Yekatit 12. I massacri di Addis Abeba e Debra Libanòs

di Luca Sorrenti

Sin dalla fine del XIX secolo l’Etiopia era stata nelle mire coloniali dei governi italiani. Dopo anni di tentativi, la disastrosa sconfitta di Adua del 1896 sancì la fine del “sogno” di conquista. L’idea di invadere l’Etiopia, mai realmente abbandonata, fu ripresa dal regime fascista all’inizio degli anni ‘30 e concretizzata nel ‘35 con un’enorme mobilitazione di uomini e mezzi.

Senza una vera e propria dichiarazione di guerra all’Impero d’Etiopia, membro della Società delle Nazioni, ma agendo come se le terre abissine fossero “res nullius”, ovvero vuote e disponibili, l’esercito italiano iniziò l’invasione del paese il 3 ottobre 1935.

La campagna militare durò sette mesi. Gli etiopi frapposero una strenua resistenza, ma capitolarono di fronte alla superiorità numerica e tecnologica delle forze italiane che non si risparmiarono l'uso di armi chimiche, soprattutto del gas iprite, persino sulla popolazione civile. Gli ordini del duce erano infatti perentori. La resistenza abissina andava piegata il più rapidamente ed efficacemente possibile, anche violando le convenzioni internazionali. L’esercito italiano bombardò massicciamente il paese (compresi alcuni ospedali da campo della Croce Rossa), distruggendo interi villaggi.

Il 5 maggio del 1936 le truppe italiane, guidate dal maresciallo Badoglio, conquistarono la capitale Addis Abeba. Il negus Hailé Selassié cercò rifugio in Europa, denunciando l’Italia alla Società delle Nazioni, mentre, appena quattro giorni dopo, Benito Mussolini si affrettava a proclamare la nascita dell’impero.

Nei mesi successivi il controllo dei territori occupati, circa un terzo della superficie totale del paese, passò al generale Rodolfo Graziani che assunse il titolo di viceré. Mussolini affidò a lui il compito di piegare la resistenza etiope, in virtù dell’esperienza accumulata durante la guerra in Libia che gli era valsa il soprannome di “macellaio del Fezzan”. La sua gestione fu durissima, costellata da brutalità ed esecuzioni sommarie contro chiunque venisse sospettato di collaborare con la resistenza partigiana dei cosiddetti “Arbegnuoc”.

Il 19 febbraio del 1937, Yekatit 12 secondo il calendario etiopico, in un’Addis Abeba militarmente occupata dagli italiani, Graziani, convinto di aver ormai piegato la resistenza etiope, organizzò un evento pubblico per celebrare la nascita di Vittorio Emanuele, figlio dell’erede al trono Umberto. Alla presenza dell’élite locale e di una folla di migliaia di persone, Graziani desiderava dare una manifestazione simbolica del potere coloniale italiano. Per farlo decise di ristabilire un’antica pratica abissina di distribuzione di denaro ai poveri, preceduta da un formale atto di sottomissione da parte della nobiltà etiope agli italiani.

In tarda mattinata, gli eritrei Abraham Deboch e Mogus Asghedom, avversi alle politiche colonialiste italiane e solidali con la resistenza etiope, misero in atto un attentato dinamitardo nei confronti di Graziani e delle autorità presenti. Mischiatisi tra la folla accorsa alla celebrazione, lanciarono contro di essi nove granate, riuscendo poi a dileguarsi approfittando della confusione. L’attentato provocò sette vittime e circa cinquanta feriti, tra cui lo stesso Graziani.

Non appena le esplosioni cessarono camicie nere e carabinieri, senza che gli venisse impartito alcun ordine, aprirono il fuoco contro gli etiopi presenti. Le vie d’uscita al cortile dell’ex palazzo imperiale, in cui si era tenuta la celebrazione, vennero bloccate e già dopo poche ore i cadaveri iniziarono a contarsi a centinaia. Graziani, ferito ma cosciente, diede ordine di mettere la capitale in stato d’assedio.

Nei tre giorni successivi la furia italiana si infranse sulla popolazione etiope. La rappresaglia fu terribile e violentissima. A guidarne la prima fase vi fu il segretario federale fascista Guido Cortese che organizzò delle “squadracce” di civili italiani e camicie nere che si diedero al saccheggio e all’uccisione indiscriminata. Gruppi di civili e militari italiani, insieme ad ascari libici ed eritrei, si aggiravano per la città alla ricerca degli etiopi, armati di bastoni, spranghe e coltelli. Interi quartieri vennero dati alle fiamme. La cattedrale di San Giorgio fu depredata e bruciata. Secondo le stime di diversi storici, nella sola Addis Abeba, si contarono in quei tre giorni almeno tremila morti. Cifra che entra nell’ordine delle decine di migliaia se si allarga il conteggio alle vittime della repressione italiana dei mesi seguenti.

