trucco sul viso, un filo di lucidalabbra e i capelli raccolti in una coda fluente di riccioli ribelli. Mi rivedo ancora grassottella a guardarmi allo specchio e, come al solito, decidere di vedermi bene, quando dentro invece, non mi sentivo affatto tale.

Mi chiedevo ancora come mai lui, così bello, avesse accettato, anzi, voluto vedermi. Quando arrivò con la sua C3 verde mi sembrò che arrivasse bello come non mai nella luce di quel raggio di sole così tiepido, eppure tanto raggiante di quel pomeriggio da favola! Chissà dove mi avrebbe portata. Mi disse subito che ci saremmo spostati dal paese; io annuii, ma il bello doveva ancora arrivare. Io che mi sforzavo di farmi vedere forte e sicura di me, senza alcunché da temere, improvvisamente fui presa dal pensiero che qualcuno avrebbe potuto vedermi e così mi venne spontaneo raggomitolarmi per terra, accanto al sedile anteriore della macchina. Che figura! Se ci ripenso! Vedo ancora la faccia allibita di lui. Cosa avrà pensato? Che vergogna! Ma io stavo rischiando di brutto. Come pensate l’avrebbe presa mio padre, com’ è lui, se fosse venuto a conoscenza che sua figlia di 15-16 anni se ne andava in macchina con un ragazzo alquanto intraprendente e di ben quindici anni più grande di lei? Secondo me non si sarebbe fatto una risata!

Sorvoliamo sul tragitto in macchina, che io non ho visto, quando finalmente mi dice - Su, puoi guardare. Siamo arrivati - alzo la testa e di fronte a me vedo il mare. Una distesa infinita in cui rispecchiarsi, profonda, ma nei cui abissi nasconde dei segreti; questo mare, oggi calmo, sotto i raggi di un sole poco fa tiepido ed ora rovente, questa distesa che s’infrange piano sugli scogli, ma che è pronta a diventare mostruosa e desiderosa di carne umana, se solo si alza il vento. Guardo questo paesaggio e non mi sembra affatto diverso da lui. Simone è proprio come questo mare; sembra un ragazzo dolce e tranquillo, ma dentro… Lo so che mi farà male. Anche stavolta soffrirò e non so se riuscirò a sopportarlo.

Mi guardo intorno un po’ spaesata, siamo io e lui da soli in macchina e intorno a noi un paradiso di mondo pronto ad accoglierci, mentre sento salire dentro di me un brivido, che mi accarezza il corpo. Questa è voglia di lui! In pochi secondi realizzo che mi ha scaraventato stesa sul sedile con una piccola levetta posta in basso e, in un tempo record che neppure me ne accorgo, me lo ritrovo sopra che inizia a baciarmi. Quello fu per me il primo approccio un po’ spinto con l’altro sesso. Prima di allora c’erano stati solo sguardi intensi, baci e coccole innocenti. Quello che speravo si sarebbe dovuto rivelare come un incontro dolce, fatto di tanti abbracci, baci e coccole, di belle parole con tanto di corteggiamento, si rivelò una sorta di violenza subita.

Dove era la persona dolce, quella che aveva scelto un posto romantico per stare con me, quella che avrei dovuto conoscere meglio? In fondo io non lo conoscevo, non sapevo nulla di lui e si può dire altrettanto per lui nei miei confronti.

Sento ancora adesso la sua bocca su di me, muoversi con violenza, quasi volesse farmi male, la barba che mi irritava il volto e quella sua lingua che si insinuava nella mia bocca con veemenza, quasi con violenza, senza un briciolo di dolcezza. Quella mano che attraversava il mio corpo, fredda, gelida e frettolosa, quasi si trattasse di un cane affamato da giorni e messo davanti ad un pezzo di carne. Io che pensavo all’idillio amoroso, ad atti di dolcezza e donazione infinita, quasi “sacra”, verso l’altro, mi ritrovai a sentirmi come il suo pezzo di carne del giorno, o meglio, del momento. Si muoveva sopra di me dandomi piccoli colpi con il bacino e quell’andare su e giù senza un po’ di armonia, senza passione, come un automa, mi toglieva il respiro e sentivo dentro di me crescere la voglia di urlare, di allontanarlo e piangere mentre lo vedevo diventare sempre più rosso in viso, sentivo crescere il suo respiro, divenuto ansimante, fino a quando esausto, non si appoggiò con il capo sul mio petto quasi a voler trovare riposo, con un sorriso da ebete impresso sul volto. Era finita. Finalmente. Quell’atto, che non so ad oggi come definirlo ancora, non durò molto, ma quei minuti furono per me un’eternità. Non approfittò di me né quella volta, né le volte successive. Aveva capito dove fermarsi, non so se perché aveva trovato in me una barriera e non si sentiva assecondato, o se, come mi disse poco tempo dopo, perché io non ero ancora maggiorenne e non voleva essere considerato un pedofilo. Fatto sta che io non riuscii mai a spiaccicare una parola dopo o a fargli capire il mio disgusto e le mie difficoltà ad accettare la cosa. Dopo era come se si fosse liberato dallo spirito immondo che lo abitava e, ai miei occhi, tornava ad essere il ragazzo bello e dolce che ero desiderosa di vedere e avere accanto. Non so se la mia era paura di perderlo o più voglia di dimenticare tutto quanto accadeva in quella piccola parte di mondo. Per certi versi cercavo di farmi forza da sola. Era arrivato il momento di crescere.

Quel giorno tornai a casa con la sensazione del suo profumo sulla mia pelle, sentivo ancora l’odore della sua saliva sulle labbra, sul mio corpo, sentivo di essere stata oltraggiata, violata nell’intimo ma, soprattutto, mi sentivo amareggiata e svilita per il fatto di non essere riuscita a scambiare neppure due parole con lui. Mi lasciò là, dove mi aveva preso, salutandomi frettolosamente con un bacio sulla guancia e dicendomi che ci saremmo rivisti.

Nuova settimana fatta di studio, interrogazioni, compiti in classe e mille pensieri verso una persona che continuavo a vedere diversa da ciò che era. Solo ora a distanza di anni capisco che quella persona per me non ha mai provato nient’altro se non una forte attrazione fisica, mentre io continuavo a fissarmi su di lui, pur senza conoscerlo. Sapevo il suo nome, il suo numero di telefono, conoscevo casa sua, il suo cane, sapevo che amava le donne e si faceva amare, ma cosa conoscevo del suo carattere? Io non lo conoscevo. Era questo il punto fondamentale. Eppure dopo mesi di vari incontri iniziò ad uscire fuori qualche discorso, qualche domanda, mai troppo intima, mai più di qualcuna, perché lui era fatto così. Simone amava parlare poco e di niente, mai di lui; sapeva ascoltare, ma quello che più amava era andare dritto al sodo, perché anche quello fa parte o è importante in una conoscenza con una persona. Era un tipo “fuso”, fuori dagli schemi, uno egoista che pensava sempre e solo a se stesso, non si interessava dei giudizi della gente e faceva tutto ciò che gli balenava per la testa, senza tener conto di conseguenze o con la paura di far soffrire qualcuno; forse ero più fusa io, per il solo fatto di stargli dietro. Arrivò la settimana di San Valentino e lui era partito da alcuni giorni per Roma. Ogni giorno lo chiamavo o gli mandavo sms dicendogli che avevo voglia di vederlo e che mi sarebbe piaciuto trascorrere il giorno di San Valentino con lui; il fatto che ormai ci vedessimo sempre più spesso mi aveva portato a credere che lui stesse facendo sul serio con me, che si stesse legando e forse stesse anche iniziando a provare qualcosa, anche se di minuscolo, nei miei confronti. Io che mi ero invaghita di lui già dalla prima volta che lo avevo visto, immaginate ora, a distanza di mesi. Decisi di cogliere l’occasione per fargli un regalo, presi tutti i miei risparmi e andai a comprargli uno bello Snake d’argento indiano che gli avrebbe ricordato me ogni volta che l’avrebbe indossato, o almeno, questo era il mio intento. Quel regalo riuscii a darglielo parecchi giorni dopo in realtà, perché il giovanotto aveva pensato bene di prolungare il suo soggiorno nella capitale, ma la sua reazione nel vedere quel pacchettino con tanto di fiocco e la carta a cuoricini non fu proprio quella aspettata. Infatti, dopo averlo scartato, scaraventò lo scatolino per terra, sembrava una furia mentre continuava a ripetermi che non mi sarei dovuta mai permettere di fare una cosa del genere perché lui ed io non eravamo una coppia ed io dovevo finirla di comportarmi in quel modo. Cosa? Avete capito bene. Mi sa che qualcosa mi era sfuggita di mano. E allora che senso avevano i nostri incontri, che senso aveva mentire e rischiare tanto? Io con una forza e una dolcezza che non so neppure da dove mi vennero, cercai pure di giustificare il mio gesto dicendo che lui per me era una persona cara e a cui tenevo e per questo avevo voluto dimostrargli con un gesto carino quanto lo sentissi vicino a me in quel periodo. Poi si calmò. Iniziarono i baci, le coccole, le carezze. Mi sembrò molto più dolce delle altre volte e anche un po’ giocherellone. Anche io ero molto più rilassata. Il mio corpo si era abituato a quella presenza. Si muoveva su di me con movimenti alternati, ora lenti, ora energici e pieni di una forza, una vitalità e uno slancio di cui, prima di quel momento, non mi ero mai accorta. Il suo respiro era un crescendo in intensità insieme alle sue mani che sembravano non riuscire più a frenarsi e vagavano alla ricerca di non so quale spazio perduto, nascosto, illibato. Poi un abbraccio interminabile misto a tanti bacini sul collo quando, come al solito, si metteva nella posizione di un bambino tra le braccia della propria madre e con un sorriso bellissimo, mi toccava i capelli e voltandosi mi diceva: - Come sei bella quando ti vergogni e diventi tutta rossa! – Il mio corpo non si era abituato ancora a quella presenza, continuavo a rabbrividire come se fosse la prima volta ogni volta che si avvicinava, che mi sfiorava. Sul viso e sul seno mi uscivano tante macchie rosse e ne passava di tempo prima che ritornassi alla normalità! Quel giorno era ancora sopra di me quando iniziai a dirgli che non mi ero ancora saziata di lui e avevo voglia di continuare, anche se sapevo che lui, data la sua età, avesse bisogno dei suoi tempi. Non feci in tempo a finire la frase - credo che la mia provocazione lo avesse stuzzicato molto - che me lo ritrovai nuovamente avvinghiato, questa volta con un impeto e una passione mai avvertita prima, quasi a farmi capire di volermi fare sua. Meraviglioso! Solo che qualcosa andò storto. Prima di scendere dalla macchina mi accorsi che mi aveva lasciato un grosso succhiotto rosso sul collo, che era impossibile non notare, ma soprattutto, sarebbe stato difficile da nascondere, dato che ormai era quasi alle porte l’estate e faceva caldo. Ora ero proprio nei guai e mentre io mi disperavo lui mi rideva in faccia. Prima di tornare a casa passai da Ely, con la quale stetti mezz’ora a trovare un fondotinta in grado di coprire quel segno che, puntualmente, continuava a venire alla luce, quasi si trattasse di una punizione, di un castigo, per tutte le bugie che erano state dette da qualche mese a questa parte. Alla fine non rimase altra soluzione se non quella di indossare una bella sciarpina, da tenere rigorosamente allacciata intorno al collo, dalla mattina alla sera, e fingere di avere un gran mal di gola. Il bel livido durò una settimana e per di più fu notato sia da mamma che da papà una sera quando, indossato il pigiama, prima di andare a letto, dimenticai di annodare la sciarpina e il risultato fu quello di inventare una scusa alquanto banale e per di più poco credibile, quando mio padre si avvicinò e puntandomi contro l’indice inquisitore mi chiese cosa fosse. Giustificai, infatti, la presenza di quel livido come dovuta ad un’allergia provocata dal maglione di lana (con l’estate alle porte!!). Ovviamente i miei genitori non vi abboccarono, anche se mia madre, avendo intuito qualcosa, cercava di coprirmi con mio padre e allora mi sentii quasi in dovere di ripagarla del favore fattomi, dicendole la verità, ovviamente, la “mia” di verità, il che significava dirle qualcosa che si avvicinava alla verità, ma misto a delle piccole e innocenti bugie. Me ne uscii con la storia di un gioco tra amici in cui Simone si era avvicinato a me e, non sapevo bene se per sbaglio o per un pegno da pagare, era successo, così, involontariamente, che mi avesse lasciato quel piccolo segno. Inutile sprecare parole sulla reazione che ebbe mia madre davanti ad una confidenza simile - posto che la verità sarebbe stata per lei molto peggio - che mi rimproverò moltissimo iniziando a dire che Simone era un maleducato ed un irrispettoso, che aveva solo approfittato di me e della mia innocenza.

