di Veronica Saletti

L’Italia e il debito pubblico: storia di un ventennio (1971-1991)


Negli ultimi cinquant’anni il debito pubblico è divenuto una costante del discorso politico ed economico italiano, e questo non a caso. La sua notorietà è ben giustificata e secondo un sondaggio condotto dalla Commissione europea (Eurobarometro 2018) esso è sempre più percepito come uno dei principali problemi del Paese: il 73% degli italiani ritiene che misure per ridurre tanto il debito quanto il deficit debbano essere prese in modo prioritario. Tuttavia, il debito pubblico ci appare ancora troppo frequentemente come un numero incomprensibile, un'entità dall'origine incerta.

I 2.409 miliardi di fine 2019 sono il debito dello Stato nei confronti del settore privato dell’economia e della Banca Centrale. Esso si genera quando le spese sono superiori alle entrate (deficit pubblico primario) e questo disavanzo non può essere coperto stampando più denaro. Lo Stato si finanzia attraverso le tasse, che compaiono nella voce delle entrate, ma quando quest'ultime non sono sufficienti a sostenere la spesa corrente, la liquidità di cui ha bisogno se la procura con l’emissione di obbligazioni. Lo Stato emette le obbligazioni che vengono acquistate ad un certo tasso di interesse annuo, generando così liquidità ma al contempo un debito maggiorato che dovrà essere ripagato. Per comprendere meglio la situazione: se in un anno lo Stato incassa 50 e spende 100, la differenza, pari a -50, è la misura del deficit pubblico. Per pareggiare i conti lo Stato dovrà indebitarsi per una somma pari a 50 più gli interessi. Se nell’anno successivo il deficit è nuovamente -50, il debito pubblico salirà a 100 più i relativi interessi e così di seguito secondo un processo di stratificazione pericoloso. E' importante sottolineare che l'indebitamento è una condizione a volte necessaria, specialmente in tempi di crisi, tuttavia, esso diviene un problema nel momento in cui la spesa pubblica aumenta in modo esponenziale e questa non si accompagna ad una crescita adeguata.

I fattori che hanno determinato l'incremento smisurato del debito pubblico italiano sono molteplici ed è essenziale analizzarli nella loro cornice storica. Tuttavia, il debito che continuiamo a trascinarci dietro anno per anno è principalmente il risultato di scelte politiche interne, non è colpa di eventi esogeni o complotti sovranazionali ma piuttosto di una precisa attitudine: mantenere vivo un sistema economico inefficiente per continuare a creare consensi nel breve termine, scaricando sul futuro i problemi derivanti. Una politica economica opportunistica, mirata a collezionare voti, può passare inosservata durante i periodi di prosperità ma nei momenti di crisi non ha vie di fuga. Durante il periodo del dopoguerra lo Stato riuscì a mantenere un bilancio in pareggio o positivo, questo grazie a una strategia specifica: usare la liquidità del debito per finanziare nuovi investimenti così da creare le basi per una crescita duratura. La svolta avviene nel 1971 quando il debito subisce un rialzo del 23 % mantenendo poi questo trend per tutto il decennio. Lo Stato ha iniziato ad andare in deficit non più per investire in progetti e tecnologie ma perchè deve finanziare la spesa corrente che si aggrava a causa di nuove misure pensionistiche. L'introduzione della pensione minima per i commercianti privi di contributi nel 1966 e la nascita delle pensioni “ baby ” nel 1973 che permettono ai dipendenti pubblici di andare in pensione ben prima dei cinquant’anni, si riveleranno un pesante fardello da sostenere negli anni successivi. Queste riforme suscitarono il consenso generale, ma gettarono le basi per la crisi del debito pubblico, aggravata a sua volta dal contesto storico. Difatti, nei primi anni '70 finisce il Gold Standard e il mondo dei cambi rigidi costruito nel 1944 con l’accordo di Bretton Woods, creando un momento di forte instabilità valutaria susseguito a sua volta da una grande crisi petrolifera che provoca l'aumento del costo delle materie prime. É facile da capire che in tali circostanze nessuno Stato può permettersi programmi all'insegna di pensioni d'oro e una spesa pubblica di tipo clientelare. Tuttavia, non vi è nessun cambio di direzione decisivo. Gli italiani non protestano per queste degenerazioni poiché essendo i primi finanziatori del debito ricevono tassi d'interesse che superano anche il 15%. Ciò che sembra sfuggire al popolo è il fatto che quella rendita sia in realtà debito pubblico che qualcuno prima o poi dovrà pagare.

