Nello scorso numero siamo partiti da una domandona: che cos’è la didattica? Per rispondere abbiamo visto la differenza tra ricerca didattica e pratica dell’insegnamento. Esiste però una seconda domandona: che cosa vuol dire insegnare?
Per rispondere ci appoggiamo ancora a Didattica generale di Mario Castoldi, che riporta il pensiero di Elio Damiano. Secondo Damiano insegnare è un’azione che unisce la vocazione del missionario e la tecnica dell’artigiano. Come un missionario, infatti, l’insegnante compie
un’azione orientata verso un fine etico e non verso un prodotto concreto, acquista un valore in sé in quanto testimonianza di un insieme di valori a cui si ispira.
Come un artigiano, invece, effettua
un’azione finalizzata alla realizzazione di un determinato prodotto, tangibile e concreto, che acquista valore in relazione al risultato che produce.
Damiano usa due parole della filosofia aristotelica per definire queste caratteristiche: praxis è la vocazione del missionario, mentre poiesis è l’approccio dell’artigiano. Questi due concetti sono collegati e si fondono per dare all’insegnante la capacità di operare in modo efficace in classe. La poiesis deriva dalla praxis, ne è un sottoinsieme, per cui possiamo rappresentarle in questo modo:
Senza vocazione, la pura tecnica non è sufficiente a portare avanti il lavoro di insegnante (e non solo quello)
Se vogliamo calare nel concreto questi due termini, possiamo considerare la poiesis come la programmazione didattica, ovvero l’insieme degli obiettivi da raggiungere nel corso di un anno scolastico (cioè le conoscenze), mentre la praxis è la programmazione educativa, cioè gli obiettivi formativi più ampi da raggiungere (cioè le competenze).
L’insegnante agisce in primo luogo sulla poiesis e attraverso il comportamento che tiene e i valori che trasmette raggiunge la praxis. Nella pratica quotidiana deve quindi mettere in campo una mediazione didattica, ovvero
la regolazione della distanza tra i contenuti culturali da trasmettere e i soggetti in apprendimento, tra la struttura logica dei contenuti di apprendimento e la struttura psicologica dei soggetti che apprendono; […] gestire l’interfaccia (didattica) che connette oggetti culturali e soggetti che apprendono.
In base all’argomento, alle possibilità della scuola e all’attitudine dell’insegnante, la mediazione didattica può essere molto concreta o molto astratta. In ogni caso, attraverso questo processo l’insegnante prende un “oggetto del sapere” da insegnare, lo trasforma in un oggetto di insegnamento e fa in modo che diventi un oggetto appreso. O almeno ci prova!
Facciamo un esempio: un oggetto da insegnare è la tecnica CRISPR, che nel 2020 è valsa il premio Nobel per la chimica alle sue scopritrici. L’insegnante riconosce quell’innovazione come un tassello importante per gli studenti e lo inserisce nella sua scaletta di argomenti. Quando affronta il tema in classe, deve mettere in campo le strategie più adeguate per aiutare gli studenti a impararlo. Così smonta e ribalta CRISPR per farlo diventare un oggetto di insegnamento. Se la sua mediazione didattica ha successo, CRISPR diventa un oggetto appreso.
Come abbiamo detto parlando del paradosso dell’albicocca, la mediazione didattica dipende da tre variabili:
Nei rapporti tra questi tre estremi, sostiene Damiano, entrano in gioco tre dimensioni:
La dimensione organizzativa, cioè quella tra insegnante e contenuti da insegnare, riguarda la logistica: caratteristiche dell’aula o del mezzo informatico, tipo di supporto fisico usato, qualità del materiale didattico a disposizione e così via.
La dimensione relazionale è legata al clima che si instaura in classe tra chi insegna e chi impara: c’è collaborazione? C’è timore? C’è fiducia?
Infine, la dimensione metodologica, ovvero quella tra studente e contenuti, è legata ai metodi didattici che l’insegnante mette in campo per far acquisire un contenuto alla sua classe. Su questa dimensione si è concentrata la ricerca dello psicologo statunitense David Ausbel, che ha individuato due metodi di apprendimento:
per scoperta, nella quale lo studente conquista la conoscenza di un contenuto in modo attivo;
per ricezione, nella quale lo studente riceve le informazioni in modo passivo.
Entrambi questi metodi possono risultare efficaci o inconcludenti, a seconda di come vengono proposti. Una lezione che imponga allo studente di replicare un protocollo di laboratorio senza fare ragionamenti di nessun tipo è per scoperta, ma porta a un apprendimento meccanico poco significativo; al contrario, una lezione che faccia emergere le preconoscenze con domande mirate può essere molto significativa anche se poco attiva.
Di questi argomenti si parla, anche in Italia, dagli anni Ottanta e il discorso si è allargato grazie agli spunti offerti dal costruttivismo. Secondo questa corrente di pensiero, infatti, la conoscenza dipende dal tipo di esperienza compiuta e non è indipendente. Maggiore spazio andrebbe quindi dato alla contestualizzazione dei problemi e all’apertura verso punti di vista differenti.
Come applicare queste teorie in classe? Castoldi propone un repertorio di metodologie didattiche da usare:
1. la lezione frontale, in cui lo studente riceve in modo passivo le informazioni e l’insegnante, che agisce da esperto in materia, mette alla prova le sue capacità oratorie e può trasmettere tanti contenuti in poco tempo;
2. le varianti della lezione, che può essere dialogata o partecipata, attenuano un po’ l’unidirezionalità della comunicazione, ma non cambiano la sostanza;
3. l’apprendistato è la versione operativa della lezione e torna utile sia nell’avviamento del lavoro sia per attività cognitive come risolvere un problema, pianificare un’attività, leggere un testo in modo essenziale. Ciò nonostante non è applicabile in tutte le discipline;
4. il tutoraggio è l’insegnamento personalizzato, che gode del rapporto uno a uno che si instaura tra chi insegna e chi impara. È però un metodo costoso e che rischia di adagiarsi molto sul ritmo dello studente;
5. la discussione è un metodo che mette in prima piano il ruolo del gruppo anziché quello del singolo e l’insegnante agisce soltanto da facilitatore. I punti critici sono l’inclusione di tutti i partecipanti e il raggiungimento degli obiettivi prefissati;
6. il problem solving è una forma di discussione basata sulla risoluzione corale di un problema. La criticità per l’insegnante è soprattutto quella di stimolare i ragionamenti con imbeccate sempre nuove e produttive, difficili da pianificare;
7. l’apprendimento cooperativo è simile al problem solving, ma destina all’insegnante un ruolo di secondo piano, a disposizione dei gruppi che si trovassero bloccati. In questa metodologia viene lasciato molto spazio allo scambio tra pari, con messa in comune delle difficoltà e delle conclusioni dei vari gruppi;
8. il brainstorming è l’espressione libera di pensieri su un certo argomento; in questo caso l’insegnante raccoglie e sistematizza le proposte che arrivano, coinvolge chi è emarginato e mette l’accento sui tasti più interessanti.
Nessuno di questi metodi è risolutivo, nessuno è perfetto o applicabile sempre e comunque. L’alternanza e la capacità di passare da una strategia all’altra sono probabilmente l’unico modo per non annoiarsi e non annoiare la propria classe.
Cosa bisogna ricordare? La mediazione didattica è l’attività che l’insegnante deve svolgere per trasformare un oggetto da insegnare in oggetto appreso; per farlo ricorre a molte metodologie didattiche.