Da quel giorno ebbe per me nuovamente inizio un periodo nero, una vera e propria “via crucis” perché lui iniziò a non farsi più sentire e a negarsi quando lo chiamavo al telefono e poi tutte le domeniche lo vedevo uscire mano nella mano ad una ragazza, sempre la stessa. Che si fosse fidanzato seriamente? Non era da lui tutto ciò, ma dovevo scoprirlo. Solo così me ne sarei fatta una ragione e avrei cercato di dimenticarlo e questa volta, doveva essere per sempre. Intanto, continuavo a farmi le mie belle paranoie, lo seguivo con lo sguardo quando mi passava davanti, salutandomi a malapena, come se non ci fosse mai stato niente tra noi, fino a quando non li vedevo salire in macchina e dileguarsi verso chissà dove. Quello che fino a poco tempo prima era stato il nostro nido d’amore, ora, veniva violato, privato di un significato ed una magia che solo noi due potevamo creare. Noi insieme eravamo una forza della natura. Ed io, senza di lui, mi sentivo poco più di niente. Giugno era ormai alle porte e quella fu un’estate caldissima. La scuola era finita da pochi giorni e, nonostante Ely dovesse studiare per la maturità, decidemmo di dedicarci una bella giornata al mare io e lei, da sole, per dimenticare i brutti giorni passati e guardare al futuro con un po’ più di serenità. Ely però stava ormai da alcuni mesi con Egidio e pensò bene di dirgli che quel giorno andavamo al mare da sole. Egidio, da parte sua, pensò di fare una sorpresa alla propria ragazza e si presentò in spiaggia. Però aveva sbagliato del tutto le modalità di quella sorpresa dato che si presentò con il suo amico Simone. Ricordo benissimo la scena del loro ingresso trionfale in spiaggia. Una spiaggia deserta, solo nostra. Io ed Ely ci stavamo rilassando in acqua, un’acqua pulita e cristallina, ghiacciata, che ti entrava fino nelle ossa e ti temprava, ti rinvigoriva, ti donava una forza e un’energia che niente avrebbe potuto farci uscire da lì; niente a parte la visione dei due ragazzi che ci facevano battere il cuore. Simone ed Egidio arrivarono sulla spiaggia e notando le nostre cose sul bagnasciuga ebbero due reazioni alquanto differenti. Egidio si tolse immediatamente la maglietta, sfoggiando il suo fisico non proprio in forma, e si precipitò in acqua verso di noi, baciò e abbracciò Ely e da quel momento iniziò per loro un lungo bagno, l’uno avvinghiato all’altra, in cui io non feci che sentirmi di troppo, tanto da uscirmene per raggiungere l’energumeno che, non curandosi affatto della mia presenza, si era sdraiato guarda un po’, proprio sul mio di asciugamano, tutto vestito. Indossava un paio di jeans corti e una maglietta gialla con la scritta Puma verde, con cappuccio, aderente, tanto da far vedere il suo fisico da uomo scolpito e un paio di occhiali da sole ultimo grido, che gli conferivano un’aria da ribelle; i capelli erano bagnati e tenuti all’indietro da una fermacapelli, di quelli che usano le ragazze, di un rosso fuoco, dalla quale fuoriusciva qualche ciocca indomabile. Aveva un profumo fresco, buono, che riempiva l’aria tutto intorno. Era fighissimo, con la sua aria da bello e impossibile. Mi sedetti accanto a lui, in quel piccolo angolino vuoto che si era degnato di lasciarmi e lo salutai con un bacio sulla guancia e un : - Chi non muore si rivede! Ma che fine hai fatto ultimamente?-

Non ci fu alcuna risposta a quella domanda. Io lasciai perdere e fu come se niente si fosse interrotto tra noi, come se quella pausa non fosse mai esistita. Mi accoccolai davanti a lui e, dopo avergli sfilato la maglietta, iniziai a spalmargli la crema abbronzante sulla schiena, lungo il collo, avrei voluto continuare con quel movimento per sempre. Era meraviglioso sentire la sua pelle sotto le mie mani, attraversare quel corpo bianco, non ancora “cotto” dal sole; avrei voluto scendere nelle profondità di quel corpo, sentirne ogni singolo centimetro, baciarlo, quando lui all’improvviso mi tirò a sé. Sentii il mio corpo bagnato unirsi al suo caldo, avvolgente, iniziammo a baciarci e a toccarci dappertutto, senza curarci del fatto che Ely ed Egidio avrebbero potuto vederci. Mi sentivo accaldata, vogliosa, terribilmente presa da quell’uomo che pochi minuti prima avrei voluto dimenticare.