C'è però un salvatore silente in questo decennio: la Banca d’Italia. Essa infatti dal 1975 ha l'obbligo di interviene direttamente alle aste di debito pubblico, comprando così le obbligazioni emesse non collocate sul mercato in modo tale da garantire una domanda alta e interessi più bassi. Come risultato a metà degli anni settanta la Banca d’Italia si trova così a detenere il 40 % di tutto il debito pubblico italiano. Questa sudditanza si basa su una continua emissione di moneta da parte della Banca d'Italia che permette al sistema di posticipare il tracollo scaricando così il costo dell’aumento del debito dai conti pubblici alla lira.

Un altro anno cruciale è il 1981, anno in cui la Banca d'Italia reclama la sua indipendenza. Questo divorzio consensuale, così definito da Mario Draghi, venne accordato da Ciampi e Andreatta e si rivelò una scelta economica e politica forte. La conseguenza brutale e immediata è una: ora lo Stato deve offrire condizioni migliori per potere finanziare i suoi deficit annuali, in altre parole bisogna aumentare il debito. I tassi di interesse dunque triplicano in meno di cinque anni e già nel 1982 questi assorbono più risorse che tutto il personale statale in servizio. In sintesi, la classe politica sopravvive creando un circolo vizioso benefico per i propri elettori ma perverso in termini economici: lo Stato si indebita per finanziare politiche distributive inefficienti, con la creazione di debito riempie le tasche delle famiglie italiane che guadagnano sugli interessi, il consenso del popolo viene dunque acquistato ma a quale prezzo? Questi voti sono comprati attraverso il debito iniziale che potrà essere sanato solo con nuove tasse e tagli alla spesa futura, ossia sanato con i soldi dei cittadini della generazione seguente. L'errore si rileva essere uno, ossia la subordinazione delle scelte economiche a favore di quelle prettamente politiche.

Con la fine della Prima Repubblica e lo scandalo di Tangentopoli, la spesa per interessi raggiunge il suo record rappresentando il 25,8 per cento delle spese totali. Agli inizi degli anni '90 l'Italia si ritrova con un debito pubblico aumentato di diciassette volte rispetto agli anni settanta e priva di garanzie da parte della Banca d'Italia. Non è sicuramente la condizione migliore per affrontare l'emergere di un nuovo mondo economico, quello dominato dallo spread, dai broker e dai mercati finanziari speculativi. Nell'ultimo decennio del XX secolo le famiglie acquirenti del debito sono passate dal 47 per cento al 15 per cento, la quota in mano alle banche invece è salita dal 25 per cento del 1991 al 40 per cento del 1999 e gli investitori esteri che possedevano il 20 per cento del debito nel 1991 salgono al 38 per cento nel 1999. In altre parole, gli interessi sul debito non finiscono più nelle mani delle famiglie italiane ma sempre di più nei depositi delle banche o di istituti privati e esteri.

Il sistema perverso che ha retto l'Italia dal dopoguerra fino all'ingresso nell'euro non è stato solo inefficiente nel breve termine ma ha posto le basi per un debito difficile da estirpare, un'eredità amara per le generazioni odierne. Ma possiamo dunque affermare che le colpe dei padri siano ricadute sui figli? A chi dobbiamo imputare l'onerosa colpa del debito pubblico? Cercare un nome o una riforma economica a cui attribuire tutti i mali della Repubblica è la strategia adottata con maggior piacere dai candidati politici. Tuttavia, invece di cercare un capro espiatorio e concepire il debito come una condanna immutabile, sarebbe necessario guardare alla realtà con coraggio. Purtroppo però, anche nel XXI secolo i partiti non si sono smentiti, e hanno continuato a arginare il problema del debito senza mai davvero affrontarlo. La motivazione di tale atteggiamento diffuso è semplice: attuare politiche economiche seriamente finalizzate a ridurre il peso del debito equivale a perdere consensi, un sacrificio che nessuno sembra essere disposto a pagare anche a discapito del benessere generale dell'economia italiana. Nel 1994 il debito pubblico raggiunge il 124% del Pil, da allora è passato più di un quarto di secolo, e il risultato è un passivo superiore al 130% del Pil. Il debito sarà anche un'eredità ma noi non la stiamo affrontando, anzi la stiamo alimentando, e di conseguenza faremo ricadere tutto il peso sulle prossime generazioni, divenendo a nostra volta i padri colpevoli.


LETTURE E APPROFONDIMENTI:


  • L. Tedoldi, “Il conto degli errori. Stato e debito pubblico in Italia dagli anni Settanta al Duemila”, Laterza, 2015