Nell'incessante dibattito mediatico e politico sulla scuola rientrano spesso delle statistiche:
il tasso di alfabetizzazione che emerge con le prove Invalsi;
il confronto con altri paesi che emerge con le prove OCSE-PISA;
il numero di NEET, cioè giovani che non studiano e non cercano lavoro;
la percentuale di studenti che interrompe precocemente gli studi, ovvero l'abbandono scolastico.
Con abbandono scolastico o drop-out facciamo riferimento all'allontanamento definitivo dalla scuola prima di aver completato il ciclo di studi. Questa soluzione, di solito, arriva dopo un certo periodo di dispersione scolastica o in-school drop-out, cioè un percorso scolastico altalenante, fatto di più bocciature e assenze prolungate da scuola. Possiamo considerarle come gli atti estremi del disagio scolastico, ovvero un insieme di comportamenti che limitano lo svolgimento delle lezioni a scuola (disattenzione, disturbo, pessimi rapporti con compagni e insegnanti).
Negli anni Sessanta il disagio scolastico è diventato oggetto di studio. Sono nate alcune teorie che hanno cercato di spiegare questo fenomeno. La prima è stata la teoria della deprivazione culturale, secondo cui gli studenti che mostravano un disagio maggiore erano quelli che provenivano da un contesto sociale meno favorevole, che non aveva dato loro la possibilità di acquisire le competenze adatte al mondo della scuola. Questa idea si è rafforzata con l'elaborazione della cultura della povertà, cioè la convinzione che chi vive in condizioni precarie sviluppa capacità che gli permettono di sopravvivere in quel contesto, ma è del tutto inadatto in contesti diversi. Per aiutare gli studenti che rispondevano a queste caratteristiche sono stati elaborati dei programmi compensatori che avrebbero dovuto dare qualche strumento in più a chi aveva avuto la sfortuna di non acquisirli in ambito familiare.
Nel giro di poco tempo questa teoria è stata rifiutata e considerata discriminatoria. Soprattutto perché ha considerato la povertà come uno stato ineluttabile dotato di valori propri ai quali si può porre rimedio solo se si agisce in modo compassionevole.
A partire dagli anni Settanta è emersa una nuova idea: la teoria della discontinuità culturale. Questa teoria spostava l'attenzione dagli studenti agli istituti scolastici, che non erano in grado di rispondere in modo adeguato alle necessità educative dei propri iscritti. Il disagio scolastico era dunque dovuto al diverso approccio educativo fornito dalla scuola e dalle famiglie: se un ragazzo era stato abituato a parlare a ruota libera e a provare finché non fosse riuscito, avrebbe fallito in una scuola in cui la prima risposta è quella che conta e non vengono concesse seconde opportunità.
Sempre in quegli anni il sociologo Pierre Bourdieu ha analizzato la scuola nell'ottica della lotta tra classi sociali, molto in voga all'epoca. Dalla sua analisi è emerso che la scuola è un sistema che trasmette un insieme di conoscenze e capacità che permettono l'accesso a un determinato livello sociale. In questo modo viene enfatizzato l'effetto San Matteo: chi è già a quel livello viene rafforzato, chi non lo è viene danneggiato ed emarginato sempre di più. Per cui la scuola, nella visione di Bourdieu, non agisce come un ascensore sociale, ma anzi, è una barriera di ingresso alla società che aumenta le disuguaglianze. Questa visione è stata molto criticata perché cristallizza la società e non tiene conto della capacità di azione dei singoli.
In opposizione a questa teoria, negli anni Ottanta Paul Willis teorizza che le disuguaglianze rimangono perché le classi sociali che si sentono marginalizzate dal sistema scolastico decidono di non farsi integrare. Anzi, impongono una loro controcultura scolastica fatta di aggressività e disprezzo dei valori portati dagli insegnanti. Questo ragionamento permette di leggere la scuola come un sistema in costante equilibrio tra bisogno di integrazione nel gruppo e necessità di differenziazione dalla massa di ogni singolo studente.
