Abbiamo voluto introdurre le nostre letture omeriche con questo straordinario omaggio al poeta sovrano da parte di Dante, che spiega come quest'ultimo sia, non solo padre della letteratura dal punto di vista cronologico, ma anche paradigma e modello di quel genere che solo si può definire altissimo, cioè la poesia epica, e di ogni attività poetica in generale.
Epea pteroenta, parole alate, così Omero definiva questo mezzo di comunicazione, il più immediato ed efficace di cui l'uomo dispone, l'unico capace di colpire nel segno e di coinvolgere colui che ascolta.
E così anche noi, oggi, proprio come il sommo poeta greco, vorremmo farvi volare in alto insieme alle sue parole.
Μῆνιν ἄειδε, θεά, Πηληϊάδεω Ἀχιλῆος
οὐλομένην, ἣ μυρί᾽ Ἀχαιοῖς ἄλγε᾽ ἔθηκε,
πολλὰς δ᾽ ἰφθίμους ψυχὰς Ἄϊδι προΐαψεν
ἡρώων, αὐτοὺς δὲ ἑλώρια τεῦχε κύνεσσιν
οἰωνοῖσί τε πᾶσι· Διὸς δ᾽ ἐτελείετο βουλή·
ἐξ οὗ δὴ τὰ πρῶτα διαστήτην ἐρίσαντε
Ἀτρεΐδης τε ἄναξ ἀνδρῶν καὶ δῖος Ἀχιλλεύς.
L’ira canta, o dea, l’ira di Achille figlio di Peleo, l’ira funesta che ha inflitto agli Achei infiniti dolori, che tante anime forti ha gettato nell’Ade, tanti corpi di eroi ha dato in pasto ai cani e agli uccelli. Si compiva il piano di Zeus dal giorno in cui la contesa divise fra loro Agamennone, signore di popoli, e il divino Achille.
(traduzione di Maria Grazia Ciani)
Ἄνδρα μοι ἔννεπε, Μοῦσα, πολύτροπον, ὃς μάλα πολλὰ
πλάγχθη, ἐπεὶ Τροίης ἱερὸν πτολίεθρον ἔπερσε·
πολλῶν δ’ ἀνθρώπων ἴδεν ἄστεα καὶ νόον ἔγνω,
πολλὰ δ’ ὅ γ’ ἐν πόντῳ πάθεν ἄλγεα ὃν κατὰ θυμόν,
ἀρνύμενος ἥν τε ψυχὴν καὶ νόστον ἑταίρων.
ἀλλ' οὐδ' ὧς ἑτάρους ἐρρύσατο, ἱέμενός περ·
αὐτῶν γὰρ σφετέρῃσιν ἀτασθαλίῃσιν ὄλοντο,
νήπιοι, οἳ κατὰ βοῦς Ὑπερίονος Ἠελίοιο
ἤσθιον· αὐτὰρ ὁ τοῖσιν ἀφείλετο νόστιμον ἦμαρ.
τῶν ἁμόθεν γε, θεά, θύγατερ Διός, εἰπὲ καὶ ἡμῖν.
L’uomo, cantami, dea, l’eroe del lungo viaggio, colui che errò per tanto tempo dopo che distrusse la città sacra di Ilio. Vide molti paesi, conobbe molti uomini, soffrì molti dolori, nell’animo, sul mare, lottando per salvare la vita a sé, il ritorno ai suoi compagni.
Desiderava salvarli, e non riuscì; per la loro follia morirono, gli stolti, che divorarono i buoi sacri del Sole: e Iperione li privò del ritorno.
Di questi eventi narraci qualcosa, dea, figlia di Zeus.
(traduzione di Maria Grazia Ciani)
Mira colui con quella spada in mano,
che vien dinanzi ai tre sì come sire:
quelli è Omero poeta sovrano;
l'altro è Orazio satiro che vene;
Ovidio è 'l terzo, e l'ultimo Lucano.
