Tutto il dibattito estivo intorno al tema del green pass e dei vaccini ha fatto emergere più forte che mai la categoria dei cosiddetti no-vax. Numericamente sono pochi, ma sono molto rumorosi, per cui riescono ad alimentare il dibattito. Su di loro si è detto moltissimo (per esempio qui o qui o qui) e spesso sono state loro attribuite etichette piuttosto stereotipate (creduloni, irrazionali, complottisti, ingenui, anarcoidi ecc) come se fossero tutti e tutte uguali, come se le motivazioni di pochi fossero le stesse di tutti gli altri. A partire da questa riflessione, ho ragionato sul concetto di stereotipo o su ciò che ne deriva.
Stereotipo e pregiudizio sono due parole spesso confuse, ma vanno trattate in modo separato perché determinano comportamenti diversi:
- Gli stereotipi sono delle generalizzazioni fatte su un gruppo di persone, che vengono attribuite a tutti i membri di un gruppo più esteso che viene considerato omogeneo. Sono rappresentazioni della realtà arricchite di aspetti valutativi e affettivi, che si rafforzano ogni volta che un nuovo fatto ne dia conferma.
- I pregiudizi sono fenomeni più complessi, che comportano degli atteggiamenti di un certo tipo (sempre lo stesso) verso le persone che sono colpite. I pregiudizi, quindi, non sono solo delle opinioni, ma orientano le azioni e i comportamenti delle persone.
È uno stereotipo pensare che i tedeschi siano persone rigide e inflessibili, mentre è un pregiudizio essere razzisti nei confronti dei migranti provenienti dall’Africa.
Gli stereotipi sono la base concettuale del pregiudizio, ma non sono sempre negativi. Infatti nascono per varie ragioni:
- creare delle categorie semplici per etichettare il mondo;
- rendere meno impegnativo il ragionamento su certi aspetti;
- proteggere il proprio gruppo sociale dagli altri gruppi;
- dare una spiegazione o un giudizio a eventi improvvisi.
Una volta delineato uno stereotipo, è difficile sradicarlo, ma accumulando fatti che contraddicono lo stereotipo, si può smorzare l’associazione automatica tra gruppo e stereotipo. Prima di raggiungere questo risultato, però, ci sono vari passaggi in cui si mantiene l’etichetta generale, ma si introducono una serie di eccezioni e sottotipi. Quindi, se pensiamo che gli svizzeri siano persone precise e poi ci imbattiamo in ginevrini ritardatari e zurighesi confusionari, manterremo la nostra etichetta generale, ma ammetteremo che esistono sottogruppi atipici.
I pregiudizi sono invece più difficili da rimuovere perché comportano azioni molto più elaborate. Il razzismo è la forma più diffusa, anche se dopo la seconda metà del Novecento ha cambiato faccia (pur con delle eccezioni in alcune parti del mondo): il segregazionismo ha lasciato il posto a un egualitarismo di facciata, a cui si è però affiancato un rifiuto dei gruppi considerati inferiori. Quindi nessun razzista dirà «dobbiamo affondare le barche degli immigrati prima che attracchino nei nostri porti», ma preferirà dire che «non sono come noi, dobbiamo rimandarli a casa loro» o altri slogan del genere. Il tema migratorio è un tipico terreno su cui emergono gli stessi pregiudizi in parti diverse del mondo (in Bangladesh, in Canada, in Italia e in tanti altri casi): tutti infatti identificano nel gruppo discriminato “valori diversi dai nostri” e questo è sufficiente a marcare la distanza e a giustificare certe azioni.
Come raccontano Barbujani e Cheli in Sono razzista, ma sto cercando di smettere, il razzismo ha avuto un suo fondamento scientifico, che però è superato da decenni. La genetica ha dimostrato che tutti gli esseri umani hanno avuto la stessa origine nell’Africa Orientale circa 300 000 anni fa, ma una spiegazione razionale non è sufficiente a scardinare un pregiudizio. Non esistono ricette sicure per ridurre i pregiudizi, ma sono stati teorizzati diversi modelli:
- L’ipotesi del contatto, ovvero la frequentazione continua e pacifica tra gruppi in contrasto può, a lungo andare, diminuire o annullare i pregiudizi iniziali. È quello che è avvenuto in Italia con gli albanesi giunti negli anni Novanta, che all’inizio erano tacciati di qualunque nefandezza e poi sono spariti dalle cronache e dai pensieri di tutti.
- Il ruolo dell’empatia, ovvero l’accoglienza di un gruppo in difficoltà (anche momentanea) può favorire un sistema di integrazione tra due culture diverse, come nel caso dei bambini ucraini accolti nei paesi mediterranei dopo l’incidente nucleare di Chernobyl.
- Il modello della decategorizzazione, ovvero la prevalenza dei rapporti individuali su quelli di gruppo che permettono di smontare gli stereotipi che stanno alla base dei pregiudizi. È il fine principale del Progetto Erasmus, che dal 1987 permette lo scambio di studenti e lavoratori nei paesi dell’Unione Europea e in questo modo facilita le relazioni tra popoli che per secoli sono stati in guerra.
«Per contrastare i pregiudizi, che portano a volte al “disgusto” delle altre persone» conclude Villano nel suo libro «occorre insegnare cose autentiche sui gruppi altri (sulle minoranze etniche, religiose, di genere), promuovendo contemporaneamente il pensiero critico e la responsabilità».
Questo è senz’altro uno degli argomenti da trattare nell’ambito dell’educazione civica. In Rete si trovano tantissimi esempi promossi da associazioni (come Il razzismo è una brutta storia) o mass media (come Rai, Pearson e Mondadori). Sarebbe costruttivo non confinare queste iniziative alle ricorrenze speciali (Giornata della Memoria, il 27 gennaio, o Giornata mondiale dell’eliminazione della discriminazione razziale, il 21 marzo).
Uno dei tanti video disponibili in Rete in cui Guido Barbujani racconta che la scienza ha dato la sua risposta inequivocabile sull’infondatezza del razzismo, ma la razionalità non basta a scardinare i pregiudizi
Perché seguire questo criterio? Per far ragionare la classe su un aspetto: lo stereotipo si limita alla dimensione personale, il pregiudizio è un fenomeno che si presenta e si caratterizza grazie alle dinamiche di un gruppo.
immagine del banner tratta dal profilo Twitter dell'artista Rouge