Dopo poco avvertimmo la presenza dei nostri cari amici e allora decidemmo di andare a fare un bagno per spegnere i bollori provocati dall’afa, che aveva reso l’aria irrespirabile, ma anche dai nostri ormoni, che avevano deciso di svegliarsi e darsi da fare proprio in quel giorno. Fare l’amore in acqua era un pensiero che tante volte mi era balenato per la mente, aveva qualcosa di tremendamente trasgressivo, ma se qualcuno me lo avesse detto, non ci avrei mai creduto che la mia prima volta sarebbe stata in acqua. Lui si muoveva così bene che sembrava un tutt’uno con il mare, era diventato la sua piccola onda, poi il suo vortice ed io mi lasciavo guidare dalle sue mani, dal suo corpo, da quel movimento che presto mi divenne familiare. Finalmente io e Simone eravamo una cosa sola, avevo deciso di vivermelo fino in fondo, senza dubbi, paure, cedimenti. Chi dice che la prima volta è deludente, evidentemente non ha conosciuto lui. Simone fu attento e premuroso; con un movimento da bravo prestigiatore mi sfilò il costume e lo sentii avvicinarsi piano, sempre più vicino, fino a penetrarmi. Che sensazione indescrivibile, che piacere immenso che derivava dal suo essere! Era tutto così perfetto, così bello, quasi irreale. Fare l’amore con lui mi aveva portato in un’altra dimensione, dove ovviamente non eravamo che noi e nessun altro. Il suo sguardo era magico, i suoi occhi lucidi avevano un non so che di forte, intenso; le sue labbra calde sembravano essere state create solo per baciare; le sue mani si fondevano perfettamente col mio corpo. Sembravamo le due metà perfette di uno stesso foglio, che ora si erano ritrovate e si stavano saldando per non lasciarsi più. Per la prima volta nella mia vita avevo rinchiuso nel cassetto la paura e il pudore. Sentivo solo di voler essere sua, completamente, e volevo che lui fosse mio. L’atto di sentirsi posseduti da qualcuno o di avere potere su qualcuno è di una goduria inimmaginabile. Quello fu il bagno della mia vita lungo come un sogno. Con lui ero diventata donna. Per lui mi sentivo donna ed ora gliene avevo dato la prova. Passammo tutto il resto della giornata abbracciati, passeggiammo lungo la spiaggia, aspettammo di vedere il sole tramontare, giocammo con gli altri a fare la lotta sulla spiaggia e chissà perché, ma le uniche che continuamente venivano scaraventate per terra eravamo io ed Ely. Quello fu un pomeriggio davvero indimenticabile. Non penso di aver metabolizzato subito quanto era accaduto in quella giornata. Mi sentivo felice per le sensazioni provate, per le emozioni e la passione con cui avevo vissuto la cosa, ma non ci avevo pensato neppure un attimo, non avevo riflettuto prima di fare un passo così importante e questo non era da me. Simone non era il mio ragazzo, non aveva detto di amarmi e io che avevo fatto? Avevo perso la mia verginità con uno che probabilmente l’indomani avrebbe dimenticato persino il mio nome. Solo dopo, quando parlai con Ely, iniziai a sentirmi uno schifo, forse non avevo preso una saggia decisione, ma ormai la frittata era stata fatta e a me non restava che soffrire in silenzio, portandomi dietro un dolore più grande di me e che non ero sicura di poter sopportare. Quella sera però mi ritornò il sorriso quando lessi sul cellulare il suo messaggio:- ehi diavoletta mia, oggi sei stata proprio fantastica. Ho ancora il tuo profumo sulla pelle, magari questa notte ti sognerò. Good night moon!-

Pensai che qualcosa stava cambiando. Simone si stava innamorando di me, me ne stavo convincendo. Quel messaggio era giunto proprio al momento giusto. Ora potevo andarmene anche io a dormire. E comunque anche io avevo il sapore della sua pelle sulle mie labbra, il suo odore, quella sensazione, quel contatto… ero sicura che anche io lo avrei sognato.

Il giorno dopo il mio amico Marco, nonché mio vicino di casa venne a darmi una bella notizia. Marco era qualche anno più grande di me, suo padre ingegnere, sua madre insegnante di filosofia, aveva passato l’infanzia in giro per il mondo e si era trasferito nel nostro paese da quando i suoi genitori si erano separati, per venire a vivere presso i suoi nonni materni, dopo essere venuto a conoscenza del fatto che suo padre si era rifatto un’altra famiglia. Da subito si instaurò tra noi una grande sintonia, era un ragazzo come pochi, molto sensibile, simpatico, ma il suo lato caratteriale principale era di essere un tipo introverso; riusciva a parlare solo con alcune persone, quelle che gli facevano aprire il cuore solo con uno sguardo, le “privilegiate” come le chiamava lui, e devo dire che conoscendolo non aveva tutti i torti, perché io quando stavo in sua compagnia mi sentivo proprio così. Non ho mai avuto il coraggio di chiedergli perché non si fidasse facilmente delle persone, fino a diventare a tratti persino ostile, ma credo che l’esperienza con i suoi sia stata talmente dolorosa e importante per lui, da lasciargli dentro dei segni indelebili. Non mi sono mai permessa di chiedergli più di quanto era lui stesso a dirmi e questo certo non per mancanza di interessamento nei suoi confronti; sebbene io sia sempre stata una persona molto curiosa, con lui non riuscivo ad essere tale. Avevo voglia di stargli accanto, volevo mi sentisse vicina, ma nello stesso tempo non volevo risultare invadente e lui questo lo capì sin dal primo istante; gli piaceva il mio modo di essere nei suoi confronti, lo faceva sentire libero di esprimersi o di non dire nulla. Passavamo un sacco di tempo solo a guardarci. Era come se tra noi si fosse insediato un codice di cui solo noi avevamo la chiave di lettura, era tutto naturale e senza spiegazione. Io e Marco diventammo amici inseparabili. Avevo bisogno di quella presenza, mi sentivo al sicuro e poi trascorrevo ore spensierate e felici. Con lui non ci si poteva annoiare. Aveva girato il mondo, conosciuto tante persone, era venuto a contatto con culture e tradizioni differenti dalle nostre e io restavo delle ore in silenzio ad ascoltare i suoi racconti così carichi di particolari, a volte intrisi di nostalgia, di amarezza, discorsi tipici di chi le cose le ha vissute, assaporate, toccate con mano. Marco era un artista. Amava la musica, l’arte e qualsiasi manifestazione esteriore dell’animo umano; amava il contatto con la natura, gli animali, era un cultore della bellezza in ogni sua manifestazione.

Quel giorno Marco arrivò da me con un sorriso a trecentosessanta gradi e mi illustrò il suo progetto-giovani per l’estate. Aveva deciso di organizzare un torneo di pallavolo e aveva convinto suor Marta a dare la disponibilità di allestire un campo di pallavolo nel chiostro del convento, e tra i partecipanti indovinate un po’ chi c’era? Simone, ovvio. Marco, conoscendo i miei sentimenti, nonché i miei segreti più nascosti, era venuto ad invitarmi all’inaugurazione che si sarebbe tenuta quella stessa sera e naturalmente fin qui non vi era nulla di strano, anzi, ero ben contenta della cosa e sarei dovuta essergli grata al mio caro amico, ma quella sera venni a conoscenza della bella sorpresa che Marco aveva deciso di farmi. Mi aveva iscritta al torneo nella squadra avversaria di Simone. Io? Ma si era forse ammattito? Proprio io che con lo sport non avevo mai avuto un buon rapporto. Non ne parliamo poi con la pallavolo! Era uno sport che non potevo proprio sopportare… La palla era mia nemica e poi quale modo migliore per rendermi ulteriormente ridicola agli occhi di una persona per cui già ero invisibile! Questa volta Marco aveva proprio esagerato e, cosa peggiore, io non potevo più tirarmi indietro. Dovevo escogitare un piano e anche al più presto. Avrei preso lezioni private, qualsiasi cosa pur di fare colpo su Simone. Tra alti e bassi, il torneo finalmente giunse alla fine. La maggior parte delle partite rimasi in panchina a guardare e a fare il tifo per gli avversari; nelle partite in cui la mia presenza era strettamente necessaria per fare numero, mi ritrovavo ad essere protetta da due grandi giocatori, i quali, alla vista dell’arrivo della palla lungo la mia traiettoria si lanciavano a coprire il campo e mi impedivano finanche di provare a prendere quella benedetta palla, non facendo che sottolineare la mia imbranataggine, in difesa della squadra. Era la sera della finale e mi ritrovavo a giocare contro la squadra di Simone; lo vedevo saltare oltre la rete, correre, divertirsi, dare ordini ai suoi compagni di squadra, esultare e incavolarsi subito dopo se qualcosa non andava come doveva; ogni tanto si volgeva a guardarmi, o forse quella era solo la mia impressione. Mi sentivo felice. Mi bastava guardarlo. Lo avevo vicino. E per la prima volta non lo dovevo condividere con nessun’altra. Era solo mio. Quella partita fu per me una vera disfatta. Capitai più volte in posizione centrale, sotto la rete, con lui dall’altra parte. Una vera barzelletta. Ma come avrei potuto fare a schiacciare o alzare la palla, io alta un metro e sessantatre quando dall’altra parte c’era lui che era alto un metro e novanta. Ovviamente questo non arrivava ai miei compagni di squadra che continuavano ad urlare: - Forza! Dai! Buttati! Ma che la palla ti mangia? Non vedi che sei più grossa te?- Ero costretta a subire anche questo. Marco avrei voluto strozzarlo se solo lo avessi avuto tra le mani. La squadra di Simone risultò la vincitrice del torneo. Stavano per iniziare i festeggiamenti! Lui tutto sudato sorrideva ai suoi compagni che iniziarono a buttarsi sopra di lui, a strattonarlo chi di qua e chi di là, a bagnarlo con lo spumante appena stappato, mentre io mi accontentavo di assistere come una spettatrice, come un’estranea, dal di fuori del chiostro, nell’angolino che mi ero ritagliato e dove speravo che lui mi venisse a cercare. Dopo qualche minuto, anche se a me parve un’eternità, lui si voltò verso di me ed io gli feci un sorriso compiaciuto, quasi a dirgli: - Bravo! Bella partita! - oppure devo avergli fatto solo pena tanto da spingerlo a raggiungermi. D’improvviso ogni luce fu spenta e mi ritrovai avvolta tra le sue braccia, persa in un lungo e profondo bacio. Sentivo la sua pelle bagnata di sudore a contatto con la mia e tutto ciò creava in me delle sensazioni forti, mai provate. Simone mi sapeva di uomo, lo desideravo da morire, avrei voluto rimanere così per sempre, ma presto la luce tornò. Si staccò da me immediatamente con un freddo - Ci sentiamo! - . Non riuscivo a capire e in realtà non riesco a spiegarmelo tutt’oggi com’è che lui riuscisse ad avere una tale influenza su di me, come riuscisse a manipolarmi, ad influenzare il mio modo d’essere e i miei comportamenti, a farmi sentire sempre inadeguata, non apprezzata, direi quasi non all’altezza. Eppure era così che mi sentivo. Io che ero una ragazza solare ed entusiasta della vita, anche se con le mie tante paranoie da “normale” adolescente, mi stavo spegnendo, sentivo la mia vita eclissarsi, scivolarmi di mano, uscire dal mio corpo per andare alla ricerca di non so neppure io cosa. Chi volevo essere? Chi dovevo diventare? Cosa fare per ricevere le sue attenzioni in pubblico? Non mi è mai passato per la mente di trovare una giusta motivazione a quel suo comportamento come se dovuta all’età che ci separava, né riuscivo a vedere in lui il marcio che tutte le persone a me care vedevano; io lo sentivo sincero nei miei confronti, quando mi guardava, quando mi sfiorava, sentivo dei brividi che pervadevano il mio corpo. Ero come invasata… La colpa, quindi, non poteva essere che mia. Ero io a non essere abbastanza attraente, ero io troppo timida e impacciata e a volte anche un po’ goffa nelle movenze, forse non ero abbastanza “donna”. Sì, non poteva che essere colpa mia. Per questo mi crucciavo, stavo male, piangevo, mi disperavo e lo cercavo! Possibile che un’adolescente può arrivare a dipendere da un uomo? Le mie amiche si erano ormai arrese, anche Ely, che era una delle poche che inizialmente aveva incoraggiato alcuni miei atteggiamenti, ora cercava di dissuadermi, affinché lo lasciassi perdere. Io me ne uscivo con le solite frasi sdolcinate, da endovena: - Come faccio a lasciarlo perdere - mi ripetevo - è come chiedere agli uccelli di abbandonare il cielo o ai pesci di lasciare l’acqua del mare, cosa pensi risponderebbero? Allora ormai si era creata una situazione per cui o soffrivo in silenzio, o ne parlavo e gli altri si limitavano ad ascoltare e ad assecondarmi.