Il dialogo che ora rappresenteremo è un passo tratto dall'XI canto dell'Odissea, che evidenzia il rapporto tra Odisseo e la madre Anticlea. Abbiamo scelto questo brano innanzitutto per la profondità e l'intensità delle parole che Omero utilizza. Inoltre, crediamo che questo testo rievochi puntualmente le turbolente peregrinazioni dell'eroe greco e la grande fedeltà e devozione dei suoi cari nei suoi confronti. Infine, in questo passo emerge un'acuta riflessione sulla morte, non intesa in senso filosofico, quanto piuttosto come distanza e assenza, come un dolore che ci avvicina ai nostri cari defunti, ma che, allo stesso tempo, ci fa percepire quanto sia triste non poterli più abbracciare.
Detto cosi', andò via nella casa di Ade
l'anima del signore Tiresia, dopo che disse i responsi.
Ma io stetti immobile, finché non sopraggiunse mia madre
e bevve il sangue fosco come nube. Subito mi riconobbe
e piangendo mi rivolse altre parole:
"Figlio, come sei giunto nella tenebra fosca
da vivo? Vedere questa landa per i vivi è difficile:
ci sono grandi fiumi di mezzo e terribili vortici,
e anzitutto l'Oceano che a piedi non si può
traversare, se non hai una nave ben costruita.
Arrivi qui ora da Troia, avendo vagato
gran tempo con la nave e i compagni? A Itaca
non ci sei stato, non hai visto nelle case tua moglie?".
Disse cosi' ed io rispondendole dissi:
"Madre, il bisogno mi ha condotto da Ade
per chiedere l'anima del tebano Tiresia
Non giunsi mai vicino all'Acaide, non toccai mai
la nostra terra, ma sempre, con dolore, ho vagato,
fin da quando ho seguito il chiaro Agamennone
ad Ilio dalle belle puledre, per combattere contro i Troiani.
Ma dimmi una cosa e dilla con tutta franchezza:
quale fato di morte spietata ti vinse?
una lunga malattia? o Artemide saettatrice
colpendoti con i suoi miti dardi, ti uccise?
Dimmi di mio padre e del figlio che ho lasciato laggiù,
se la mia dignità l'hanno loro, o l'ha
qualche altro e dicono che mai tornerò.
Svelami il volere e il pensiero della mia legittima sposa,
se sta con mio figlio e serba come prima ogni cosa,
o l'ha sposata qualche nobile acheo".
Dissi cosi', e subito ella rispose, la madre augusta:
"Certo che ella rimane con animo fermo
nelle tue case, tristi le si consumano
sempre le notti versando lacrime.
E nessuno ha il tuo nobile ufficio, ma Telemaco
amministra tranquillo le terre e partecipa
ai giusti conviti, di cui è bene si curi chi rende giustizia:
tutti infatti lo chiamano. Tuo padre se ne sta sempre li';
nel suo campo, e non scende in città. Per giaciglio non ha
letti e coltri e coperte lucenti,
ma dorme d'inverno dove dormono in casa gli schiavi,
nella cenere vicina al fuoco, e indossa miseri panni.
E quando poi viene l'estate e l'autunno fiorente,
dappertutto per lui sull'altura del podere a vigneti
son sparsi per terra giacigli di foglie cadute.
Lì egli giace accorato, la pena gli si ingrossa nell'animo,
piangendo sulla tua sorte; aspra la vecchiezza l'ha colto.
E così son finita anche io e ho subito il destino.
Non fu l'abile saettatrice che in casa,
colpendomi con i suoi miti dardi, mi uccise,
né mi venne una qualche malattia, che spesso
toglie la vita con l'odiosa consunzione del corpo,
ma il rimpianto di te, dei tuoi saggi pensieri, illustre Odisseo,
del tuo mite carattere, mi tolse la dolcissima vita".
Disse cosi, e benché dubbioso nell'animo io volevo
riabbracciare l'immagine di mia madre morta.
Tre volte tentai e mi spinse ad abbracciarla il mio animo,
e tre volte mi volò dalle mani simile a un'ombra
o a un sogno. Diveniva sempre più acuta la mia pena nel cuore,
e parlando le rivolsi alate parole:
"Madre, perché non m'aspetti mentre voglio abbracciarti
per saziarci di gelido pianto ambedue
gettandoci anche nell'Ade le braccia intorno?