Alla fine degli anni Novanta John Ogbu ha elaborato la teoria ecologico-culturale con la quale ha studiato le differenze di rendimento scolastico delle varie minoranze negli Stati Uniti. La volontà di integrarsi nel sistema è il vero motore del successo: quanto più una minoranza vuole essere accettata, tanto più farà per andare bene a scuola; tanto minore è questo interesse, tanto maggiore sarà il disagio scolastico manifestato. In quest'ottica il disagio scolastico non è un sentimento individuale, ma un movimento culturale mosso dal gruppo. Anche questa teoria è stata molto criticata perché eccessivamente deterministica: non lascia margine di riscatto ai singoli individui, ma li blocca in uno stato ineluttabile. Inoltre non tiene conto dei cambiamenti di una minoranza: se la prima generazione di immigrati può avere una forte motivazione all'integrazione, la seconda o la terza possono averla molto inferiore e quindi l'impianto teorico originale va modificato.
Nel 2003 una ricerca di Agnes Van Zanten ha spostato ancora l'obiettivo e ha individuato nel gruppo classe il vero fulcro. Gli studenti più a disagio possono essere recuperati grazie all'intervento dei compagni, più che degli insegnanti. Per questo occorre stabilire procedure di selezione delle classi che garantiscano varietà ed equilibrio. Creare classi in cui siano raccolti soltanto studenti stranieri o soltanto studenti difficili, infatti, crea emarginazione, sminuisce il ruolo degli insegnanti, rafforza lo spirito di gruppo di chi si sente contro. Inoltre crea un effetto di contesto: gli studenti promettenti smettono di studiare per non sentirsi esclusi dal resto del gruppo. Si manifesta così l'effetto Pigmalione o della profezia che si autoadempie: se una classe viene etichettata come causa persa, si perderà senz'altro perché nessun attore in scena farà gli sforzi necessari per invertire la rotta. Evitare tutto ciò è un obiettivo delle istituzioni scolastiche, ma nei fatti spesso non viene raggiunto, soprattutto nelle periferie delle grandi città.
La varietà di spiegazioni proposte dimostra che spiegare il disagio scolastico e trovare le cause dell'abbandono o della dispersione è veramente problematico. Per questo negli ultimi anni si sta consolidando il paradigma dell'intersezionalità: le differenze culturali e di classe vanno intrecciate con il genere, le disparità generazionali e le posizioni politiche che esistono nell'area in cui si trova ciascuna scuola. Perché ogni singolo istituto ha una sua storia che influisce sul modo in cui vengono trasmessi i valori che il Ministero dell'Istruzione vuole veicolare. Questo paradigma mette sullo stesso piano tutte le variabili in gioco e ogni scuola le dispone nell'ordine che più si addice al suo contesto.
Nel libro Antropologia per insegnare (Zanichelli, 2020), Manuela Tassan afferma:
la dispersione scolastica non può essere letta semplicemente come una questione legata alla demotivazione del singolo studente o come un problema che chiama in causa esclusivamente le strategie didattiche o l'organizzazione scolastica, ma va intesa come un tema politico, che ci interroga sul modo in cui un'intera generazione vive una più generale esperienza di esclusione sociale.
Sul sito di Invalsi open vengono dati dei consigli per ridurre il disagio scolastico:
Conoscere le caratteristiche e le cause della dispersione scolastica è importante per avviare azioni di contrasto che includano anche percorsi di prevenzione come:
Allestire condizioni di apprendimento commisurate alle caratteristiche degli allievi
Scegliere le strategie più idonee a motivare gli studenti
Promuovere sia gli apprendimenti disciplinari sia le competenze relazionali con le modalità di organizzazione e gestione della classe ritenute adatte al contesto
Cosa bisogna ricordare? Il disagio scolastico è un fenomeno complesso, che affonda le sue radici nel mondo extra scolastico. Ci sono tuttavia strategie da mettere in campo per cercare di ridurlo il più possibile.