Dal giorno del torneo passarono mesi senza sue notizie, senza un messaggio, senza una chiamata, senza un incontro casuale in quello che era il nostro piccolo paese, ma io non riuscivo a dimenticarlo, non riuscivo ad innamorarmi di nessuno.



L’emozione…….di diventare mamma (2013)


Caro amore mio,

quando io e papà abbiamo saputo della tua esistenza eravamo al settimo cielo! Ricordo ancora la faccia del dottore mentre me lo diceva, io che continuavo a guardarlo interdetta, senza riuscire a crederci, mentre tutti i test di gravidanza continuavano ad uscire negativi. Sei stato un’emozione bellissima dal primo istante, indescrivibile poi i momenti che sono venuti dopo, quando ho iniziato a sentire battere il tuo cuoricino e poi sentirti muovere dentro di me e avere la sensazione di avere nella pancia una farfalla che apre le ali…sentire i calci e correre per paura dal medico ogni volta che non ti sentivo più. Sono stati i nove mesi più lunghi della mia vita, non facevo che immaginare il tuo volto e pensare al nome che ti avrei dato, non vedevo l’ora di averti tra le braccia. Poi, finalmente il 12 febbraio 2013, alle 10.20 del mattino, mentre fuori diluviava, sei nato tu: un batuffolino di 3,350 kg. Che emozione incontrare i tuoi occhioni che mi fissavano, vedere le tue labbra unirsi quasi a volermi dare un bacio…Eri così piccolo, così indifeso, così meravigliosamente unico, da avermi fatto sentire per la prima volta nella mia vita importante. Tu sei stato, sei e sarai sempre il capolavoro della mia vita! Nella vita ho fatto tanti sbagli, tante scelte che col senno di poi non rifarei, ma tu sei il mio universo, il centro del mio mondo, la cosa più preziosa che ho e con te sono certa di non aver sbagliato nulla, con te mi sono accorta di aver raggiunto la felicità che mi mancava e quella completezza che ha dato un nuovo volto e una nuova atmosfera alla nostra vita. Con il tuo arrivo tutto è cambiato. Un bambino ti cambia, anzi ti stravolge la vita, cambiano i ritmi sonno-veglia, cambiano le abitudini, cambia tutto. All’inizio è tutto molto difficile, ti accorgi che tu non esisti più come persona, io mi sentivo solo mamma e facevo tutto in funzione di te. Era diventato impossibile anche organizzare un’uscita o sistemarmi come ero solita fare. È un cambiamento importante un figlio. Poi pian piano abbiamo imparato a conoscerci ed è stato bello vederti crescere, fare le tue prime cose: i primi passi, le prime parole, il primo bagnetto, il primo Natale…con un bambino è tutto primo! Non so se sono la mamma che tu desideri, so di non essere perfetta, infatti mi chiami strega quando non ti accontento o ti rimprovero per qualcosa, non so in realtà se tu abbia mai percepito realmente quello che è il mio amore per te, ma sono certa del legame che ci unisce, sono certa che quel filo che ci ha tenuto uniti quando eri ancora nella pancia, continuerà a tenerci uniti indissolubilmente per l’eternità, perché l’amore di una madre per il proprio figlio è qualcosa che non si può spiegare a parole, si può solo provare. Tu sei il respiro dei miei respiri, il sole delle mie giornate, il sangue che mi scorre nelle vene… Tu amore mio sei la mia stessa vita. Ripeto, forse non sono una mamma perfetta, ma spero che apprezzerai un giorno i miei sforzi per esserlo, e giustificherai i miei errori con l’amore che provo per te. Ti auguro nella vita di realizzare tutti i tuoi sogni. Io ti prometto che ti sarò sempre vicino, ora, tenendoti ancora per mano, poi, man mano che crescerai, guardandoti a distanza…ma sappi che io per te ci sarò sempre, io sarò il tuo scudo, io sarò la roccia a cui potrai aggrapparti durante le difficoltà. Sei un figlio speciale, sei la parte migliore di me, nonostante mi fai arrabbiare, nonostante non stai un attimo fermo, nonostante tutto…senza di te non potrei mai vivere. Ti amo di un amore immenso,

tua mamma!


Quello strano guazzabuglio che è il cuore (2020)

Il cuore. Cosa pensate quando sentite la parola cuore? Ebbene si vi è mai capitato di pensare al cuore? È un organo grande quanto il nostro pugno eppure è di vitale importanza per la nostra vita. Se il cuore cessa di battere non esistiamo più. Il cuore fa scorrere il sangue nelle nostre vene, il cuore ci permette di correre, saltare, vivere.. ed è dal cuore che partono tutte le nostre sensazioni, le nostre emozioni. Quando ci siamo innamorate per la prima volta era dal cuore che ce ne accorgevamo…a me batteva all’impazzata, sembrava volermi uscire dal petto. Quella meravigliosa sensazione di leggerezza, di allegria quasi stupida che ti fa camminare ad un metro da terra. Quando sei arrabbiato, nervoso, deluso, quando subisci un torto…lì hai un colpo al cuore. È sempre lui che ne risente. È un organo, è un muscolo, ma sembra avere vita propria. Vive dei nostri sentimenti, si alimenta delle nostre emozioni. Il cuore…il cuore…quello strano guazzabuglio che è il cuore! Mi è sempre piaciuta questa espressione usata dal grande Manzoni ne “I Promessi Sposi”, credo che non avesse potuto trovare un termine più azzeccato per descriverlo. Il cuore è un’accozzaglia di sentimenti contrastanti. Lo trovo fantastico ed ogni giorno più vero. A chi non è mai capitato di sentirsi felice, entusiasta e poco dopo triste, deluso o arrabbiato. Il nostro cuore è così, vive dei nostri umori, risente delle nostre esperienze belle e brutte…quante volte ci siamo lasciati trasportare dal cuore e non dalla testa…Spesso ci troviamo di fronte ad un bivio. Due scelte completamente diverse da fare, una assecondando la mente, la ragione, l’intelletto e quindi ciò che appare sia la cosa più giusta da fare agli occhi di tutti e l’altra, meno comprensibile, forse spropositata ma presa col cuore. Io tendo a privilegiare la seconda. Io scelgo col cuore!



Uno strano gioco del destino (Racconto scritto nell'aprile 2020)

< Clodette, Clodette, aspettami!>

< Ciao John, scusami ma sono in ritardo. Il procuratore distrettuale mi aspetta tra meno di cinque minuti nel suo ufficio, per la perizia sulla famiglia Thompson. Stanotte ho fatto tardissimo, non riuscivo a buttare giù neppure qualche riga e stamattina la sveglia è suonata troppo presto, non avevo chiuso occhio e ora… Mi dispiace, scusa ma devo proprio andare. Ci sentiamo>.

< Clodette, sei libera a pranzo? Ci facciamo uno spuntino veloce? È da tre giorni che cerco di parlarti, ma ti dai latitante>

< John ti chiamo appena posso… guarda non è proprio giornata. Il procuratore mi aspetta e poi devo incontrarmi allo studio con un paziente, è importante, non penso che riuscirò a liberarmi per pranzo, ma ti richiamo. Sta’ tranquillo>.

John la vide dileguarsi sulle scale del palazzo del procuratore. Era il venticinque giugno, ore nove del mattino. Clodette era solo un’amica- purtroppo per lui, che ne era innamorato da diversi anni!- Appena l’aveva conosciuta si era innamorato dei suoi grandi occhi da cerbiatta, color nocciola, del suo caschetto liscio e lucente da farla sembrare sempre una bambina, della sua pelle rosea e profumata, ma lei non aveva voluto saperne nulla e aveva messo subito le cose in chiaro: dovevano essere solo amici. E il povero John, pur di non perderla era deciso a rimanerle accanto, in silenzio, di soppiatto, sperando che un giorno si sarebbe ravveduta, perché ogni volta che la incontrava il cuore gli balzava nel petto e sembrava volesse uscire fuori e quando non la vedeva era come se gli mancasse l’aria nei polmoni.

