Quando parliamo di rapporti sociali a scuola, non possiamo evitare l’argomento bullismo.
Come spiegato in questo articolo,
il termine bullismo è la traduzione italiana dell’inglese “bullying” ed è utilizzato per designare un insieme di comportamenti in cui qualcuno ripetutamente fa o dice cose per avere potere su un’altra persona o dominarla. Il termine originario “bullying” include sia i comportamenti del “persecutore” che quelli della “vittima” ponendo al centro dell’attenzione la relazione nel suo insieme.
A distinguere un conflitto comune da un atto di bullismo sono una serie precisa di caratteristiche: intenzione di fare del male e mancanza di compassione, intensità e durata, potere del “bullo” e vulnerabilità della vittima, mancanza di sostegno alla vittima.
Secondo un sondaggio condotto su seimila giovani tra i 13 e i 23 anni, il 68% di loro ha assistito a episodi di bullismo, mentre il 61% li ha subiti. La violenza psicologica, più che quella fisica, è il modo più frequente con cui si manifestano i bulli e il cyberbullismo (ovvero atti di bullismo in Rete) è la prima preoccupazione dei giovani quando usano i social network.
Su questo tema c’è una ricchissima letteratura, ma per adesso limitiamoci a segnalare il numero verde 114 a disposizione di chi subisce o assiste ad atti di bullismo.
Il bullismo rientra nel grande ambito della psicologia sociale che studia l’aggressività, ovvero qualunque atto intenzionale che mira a fare del male o a provocare dolore a un’altra persona.
L’aggressività può essere ostile, ovvero ha come fine proprio il provocare un danno, oppure strumentale, ovvero è usata per ottenere un risultato diverso. Se per esempio un calciatore fa un fallo per evitare un gol all’avversario, quella è aggressività strumentale, ma se a palla lontana gli dà un cazzotto, quella è aggressività ostile.
Esistono varie ipotesi sui motivi per cui nasce l’aggressività, ma una delle più interessanti è la teoria dell’apprendimento sociale, proposta negli anni Sessanta da Albert Bandura. Secondo questa teoria, l’apprendimento è guidato dall’osservazione dei comportamenti altrui, per cui vedere una persona che si considera un modello svolgere un’azione aggressiva, ci porterà a imitarla. L’imitazione è dunque alla base dei comportamenti, in particolare di quelli aggressivi.
Da questa teoria discendono altri due fattori che spiegano (un po’) le ragioni dei comportamenti aggressivi:
· l’obbedienza all’autorità;
· la deindividuazione.
L’obbedienza all’autorità è quel fenomeno per il quale le persone si comportano in maniera incivile (e a volte disumana) perché si sentono giustificate dall’autorità a cui rispondono. Per non sentirsi escluse dal contesto in cui vivono, compiono (consciamente o inconsciamente) atti aggressivi verso altre persone. È quello che dichiarò il nazista Adolf Eichmann quando cercò di giustificare gli anni trascorsi a organizzare la deportazione di ebrei, zingari, omosessuali e prigionieri politici verso i campi di concentramento: «Stavo solo eseguendo gli ordini!». Ma è lo stesso principio che osservò Stanley Milgram in un esperimento compiuto nel 1963.
L’esperimento di Milgram è stato raccontato in un podcast da Matteo Bordone, condito da tanti, forse troppi, commenti personali (anche questo è un parere personale!).
La deindividuazione, invece, è quel processo per il quale una persona non si sente più un individuo autonomo, ma parte anonima di un gruppo. In questa situazione perde ogni senso di responsabilità e si comporta in modo aggressivo e irrazionale. È ciò che osserviamo spesso sui social network, dove le persone si fomentano a vicenda e danno sfogo a delle pulsioni che in un rapporto fisico non manifesterebbero mai. A spiegare questo processo fu per primo Phil Zimbardo nel 1970, che nell’università di Stanford costruì una finta prigione e chiese a un gruppo di persone in salute e che non si conoscevano di impersonare per una settimana il ruolo di carcerati o carcerieri. L’esperimento fu interrotto dopo pochi giorni perché i carcerieri si erano calati a tal punto nella parte da mettere a repentaglio la salute di alcuni carcerati. L’esperimento della prigione (qui raccontato da Zimbardo in persona) ha dunque dimostrato che in nome del gruppo le persone sono portate ad avere comportamenti violenti e aggressivi.
Si possono evitare queste spirali di aggressività? Un “rimedio della nonna” a per aiutare le persone colleriche è quello di far sfogare l’aggressività. In effetti nelle grandi città sono nate molte rage room, ovvero stanze in cui si può pagare un biglietto di ingresso e poi distruggere tutto ciò che si trova in giro. Ma le ricerche di psicologia sociale (per esempio l’esperimento di Bushman e colleghi del 1999) hanno dimostrato che essere violenti rende ancora più violenti e non riduce l’aggressività.
Le punizioni possono essere efficaci, a patto che non si rivelino esse stesse un atto aggressivo. Meglio una punizione leggera immediata (o la minaccia di una piccola punizione) piuttosto che una punizione più grande che può generare risentimento verso chi l’ha impartita.
Ma agire in modo preventivo, e quindi evitare l’insorgere dell’aggressività, può essere decisamente più efficace. Per farlo si può ricorrere alla mediazione o alla riconciliazione, due strategie basate sul dialogo prima che la situazione degeneri.
Come puoi cominciare la prossima lezione? Sottoponi un caso di studio alla classe (preso dalla cronaca o fittizio), analizzatelo insieme, provate a pensare delle soluzioni possibili.