Nelle settimane successive le autorità italiane inasprirono ulteriormente le misure atte a “pacificare” il paese. Graziani riprese il controllo ed ordinò l’arresto e l’esecuzione sommaria di centinaia di membri dell’intellighenzia etiope. Con un’azione studiata e razionale Graziani si liberò dell’intera classe dirigente del paese. Chi sopravvisse venne arrestato e condotto nei campi di concentramento di Danane e Nocra, mentre alcuni tra i dignitari abissini più importanti finirono in esilio all’Asinara e in altri campi italiani.

La ricerca dei responsabili dell’attentato si protrasse per alcuni mesi e portò gli italiani ad investigare il monastero di Debra Libanòs, il più autorevole centro cristiano copto di tutta l’Etiopia. Proprio lì, infatti, i due giovani attentatori avevano trovato rifugio per un certo periodo, prima di unirsi alla resistenza partigiana e morire, in circostanze mai chiarite, in Sudan.

Verso la fine di maggio, Il generale Pietro Maletti, a capo di una colonna militare, marciò dalla capitale fino al monastero. La marcia si trasformò in una carneficina. Durante il tragitto vennero dati alle fiamme interi villaggi e giustiziati migliaia di “ribelli”. Nonostante apparisse improbabile un coinvolgimento diretto dei monaci nell’organizzazione dell’attentato, Graziani diede ordine a Maletti che fossero passati per le armi. Inizialmente vennero risparmiati i diaconi più giovani e la maggior parte del personale laico, successivamente furono anch’essi fucilati, portando il conteggio delle vittime a 449, secondo i dispacci ufficiali e a quasi duemila secondo lo storico Ian Campbell.

Nei mesi successivi, Graziani continuò una massiccia campagna di “grande polizia coloniale”, mettendo a ferro e fuoco intere regioni e scuotendo la società etiope dalle fondamenta. Si rifiutò, d’accordo con le direttive di Mussolini, di riconoscere alcun tipo di potere alle autorità locali, continuando lungo la via della repressione. Al contrario di quando sperava, l’inasprirsi delle politiche violente e repressive non ebbe l’effetto di stroncare la resistenza. Anzi, le simpatie della popolazione nei confronti del movimento degli Arbegnuoc aumentarono esponenzialmente finché, nell’estate del 1937, esplose una ribellione generalizzata che continuò fino alla liberazione di Addis Abeba nel maggio del ’41 ed il ritorno in patria dell’imperatore Hailé Selassié.

Sulle reali cifre del massacro di Addis Abeba e delle vittime delle settimane seguenti non vi sono certezze. Sin dalla fine della seconda guerra mondiale, gli etiopi si appellarono alla comunità internazionale perché i responsabili dei crimini compiuti durante l’occupazione italiana venissero giudicati da degli appositi tribunali. L’assenza di una “Norimberga italiana”, giustificata con il repentino cambio di fronte dell’8 settembre e dovuta alle necessità del nuovo assetto geopolitico post-bellico, fece in modo che né Badoglio né Graziani dovettero mai rendere conto per i crimini compiuti in Etiopia. Nel 1953 Graziani fu anzi nominato presidente onorario del Movimento Sociale Italiano e, ancora nel 2012, il sindaco della cittadina laziale di Affile dedicò un sacrario alla sua memoria.

Troppe sono le pagine “dimenticate” della storia italiana e ritengo che una mancata (o quantomeno carente) rielaborazione di ciò che furono colonialismo, fascismo e le occupazioni di Jugoslavia, Grecia e Albania, faccia si che molti, ancora oggi, possano guardare a quegli eventi storici attraverso le lenti opache del mito del “buon italiano”.


LETTURE ED APPROFONDIMENTI

  • Campbell Ian, Il massacro di Addis Abeba. Una vergogna italiana, Rizzoli, 2018.

  • Del Boca Angelo, Italiani, brava gente?, Neri Pozza, 2014.

  • Rochat Giorgio, Le guerre italiane in Libia e in Etiopia dal 1896 al 1939, Gaspari Editore, 2008.

  • Documentario: Fascist Legacy