Clodette era una psicologa. Lei e John erano andati alle medie e alle superiori assieme, poi lei si era scritta a psicologia e lui era diventato un brillante avvocato. Si erano persi di vista per anni, poi il caso aveva voluto che si rincontrassero presso l’ufficio del procuratore Mullen, perché seguivano il caso della famiglia Drussemen. Da quel giorno lei entrò nel suo cuore e vi fece breccia.

Erano le tre del pomeriggio quando squillò il telefono di John. Lo schermo si illuminò e sul display comparve il suo nome lampeggiante: < John ti disturbo? Avevo due minuti liberi e ho pensato di chiamarti. Il caso dei Thompson è stato molto più impegnativo del previsto. Quel tuo collega, poi, come si chiama? Richard… si, è un uomo odioso, senza scrupoli. Ha insinuato una serie di dubbi nel procuratore e ha asserito che io non avrei fatto una perizia psichica adeguata sul ragazzino, solo per riuscire ad allungare i tempi, trovare qualche indizio in più per scagionare il suo cliente e spillarli più soldi. E il procuratore ci è cascato. Ora dovrò ricominciare tutto da capo. Pensavo che questo caso sarebbe stato archiviato e invece…>

< Dalla tua premessa deduco che non riusciremo a vederci neppure stasera. O è solo un modo per evitarmi? Dai, scherzo! Sai com’è Richard, ti avevo già messa in guardia, purtroppo è fatto così, lui non ama il suo lavoro come me e come te, per lui contano solo i soldi e i clienti non sono persone da difendere, ma numeri e parcelle. Ora come hai intenzione di muoverti?>

< Ho già parlato con la signora Thompson, la vedrò domattina e poi vedremo di concordare un incontro con il piccolo Lucas, che ora si trova presso la casa famiglia di Los Angeles…- Aspetta in linea John, mi chiamano sul cellulare e devo rispondere. È un mio paziente che sto cercando di rintracciare da giorni e non risponde, ha saltato anche la seduta di oggi e sono molto preoccupata…­- Signor Marcus, ma che fine ha fatto? Ero molto preoccupata. Si calmi. Che succede? Ascolti, parli piano la sento male. Dove si trova in questo momento? Non faccia stupidaggini, mi dica dove si trova e la raggiungo immediatamente. Allora venga lei da me nel mio ufficio e ne parliamo con calma. Non urli, si calmi. Signor Marcus è solo? Chi c’è con lei? La prego voglio solo parlarle. Ok la aspetto nel mio ufficio.- John scusami ma devo chiudere. Ho una situazione molto urgente da risolvere>.

< Clodette, aspetta. Non riagganciare. Cosa sta succedendo? Ma chi era? Sono preoccupato per quello che ho sentito. Clodette, tutto bene?>

Tu tuuuuuuuuuuuuuuu… Aveva riagganciato.

Erano le otto di sera e John era molto preoccupato per Clodette. Non riusciva a togliersi dalla testa quella telefonata. E se quell’uomo l’avesse minacciata? Se le avesse fatto del male? Se lei avesse bisogno di aiuto? Doveva fare qualcosa e subito. Uscii di casa. Fuori si era alzato un forte vento e il cielo sembrava nero all’orizzonte. Stava per arrivare un acquazzone estivo o era il presagio che fosse accaduto qualcosa di terribile? John era un tipo molto superstizioso e credeva nelle sensazioni. E lui quella sera aveva una brutta sensazione. Si precipitò sotto il suo ufficio. Dalla finestra usciva la luce di una lampada. Clodette doveva essere ancora là. Provò a suonare il campanello, ma non gli rispose nessuno. Allora la chiamò al telefono. Niente. Suonava a vuoto. In quel momento un vecchio signore usciva con il suo cagnolino dal portone del palazzo e John gli fece cenno di lasciare aperto perché aveva dimenticato le chiavi e si intrufolò su per le scale.

L’ufficio di Clodette si trovava al secondo piano di un antico palazzo signorile, dove abitavano oggi una decina di famiglie, in quella che in passato era stata la casa di sua nonna. Dopo la morte della nonna, con cui aveva sempre vissuto dall’infanzia- dato che era rimasta orfana dei genitori quando aveva solo quattro anni- le era toccata in eredità insieme ad un piccolo cottage fuori città, immerso nel verde e a pochi passi dal mare. Pertanto non ci aveva pensato due volte a trasferirsi a vivere nel cottage, dove poteva stare a contatto con la natura, in quel paradiso dove avrebbe potuto ritrovare se stessa, riflettere sui suoi pazienti e analizzarsi. Mentre quell’appartamento al secondo piano sarebbe stato perfetto come studio. Lo aveva arredato con stile. Aveva fatto dipingere le pareti con colori caldi e rilassanti, aveva fatto installare un impianto stereo di ultima generazione, in modo da accogliere i suoi pazienti in maniera dolce e farli sentire a casa. Aveva curato ogni dettaglio. Le luci, le poltrone, le librerie, le sedie, ogni cosa aveva un senso. Nulla era stato lasciato al caso. Clodette era una persona solare, estroversa, le piaceva stare con le persone, era altruista, comprensiva e sapeva ascoltare. Era anche puntigliosa ed estremamente precisa. Non faceva mai tardi ad un appuntamento. Era rigorosa negli orari e al primo posto nella sua vita c’erano i suoi pazienti. Il lavoro era tutta la sua vita. Forse era per questo che aveva deciso di non crearsi una famiglia. Diceva di non avere tempo per frequentare gli uomini e che si sentiva bene così. Non esistevano giorni di festa o domeniche, compleanni o vacanze. Era solo lavoro. E quel poco di tempo che le rimaneva lo trascorreva nel suo cottage a leggere oppure a passeggiare sulla spiaggia con Argo, il suo compagno fedele. Era stato un regalo di suo padre in occasione del suo quarto compleanno. Quando lo vide la prima volta era un batuffolo di pochi giorni, marroncino sfumato, con una macchia bianca sul naso e un fiocco azzurro legato attorno al collo. Clodette come lo vide se ne innamorò e da quel giorno non se ne separò più. Quando John aveva cercato di farle capire ciò che provava per lei, Clodette se n’era uscita dicendo che nella sua vita c’è posto per un solo uomo e quello era Argo, il suo cane, tanto da suscitare in John una sorta di fastidio e gelosia. Quanto avrebbe voluto essere come quel cane per ottenere le sue attenzioni, le sue carezze, per avere la possibilità di camminarle accanto sulla spiaggia, di dormirle vicino, di difenderla quando ne avesse avuto bisogno. Certo che Argo era proprio fortunato!

Arrivato davanti alla porta dello studio John iniziò a suonare il campanello, a bussare coi pugni e a chiamare forte il suo nome. Da sotto la porta si intravedeva solo una luce accesa, ma all’interno nessun rumore. Possibile che avesse dimenticato la luce accesa? Provò a chiamarla nuovamente al telefonino e lo sentì squillare al di là della porta. Accidenti, Clodette! Che fine hai fatto! La preoccupazione crebbe con lo scorrere dei minuti. Non poteva aver dimenticato anche il suo cellulare. O le era successo qualcosa o si era sentita male. E se fosse caduta svenuta là a terra e avesse perso i sensi? Magari aveva bisogno di aiuto e non riusciva a parlare. Doveva fare qualcosa e subito. Ovviamente il buon senso lo avrebbe dovuto portare a chiamare la polizia e dare l’allarme, ma in quel momento l’istinto e i sentimenti che provava verso quella donna lo spinsero a fare da solo. Iniziò a colpire con le spalle la porta e a dare spintoni e calci, tanto che alla fine riuscì ad entrare. Lo studio era vuoto. Neppure l’ombra di Clodette. La sua borsa e il suo cellulare erano sulla sua scrivania e anche le chiavi della macchina. Non doveva essersi allontanata per molto tempo allora. Poi l’occhio andò a finire sul pavimento. Vi erano fascicoli rovesciati a terra e calpestati, documenti strappati e dei nastri rivoltati sulla poltrona. Quelle dovevano essere le registrazioni delle sedute con i suoi pazienti. La cosa risultava molto strana. O qualcuno si era intrufolato alla ricerca di chissà cosa, o lei aveva perso qualche documento e aveva rivoltato la stanza a quel modo e poi era corsa chissà dove a cercare ancora. John avrebbe tanto voluto che fosse vera questa seconda ipotesi, ma conoscendo Clodette non poteva essere stata lei a fare quello scempio, allora doveva essere stato qualcun altro e questo significava solo una cosa: lei era in pericolo. John si ravvide e chiamò subito la polizia che una volta accorsa sul posto, ovviamente lo incolpò di avere alterato le prove entrando e rovistando nello studio della sua amica senza autorizzazione. Ora, essendo un avvocato, sapeva che anche lui sarebbe rientrato nella lista dei sospettati, ma non era riuscito a rimanere lucido e aveva agito d’impeto, cosa che gli succedeva poco nella sua vita, ma Clodette lo inebriava e gli faceva perdere il senno. Ora non gli importava di essere nel mirino della polizia, ciò che contava era ritrovare Clodette sana e salva. Dopo poco fu interrogato e potette spiegare come erano andate veramente le cose, dell’amicizia che lo legava alla donna, di quella telefonata strana di un certo signor Marcus che era arrivata proprio ad interrompere la loro discussione e dell’agitazione che aveva avvertito nelle parole della sua amica. Ovviamente tutto sarebbe stato appurato con i tabulati telefonici. Lui sarebbe dovuto rimanere a disposizione. Ma tanto dove sarebbe potuto andare? Aveva bisogno di notizie. Poco dopo la polizia informò John che la telefonata era stata fatta da un certo signor Marcus Lee, un uomo senza precedenti, assolutamente un buon uomo, un grande lavoratore, padre di famiglia, ma che negli ultimi tempi pare avesse iniziato a soffrire di depressione, da qui la decisione di iniziare alcune sedute presso uno psicoterapeuta. John non aveva mai sentito parlare Clodette di quest’uomo. Quel nome non gli era affatto familiare. E poi Clodette era una donna estremamente professionale; si, è vero spesso parlavano di lavoro insieme, si confrontavano, si sfogavano, ma lei non si era mai permessa di fare i nomi dei suoi pazienti o confidenze personali. A casa sua era tutto in ordine, come aveva lasciato lei la mattina prima di uscire. Quando la polizia entrò Argo corse verso la porta scodinzolando, aspettando di vedere la sua padrona, poi, come se avesse capito quello che era successo, si mise ai piedi del divano e stette lì a piagnucolare come un bambino, con gli occhi e lo sguardo afflitto, anch’esso in pena per la sorte della sua padrona.