Oppure questo è un fantasma, che a me l'insigne Persefone
manda, poiché piangendo io gema ancora di più?".
Dissi così, e subito essa rispose, la madre augusta:
"Ohimè, figlio mio, il più misero di tutti gli uomini,
Persefone, la figlia di Zeus, non ti inganna,
ma la legge degli uomini è questa, quando si muore:
i nervi non reggono più la carne e le ossa,
ma la furia violenta del fuoco ardente
li disfa, appena la vita abbandona le bianche ossa
e l'anima vagola, volata via, come un sogno.
Ma volgiti in fretta alla luce: tutto questo
tu sappilo, per dirlo anche dopo a tua moglie".
(traduzione di G. A. Privitera)
Ci troviamo ora sul campo di battaglia, davanti alle mura della città di Troia. Glauco e Diomede militano su fronti opposti e stanno per scontrarsi. Le parole che si scambiano li portano a riconoscere di essere legati da un antico vincolo di ospitalità. Il dono ospitale è dato da chi ospita a chi è ospitato, si passa in eredità all’interno del gruppo familiare, è una forma concreta di assistenza e mira a garantirsi un’identica forma di aiuto in un eventuale futuro. I due guerrieri evitano così di scontrarsi e rinsaldano il legame scambiandosi le armi.
E in mezzo ai due eserciti si incontrarono, impazienti di battersi, il figlio di Ippoloco, Glauco, e Diomede, figlio di Tideo. Andavano l’uno verso l’altro e quando furono vicini parlò per primo Diomede dal grido possente: «Chi sei, guerriero, chi sei fra gli uomini mortali? Non ti ho mai visto prima nella battaglia gloriosa; eppure sei superiore a tutti per il coraggio, tu che ora affronti la mia lancia dalla lunga ombra; infelici i genitori di coloro che si oppongono alla mia forza! Se sei un dio disceso dal cielo, io non voglio battermi con gli immortali. Neppure il figlio di Driante, il forte Licurgo che osò sfidare gli dei celesti, rimase a lungo in vita: un giorno si diede a inseguire, sul sacro monte Niseo, le nutrici di Dioniso folle, ed esse tutte insieme scagliarono i tirsi a terra, sotto i colpi di pungolo del furioso Licurgo; in preda al terrore Dioniso si tuffò in mare e Teti lo accolse nelle sue braccia; un forte tremore lo prese nell’udire le urla di quell’uomo. Per questo gli dei dalla vita beata presero in odio Licurgo e il figlio di Crono gli tolse la vista: egli non visse più a lungo perché era in odio a tutti gli dei; neppure io voglio combattere contro gli dei beati. Ma se sei un uomo mortale e ti nutri con i frutti della terra, vieni più vicino e presto raggiungerai i confini della morte».