Erano passate dodici lunghissime ore da quando si era persa ogni traccia di Clodette. Sembrava essersi volatilizzata sia lei che quest’uomo, questo Marcus. Non può che esserci lui dietro alla sua sparizione. Cosa le avrà fatto? Marcus Lee viveva da solo in una piccola casa della periferia. Sposato con un figlio di sei anni, la moglie lo aveva lasciato ed era fuggita via con un altro uomo e il bambino. Sembra che da allora fosse diventato un tipo taciturno e depresso tanto da non riuscire neppure a lavorare. Il suo datore di lavoro lo conosceva da vent’anni e su di lui aveva sempre potuto contare. Erano amici, prima che colleghi. Marcus era sempre stato un uomo fidato, lavoratore instancabile e scrupoloso, ma da quando sua moglie se n’era andata con il bambino era cambiato e aveva iniziato a lavorare male, dimenticava le cose, arrivava in ritardo, se ne andava quando voleva, così all’improvviso, poi iniziò anche a bere sul posto di lavoro e a litigare e discutere con i compagni sul cantiere. Fu ripreso più e più volte, si scusò con il suo amico, dicendo che non sarebbe più successo e che per lui era un periodo difficile. Tutti gli diedero una possibilità. Però ormai erano tre settimane che non si presentava a lavoro e non rispondeva al telefono e il suo datore di lavoro gli mandò una lettera con cui gli faceva presente che non avrebbe più lavorato al cantiere. Ormai era fuori. Poche ore dopo aver ricevuto la lettera si presentò al cantiere ubriaco, iniziò a urlare e a dare calci a tutto. Sembrava impazzito. Aveva finito col ferire anche due uomini che lavoravano lì credendo che dalla loro assunzione fosse scaturito il suo licenziamento. Solo dopo che il padrone lo minacciò di chiamare la polizia si allontanò. Poi i suoi colleghi decisero di non denunciarlo e far cadere la cosa lì per non peggiorare la sua situazione psicologica, che ormai era diventata precaria.

La polizia continuava a cercare nei pressi del cottage, nei paesi limitrofi, nelle campagne, vicino ai torrenti,ma nulla. Nessuna traccia dell’auto di quell’uomo, non un indizio lasciato, non una telefonata per un riscatto. Niente di niente. Più passava il tempo, più cresceva in John il timore che non l’avrebbe mai più rivista. Dopo trentasei ore dalla scomparsa un uomo si presentò al commissariato dicendo di avere avvistato la donna scomparsa e il presunto pazzo-rapitore in un paese vicino, nei pressi di una farmacia. L’uomo era molto sudato e farfugliava, sembrava alterato. La donna sembrava tranquilla, lo conosceva di sicuro, anche se aveva qualche graffio sul collo. Erano scesi tutti e due nella farmacia, avevano preso qualcosa e poi si erano infilati di corsa in macchina. L’auto fu trovata poco dopo nella stessa zona in cui erano stati avvistati. Era parcheggiata vicino a dei casolari abbandonati. Un tempo doveva trattarsi di stabilimenti industriali che oggi cadevano a pezzi. Alle finestre solo vetri rotti, le porte completamente assenti erano occupate da compensati in legno, dentro niente acqua o luce. Anche il pavimento sembrava sollevato e di tanto in tanto si vedeva uscire tra una piastrella e l’altra dell’erbetta. Doveva essere stata la tana di zingari e delinquenti. In molte stanze vi erano materassi consumati, che puzzavano di umido per terra, letti di fortuna al riparo della pioggia, raggruppate ad un angolo delle plastiche trasparenti che molto probabilmente fungevano da coperta e avanzi di cibo. Dopo aver cercato in diverse stanze trovammo nell’ultima stanza al secondo piano il corpo riverso a terra di una donna. Era Clodette. Non poteva essere morta. Non così, senza un motivo. Non era giusto. Intorno a lei una pozza di sangue. Gli investigatori dei RIS e la polizia si avvicinarono. Fortunatamente respirava ancora. Una ferita le aveva trafitto il petto, ma molto probabilmente il proiettile aveva finito solo con lo sfiorarla e il colpo non era stato mortale. Dell’uomo nessuna traccia. Mentre continuarono a perlustrare la zona, un’ambulanza condusse Clodette in ospedale. John si precipitò da lei, ma quando arrivò era già entrata in sala operatoria e non gli permisero di vederla. Iniziò a piangere e a pregare che tutto finisse nel migliore dei modi. Doveva vederla, doveva parlarle ancora una volta e dirle una volta per tutte ciò che provava veramente per lei. Dopo circa tre ore uscì il chirurgo dalla sala operatoria e disse a John che l’intervento era perfettamente riuscito. Avevano estratto il proiettile che si era conficcato in una zona critica tra il polmone e il cuore, ma che per qualche miracolo, non aveva toccato né uno né l’altro. John iniziò a piangere dalla gioia e chiese di vederla, ma gli fu negato. La donna era stata portata in terapia intensiva, dove doveva rimanere per dodici ore. Era meglio per lui andare a casa a riposare. L’indomani poteva tornare per avere notizie e avrebbe potuto vederla solo dopo che fosse uscita dal reparto di terapia intensiva. Quella notte John non riuscì a chiudere occhio. Continuava a pensare a quell’uomo che avrebbe potuto ucciderla e non riusciva a darsi una spiegazione a tutto l’accaduto. Se si trattava di un pazzo e uno squilibrato sarebbe potuto tornare in ospedale a finire ciò che aveva iniziato e se la sarebbe presa nuovamente con Clodette. Doveva andare a sorvegliare la sua stanza, ma i medici gli avrebbero impedito l’accesso. Erano le tre di notte, quando girandosi e rigirandosi nel letto in attesa che il sonno accorresse in suo aiuto, decise di sollevare la cornetta e chiamare la polizia. Il comandante Fourier gli riferì che quell’uomo era stato ritrovato e che non avrebbe mai più potuto fare male né alla sua amica, né a nessun altro. Era morto. Ora non rimaneva altro da fare che aspettare che Clodette si svegliasse e raccontasse a tutti come erano andate veramente le cose.

Il giorno dopo John si alzò di buon mattino, preparò la sua tazza di caffè forte e si mise sotto la doccia per vedere di togliersi di dosso l’ansia, il torpore e l’agitazione che lo avevano accompagnato durante la notte. Con il vapore e l’acqua bollente che scrosciava sulla sua pelle abbronzata si sentì rigenerato, si vestì e uscì di corsa diretto verso l’ospedale. Giunto lì chiese notizie di Clodette. Le infermiere e i medici furono tutti molto gentili e premurosi, ma gli dissero che ancora non poteva vederla. La situazione era stazionaria e a quanto aveva dovuto subire era già un buon segno. Decise allora di andare a lavoro e sbrigare qualche questione. Sarebbe ripassato in serata, ma giunto sulla porta d’ingresso dell’ospedale si rese conto che con la testa era altrove, non sarebbe riuscito a combinare nulla, perciò si sedette sulla panchina del parco antistante l’ospedale. Il suo sguardo rivolto alla sua finestra, pensava che Clodette sarebbe riuscita a percepire la sua presenza e magari si sarebbe svegliata prima. Le ore sembrarono interminabili, peggio della notte già trascorsa. Dinanzi a lui vide passare prima una mamma con il suo bambino nella carrozzina. Un bambino vispo e sorridente che si guardava attorno curioso e molleggiava i piedi contro il pupazzo attaccato al lato della carrozzina. Di fronte a lui due anziani chiacchieravano del tempo trascorso e di vecchie storie, seduti uno su una panchina, l’altro poggiato alla sua bicicletta. Il sole era alto nel cielo, nel parco una ragazzina camminava mano nella mano con il suo fidanzatino, sembravano felici, lui la guardava, lei arrossiva e si tirava i capelli dietro l’orecchio quasi a voler distogliere il suo sguardo dagli occhi di lui e non lasciar intravedere il suo imbarazzo. Le finestre dell’ospedale erano tutte aperte. Sul balcone grande che dava sul corridoio c’erano persone affacciate a fumare. Doveva essere iniziato l’orario delle visite. Una bambina passava saltellando dinanzi a lui, mano nella mano con il suo papà, aveva in mano un fiore e delle scarpette blu piccolissime…molto probabilmente stava andando a trovare la sua mamma che aveva appena dato alla luce il suo fratellino. Il suo sguardo era radioso, come quello di suo padre e la loro andatura leggiadra. John li seguì con lo sguardo per tutto il vialetto, finché le loro sagome non si persero nell’ ingresso dell’ospedale. Poi fu attratto da una donna che invece usciva da quella porta, piangendo, con il volto scavato. Sembrava camminare per inerzia, come se cercasse qualcosa o qualcuno. John si alzò di scatto e si diresse verso quella donna, senza un motivo ben preciso, senza sapere il perché, ma era ciò che in quel momento sentiva di fare. Quando giunse dinanzi a quella donna poté notare che si trattava di una donna avanti con gli anni, cosa che da lontano non aveva percepito, forse per l’aspetto esteriore, la corporatura magrolina e il modo di vestire abbastanza elegante, che la rendevano ancora una bella donna. – Signora sta cercando qualcuno? Ha bisogno di una mano?- A quelle parole la donna si voltò e improvvisamente smise di piangere, si asciugò le lacrime con il gomito, proprio come avrebbe fatto un bambino colto in flagrante mentre piange e vergognandosi volesse cancellare la propria “colpa”, e accennò un sorriso a John, poi tutto d’un fiato disse: -Sono venuta a trovare una persona. Volevo sapere come sta: L’hanno portata qui stanotte, ma non mi hanno permesso di vederla, non mi dicono nulla, dicono che non sono una parente e non posso avere informazioni.- John cercò di capire chi fosse questa persona e perché si stesse preoccupando tanto, allora la donna lo prese per il braccio e gli fece cenno di andare verso la panchina. Lì seduto con una perfetta sconosciuta, iniziò a parlare , finché la donna finì con il raccontargli la sua storia. Suo figlio, un bravo ragazzo, un buon lavoratore, era stato lasciato dalla moglie che se n’era andata con il bambino insieme ad un altro uomo. Era preoccupata per suo figlio. Da qualche tempo lo vedeva strano e depresso, prima era un figlio presente e affettuoso, poi aveva iniziato a non andare più a trovarla, lei aveva intuito che qualcosa non andava e forse aveva anche cominciato a bere, così lo aveva convinto a rivolgersi ad una psicoterapeuta, che aveva tenuto in cura anche lei alla morte del marito. Poi la donna iniziò a piangere singhiozzando. Sembrava veramente molto scossa. Tra un singhiozzo e l’altro continuò a parlare dicendo che aveva sentito al telegiornale di un uomo che aveva rapito una psicoterapeuta, che poi era stata ritrovata gravemente ferita, mentre suo figlio era stato ritrovato morto. Aspetta, aspetta, aspetta…cosa? Quella donna stava parlando di Clodette, la sua Clodette. E suo figlio era quel bastardo che per un pelo non gliel' aveva ammazzata. Clodette non era ancora fuori pericolo, neppure lui sapeva se in realtà si sarebbe salvata, ma non se la sentii di infierire contro quella donna, che era palesemente già provata, la quale essendosi incolpata di avere consigliato lei la psicoterapeuta al figlio, ora si sentiva responsabile per quello che era accaduto. – Io voglio sapere solo se sta bene e se si salverà. Già ho perso mio figlio e non posso sopportare di aver provocato la morte di una così brava persona, dovrebbe conoscerla, è così buona, così gentile… A John scappò di dire: - La mia Clodette!- La donna lo guardò negli occhi: - Allora lei la conosce? È forse il suo fidanzato? Quando ne parla si illuminano gli occhi.. Oh mi scusi, forse sono stata troppo indiscreta.- Prima che lui riuscisse a rispondere qualcosa la donna prese le sue mani e le strinse forte nelle sue e disse:- Perdonami, perdonatemi. Hai notizie? Come sta?- John disse di essere un amico, tranquillizzò la donna dicendole che non era affatto colpa sua e che purtroppo anche lui non aveva ancora nessuna notizia. Improvvisamente iniziò a parlare di quello che provava per Clodette, del fatto che lei lo avesse sempre respinto, di come si sentisse, della notte insonne trascorsa, dei giorni precedenti in cui non si avevano notizie, della telefonata in diretta a cui si era trovato ad assistere con il figlio di quella donna, fino a quella mattina in cui era giunto in ospedale per avere notizie ed era stato mandato via. Il tempo era volato. All’improvviso si accorsero che stava per imbrunire…quante ore erano rimasti lì a parlare? Finalmente ora poteva andare a vedere la sua Clodette. La donna gli fece cenno di andare. Lei lo avrebbe aspettato lì. John si alzò di scatto e iniziò a correre verso la porta d’ingresso, fece le scale a due a due e arrivò vicino la porta del reparto col fiatone. L’infermiera gli sorrise e gli disse che tutto era andato bene: Clodette era stata trasferita in reparto, poteva vederla per pochi minuti, non doveva farla stancare.

Quando John entrò lei sembrava dormire, si avvicinò al suo letto, si chinò vicino a lei, le prese la mano e le sussurrò all’orecchio:- La mia Clodette! Amore mio mi hai fatto spaventare. Ho temuto di perderti per sempre. – Lei, aprì gli occhi, si voltò verso il suo interlocutore, accennò un sorriso e aprì la bocca per parlare, ma John fu preso da un impeto improvviso e la baciò. Clodette era contenta di vederlo, chiese subito del suo paziente e si sentii completamente sconfitta come medico quando seppe la fine che aveva fatto. Raccontò a John che in realtà non voleva farle del male, che voleva solo parlare e che il colpo di pistola fosse partito accidentalmente, mentre lei tentava di strappargli di mano la pistola, perché l’intento di lui era di uccidere se stesso. – Era molto depresso perché la moglie lo ha lasciato, ma è sempre stato una brava persona, non mi avrebbe mai fatto del male John! Ho fallito. Non sono riuscita a salvarlo.- John allora le raccontò dell’incontro con la madre di lui ed ella ebbe subito premura di farle sapere la verità, che suo figlio non era cambiato, che non era cattivo, si era trattato solo di un incidente. – Tranquilla cara. Glielo dirò io. Ora riposa. Mi hanno detto che non devi affaticarti.- E lei: -John, domani tornerai a trovarmi?- Lo sguardo di John si illuminò: - Certo. Verrò domani. Il giorno dopo. Il giorno dopo ancora se vorrai…io ci sarò sempre per te perché ti amo. – Lei sorrise. Chiuse gli occhi e disse sotto voce: -Anche io ti amo John!


TRIPUDIO DI SENTIMENTI (Riflessioni scritte nell'aprile 2020)

Quanti sentimenti sconvolgono le nostre coscienze? A me capita di pensarci spesso e di rifletterci sopra…I SENTIMENTI: tanti, tantissimi, forse troppi e in tantissime sfumature si presentano nella nostra vita e si alternano, si mischiano, si sfumano a seconda di quella che è la nostra sensibilità, il nostro carattere, la nostra personalità e anche l’intensità con cui li sentiamo cambia da persona a persona .

La “R” della Rabbia, quella che ti fa ribollire il sangue. Quella che non ti fa dormire, che non ti fa collegare i pensieri col cervello, che li fa vagare come alla ricerca di una meta introvabile, impossibile. Quella stessa rabbia che ti farebbe tirare calci contro un muro, che ti farebbe spaccare tutto, che vorrebbe esploderti dentro, che ti pulsa alle tempie, mentre nelle vene sembra scorrerti veleno e non più il sangue, mentre lo stomaco sembra stringersi e ti duole, quando vorresti riversare su tutti quello che pensi veramente e dire la tua, mentre dentro ti senti morire e sai che devi tacere. Dover tacere? Ma perché poi? Per buon senso, per educazione…maledetta razionalità!

La “P” della Paura, quella che ti mette all'angolo, che non ti fa respirare, che sembra toglierti anche la voce, mentre in quel momento vorresti solo urlare e urlare… Quella che dalla testa ti arriva alle ginocchia e sembra spezzartele, privarle della solita forza e della capacità di essere persino in posizione verticale. Quella che ti fa battere il cuore all'impazzata e ti crea un nodo in gola che ti impedisce persino di ingoiare la tua stessa saliva. Quella che ti fa sentire come al margine del baratro, mentre tu guardi attorno cercando una via d’uscita, che in quel momento non c’è. Questa va di pari passo con la “A” di Ansia che inevitabilmente ti sale, che ti fa capire che non hai scampo, un senso di oppressione ti stringe il petto, le mani sudano, ti senti floscio e hai la sensazione di stare per svenire…la vista è annebbiata, la mente confusa, i pensieri vagano in un vortice misterioso e infinito che ingigantisce la tua paura e alimenta quell'ansia e la fa crescere e crescere, finché tu non torni in te, prendi coscienza del tuo corpo, dei tuoi pensieri, fai un bel respiro profondo, poi un altro, poi un altro ancora…e il battito rallenta, i pensieri iniziano ad essere catalogati nei cassetti della mente, le tue mani non sono più sudate e tu percepisci che il pericolo è scampato e sei ancora vivo!