Gli rispose il glorioso figlio di Ippoloco: «Grande figlio di Tideo, perché mi domandi chi sono? Le generazioni degli uomini sono come le foglie: le fa cadere il vento ma altre ne spuntano sugli alberi in fiore quando viene la primavera. Così le stirpi degli uomini, una nasce, l’altra svanisce. Se però vuoi sapere anche questo, se vuoi conoscere la mia discendenza, te la dirò, a molti essa è nota. Nella valle di Argo, ricca di cavalli, vi è una città, Efira, e qui viveva il più astuto fra gli uomini, Sisifo figlio di Eolo; egli ebbe un figlio, Glauco, e Glauco generò il nobile Bellerofonte a cui gli dei donarono forza, grazia e bellezza; ma contro di lui tramava nell’animo Preto, che lo cacciò dalla terra argiva. La moglie di Preto, la bellissima Antea, ardeva dal desiderio di unirsi segretamente in amore con Bellerofonte, ma non riuscì a persuadere l’eroe, che era nobile e saggio. Allora al re Preto ella disse questa menzogna: “Che tu possa morire, Preto, se non uccidi Bellerofonte che voleva far l’amore con me contro la mia volontà”. Così disse e udendola il re fu preso dall’ira; tuttavia non uccise l’eroe, ne ebbe timore in cuor suo, lo mandò in Licia e gli affidò messaggi di morte, funesti messaggi scritti su una tavoletta piegata, ordinando che li mostrasse al suocero, per sua rovina. Andò in Licia Bellerofonte, lo guidavano gli dei beati. E quando giunse in Licia, alle acque dello Xanto, il re di quel vasto regno gli rese onore, per nove giorni festeggiò l’ospite, sacrificò nove buoi. Ma quando, il decimo giorno, sorse l’Aurora dalla luce rosata, allora lo interrogò, chiese di vedere il messaggio che gli recava da parte del genero Preto. E quando conobbe lo scritto funesto del genero, per prima cosa ordinò a Bellerofonte di uccidere la Chimera invincibile, la Chimera di stirpe divina, che davanti era leone, dietro serpente e capra nel mezzo, e spirava fiamme di fuoco ardente. Bellerofonte la uccise confidando nei presagi divini. Poi si batté con i Solimi gloriosi e fu la battaglia più dura mai avvenuta fra eroi. Uccise infine le Amazzoni, forti al pari degli uomini. E mentre faceva ritorno, un altro astuto inganno gli ordiva il re; nell’ampia terra di Licia scelse i guerrieri più forti e tese un agguato: ma essi non fecero più ritorno perché tutti li uccise il glorioso Bellerofonte. Allora il re comprese che era di nobile stirpe, figlio di un dio, lo trattenne presso di sé, gli diede in moglie sua figlia e divise con lui gli onori del regno; per lui, perché vi abitasse, i Lici delimitarono un campo, il più bello, terra buona da arare e da coltivare a frutteto. Tre figli diede la sposa al forte Bellerofonte, Isandro, Ippoloco e Laodamia. A Laodamia si unì il saggio Zeus e lei generò Sarpedonte divino dall’elmo di bronzo. Ma quando lo presero in odio gli dei, andava errando per la pianura Alea, Bellerofonte, solo, e si rodeva il cuore mentre fuggiva le tracce degli uomini; Isandro glielo uccise Ares, il dio mai sazio di guerra, nella battaglia contro i Solimi gloriosi; Laodamia fu uccisa dall’ira di Artemide, la dea dalle briglie d’oro. Io sono figlio di Ippoloco, da lui io discendo; fu lui a mandarmi a Troia e mi comandava di essere sempre il primo, fra tutti gli altri il più forte, di onorare la stirpe dei padri che a Efira e nella vasta Licia furono sempre i migliori. Questa è dunque la stirpe mia, questo il mio sangue».
Così disse, e fu lieto Diomede dal grido possente; conficcò la sua lancia nella terra feconda e rivolse parole amichevoli a Glauco, signore di popoli: «Sei dunque un ospite antico per me da parte di padre; un tempo il divino Oineo accolse il nobile Bellerofonte nella sua reggia e lo trattenne per venti giorni; si scambiarono l’un l’altro doni ospitali, bellissimi; Oineo offrì una cintura di porpora, splendida, Bellerofonte una coppa d’oro a due manici: l’ho lasciata nella mia casa quando sono partito. Non ricordo Tideo perché ero ancora bambino quando mi lasciò per andare a Tebe dove l’esercito acheo fu distrutto. Io sono dunque per te ospite e amico in Argolide e tu in Licia, se mai io vi giunga. Non incrociamo le lance fra noi, anche se siamo in battaglia; sono molti i Troiani e gli illustri alleati che io posso uccidere se un dio me li manda davanti o se li raggiungo io stesso; e molti sono gli Achei che tu puoi abbattere. Scambiamoci invece le armi perché sappiano anche costoro che siamo ospiti per tradizione antica e questo è il nostro vanto».
Dopo aver così parlato balzarono entrambi dai carri, si strinsero la mano, si giurarono fede.
(traduzione di Maria Grazia Ciani)