Poi c’è la “I” di innamoramento quello che quando ti colpisce ti senti allegra senza un apparente motivo, quello che ti fa sorridere per strada a tutti, anche a chi non sopporti, quello che quando ti guardi allo specchio ti fa sentire bellissima, quello che ti farebbe canticchiare dalla mattina alla sera, che ti fa camminare a un metro da terra, che ti fa toccare il cielo con un dito, che quando sembra che stai raggiungendo l’apice ti fa scendere nel baratro più profondo e ti ferisce, ti colpisce senza scampo, facendoti improvvisamente sentire piccolissima e indifesa, sfiduciata, arrendevole, incapace di amare nuovamente, di provare per altri ciò che si è provato. Ma poi passa il tempo e accade di nuovo e di nuovo. E ogni volta ti sembra la prima volta, ogni volta è più bello e più intenso della prima volta…perché quando uno si innamora non capisce più niente, non è razionale, è puro istinto, puro sentimento. E va bene così.

Poi abbiamo la “A” di Amore. Quanti tipi di amore nella nostra vita? L’amore per i nostri genitori che si traduce in riconoscenza per il dono della vita, in dedizione per gli anni di attenzioni che ci hanno dedicato, in affetto incondizionato, in stima, in rispetto e in tanto altro. L’amore per i nostri figli, che è qualcosa di diverso, è qualcosa di viscerale, di profondo, perché sono parte di noi, sono carne della nostra carne e sangue del nostro sangue, sono la realizzazione dei nostri sogni e desideri, sono il dono più prezioso che abbiamo, sono il nostro presente e il nostro futuro, sono la realizzazione massima dell’amore. L’amore per il coniuge, per il fidanzato, che è un altro tipo di amore ancora, un amore consolidato nel tempo, un amore continuamente messo alla prova, un amore che va alimentato, nutrito, perché non vada ad affievolirsi e spegnersi. Un amore che va difeso in virtù del bene famiglia, un amore che ti porta a sopportare l’insopportabile e a sperimentare la pazienza, la fiducia, il perdono. L’amore per la Vita sotto ogni forma: una persona, una pianta, un animale, un paesaggio. L’amore per Dio, Creatore Nostro, l’unico che ci insegna cosa significa veramente amare gli altri. Lui che per amore si è fatto uomo ed è morto per liberarci dal peccato, l’Unico che non ha esitato a dare la sua vita per amore nostro. Lui che è Amore.

La “R” del Rancore. Quello che ci impedisce di dimenticare, di perdonare. Quello che ci fa sentire sempre un passo avanti agli altri, superiori, capaci, finendo con il non tener conto di ciò che provano e fanno gli altri. In questa società in cui viviamo siamo tutti un po’ individualisti, tutti protesi a realizzarci, a pensare a noi, alle nostre cose e per fare questo siamo capaci di tutto…di ostacolare gli altri, di calpestarli, di far finta di non vederli. Lo dimostrano i rapporti non duraturi di amicizia…Amicizia, giusto, bella parola. Carica di significato, ma pochi fatti…ci sarebbe da scrivere un romanzo su quello che penso dell’amicizia! Qualcosa in cui non credo più. Troppa falsità, troppo egoismo, troppa ipocrisia, troppo “io” e poco “noi”, poco o per niente “tu”.

Poi c’è la “G” della Gelosia, quella che ti rende furioso, che ti annebbia la vista, quella per cui persone arrivano a compiere atti estremi, quella che ti fa pensare all'altro come qualcosa (e non qualcuno) di tuo possesso, quella che ti deteriora l’anima e anche i rapporti, quella che se non c’è la fiducia non puoi andare avanti, quella che se è contenuta fa pure piacere e ti fa sentire importante, ma che può diventare ossessione e farti vivere un incubo.

Poi c’è la “O” di Odio. Il sentimento più brutto e arido dell’animo umano. Quello che ti priva di ogni altro sentimento, quello che ti toglie l’umanità, quello che difficilmente si placa, quello che si alimenta con altro odio, quello che non guarda in faccia nessuno, quello che mette un popolo contro un altro popolo, quello che genera le guerre e i conflitti, anche interiori, quello che si scatenò tra Caino e Abele, quello che può scatenarsi contro un mio fratello per ricchezze e potere, per gelosie. Perché tanti affanni? Perché tanto dolore? L’odio genera odio…


Le ali della libertà

Mi servono due ali per volare lontano. Lontano da questa età che mi va stretta, mi fa sentire imperfetta. Guardo le mie coetanee: sono belle, ribelli, con tanti sogni nel cassetto. Io mi sento in prigione, nella prigione della mia adolescenza, in questa casa, nella mia stanzetta, mi ritrovo a piangere sul letto, perché è domenica, fuori piove, mio padre non mi ha fatto uscire e non lo vedrò… Un’altra settimana da passare sui libri, tra versioni di greco e latino, interrogazioni di storia e filosofia, sarà dura, sarà lunga…Lui, il suo sguardo mi dà la carica, mi dà la forza di affrontare tutto, quanto vorrei vederlo. Vorrei due ali per sollevarmi in volo, uscire da quella finestra senza essere vista e raggiungerlo, come una farfalla, vedere cosa fa, vedere i suoi meravigliosi occhi color nocciola e il suo travolgente sorriso. Lui non si accorgerà neppure della mia assenza…Vorrei due ali che mi rendessero bella come una fatina, che mi portassero da lui perché finalmente possa accorgersi che esisto non solo come amica… vorrei volare sulle ali della libertà, quella che come adolescente mi è vietata, quella che non mi permette di uscire quando voglio, quella che deve dare sempre tante spiegazioni. Allora chiudo gli occhi e volo con la fantasia, mentre le lacrime scendono sul mio viso… e tiro su un grosso respiro. Domani è lunedì. Un’altra settimana di scuola poi lo rivedrò.

Mi servono due ali per volare lontano. Lontano da questa età che ormai mi fa sentire donna, pronta ad affrontare la vita, a crearmi una famiglia tutta mia. Arriva il matrimonio, arriva il primo figlio. Tutto è magico, tutto sembra realizzarsi. Ora prendo le mie decisioni da sola, sbaglio da sola e me ne assumo le responsabilità. Sento come un macigno il peso di ogni mia scelta, di ogni mio errore. Allora mi guardo indietro e vorrei due ali per volare e tornare adolescente, vorrei due ali che mi portassero all’età di mio figlio per rivivere con serenità, senza paure e preoccupazioni, senza ansie e timori, con la gioia e la spensieratezza che solo un bambino può avere.

Mi servono due ali per volare lontano. Lontano da quest’età che volge alla fine. Quest’età che si fa sentire con tutto il suo peso. Anni di acciacchi, anni di lavoro, anni di gioie ma anche di dolori. Anni che mi hanno reso forte, matura, saggia, ma anche tanto vulnerabile. Anni che mi hanno portato a godere a pieno delle gioie della vita, a capire l’importanza delle cose vere, anni che mi hanno fatto tenere stretti gli affetti più cari, che mi hanno portato la gioia di veder crescere figli e nipoti, anni che continuano ad avanzare e mi fanno sentire ormai inutile e di troppo per gli altri. Allora vorrei due ali per volare e tornare all’età adulta, quando mi sono sposata e ho avuto il mio primo figlio, quando giravo per casa e lo cullavo in preda ad una crisi di pianto, quando lo risollevavo ai suoi primi passi da terra, quando passavo le notti a prendergli la temperatura e controllarlo perché era ammalato…quanto vorrei quelle ali ora che so che tutto ciò che è passato non potrò farlo di nuovo, viverlo una seconda volta, cercando di apprezzarlo di più, di respirare ogni singolo istante, di vivere a fondo ogni momento perché non tornerà più…ora che vedo la morte vicina, il mio corpo andare verso la decadenza, le rughe scavare il mio volto un tempo tirato e roseo…Mi servono due ali per volare lontano.

Mi servono due ali per volare lontano fuori da questa quarantena. Mi servono due ali per volare lontano e tornare indietro quando il Coronavirus non c’era, quando potevamo abbracciarci e baciarci e mangiare una pizza insieme, quando tutto ciò che era normalità lo facevamo con disinvoltura e senza dare il giusto valore alle cose, alle persone. Vorrei due ali per tornare al tempo in cui potevamo chiacchierare a lungo e raccontarci le cose, prendere un caffè al bar, guardare negli occhi qualcuno, senza la paura, senza il terrore che mi attanaglia oggi… senza avere la sensazione di essere sempre in pericolo o di poter mettere in pericolo qualcuno…perché ci parlano degli asintomatici. Io non lo so se riusciremo a dimenticare tutto questo, né a fare in modo che un giorno tutto possa tornare come prima. Molta gente non ha imparato nulla da questa esperienza, ma tanti altri si. Abbiamo imparato la vera solidarietà, abbiamo imparato che da soli non siamo niente, abbiamo imparato che non bisogna lamentarsi e sentirsi insoddisfatti della propria vita, ma bisogna apprezzare ogni singolo istante che ci viene donato, ogni persona e ogni affetto caro dobbiamo tenercelo stretto, perché è nell’assenza, nella mancanza di quella routine, di quella persona, che poi capisci la vera importanza, il vero valore. Allora non posso tornare indietro lo so, non posso cancellare il Coronavirus purtroppo- anche se lo farei volentieri- allora datemi due ali e fatemi volare lontano, quando una cura è stata trovata, quando non si muore più di Coronavirus in Italia e nel mondo, quando potremo di nuovo guardarci negli occhi senza paura e dirci che ci siamo mancati, che ci vogliamo bene. Solo allora ci abbracceremo e verseremo lacrime di gioia perché tutto sarà finito. Mi servono due ali per volare lontano.