La sfida di P. Grande
Il 15 maggio del 1921 si tennero in tutta Italia le elezioni politiche; a Viareggio la giornata si svolse in un clima di maturità democratica ed i risultati decretarono l’affermazione delle sinistre.
Il giorno dopo, per festeggiare il successo elettorale, fu organizzato un corteo che sfilò per le vie cittadine. Poco dopo le ore 17, dal corteo che stava percorrendo la via Garibaldi, si staccò un gruppo di dimostranti capeggiati da Alessandro Bandoni che si portò davanti alla sede del Fascio, indirizzando frasi di scherno all'indirizzo dei fascisti. Nell'animo di molti era ancora forte la rabbia per l’assalto compiuto dai fascisti il 2 maggio alla Camera del Lavoro ed alla sede del Circolo dei Calafati, dove fu razziata la bandiera della Lega dei Maestri d’Ascia, innescando una dura reazione, con la proclamazione di uno sciopero generale che per molti giorni bloccò ogni attività nelle darsene, e forse nella ricerca di una rivalsa, il Bandoni lanciò ai fascisti la sfida: “Come abbiamo vinto con le urne, vogliamo dimostrare di saper vincere anche nella piazza. Vi sfidiamo alla battaglia, scegliete il luogo e l'ora!”.
Per la sfida fu scelta la piazza Grande, al tempo piazza Vittorio Emanuele; l'ora le sei del pomeriggio dello stesso giorno.
All’ora stabilita, una decina di fascisti, guidati dal segretario del Fascio, avvocato Lino Reggiani, entrarono nella piazza da via Garibaldi, mentre all’imboccatura della via S. Francesco erano ad attenderli numerosi simpatizzanti della sinistra, convenuti per assistere all’improvvisata sfida.
Secondo la ricostruzione ufficiale dei fatti, il Bandoni ed un altro “avanzarono a braccia alzate dichiarando che ritenevano inopportuno un conflitto in quelle condizioni”. Quando sembrava escluso lo scontro, fra le opposte fazioni si accese una violenta rissa con scambio di spinte, pugni e bastonate. Poi, all’improvviso furono esplosi numerosi colpi d’arma da fuoco che causarono un fuggi fuggi generale e la piazza da teatro di una sfida quasi romantica, fu testimone di una tragedia.
Caddero colpiti a morte il calafato Pietro Nieri ed il marinaio Enrico Paolini, entrambi venticinquenni.
Senza ripercorrere quei drammatici momenti che sono stati oggetto di ricostruzioni letterarie e nemmeno le fasi dell’inchiesta per l’individuazione di chi aveva sparato e di chi doveva essere responsabile dell’eccidio, proponiamo alcuni brani tratti dai documenti che formarono gli atti processuali.
Secondo la conclusione della perizia dei dottori Pietro Bini e Guido Zeppini effettuata per l’accertamento delle cause della morte di Nieri e Paolini, il Nieri fu colpito alla testa, all’inizio della rissa, da un proiettile blindato di calibro 9 con carica esplosiva, sparato alle spalle da circa dieci metri di distanza da una pistola automatica, che entrato dall’orecchio gli devastò il cervello, mentre piegato in avanti cercava di porsi in salvo. Perì all’istante e cadde al centro della piazza.
Enrico Paolini, da poco sbarcato a Savona dal veliero “Bella Italia”, secondo la testimonianza del padre quel tragico lunedì, alle ore 14, si recò dal sarto Pasquele Batanino e poi in Comune per depositare la tessera di disoccupazione. Trovato chiuso, si fermò sulla porta del Municipio poichè pioveva a dirotto, poi si recò al bar Bergamini davanti alla Croce Verde, dove rimase dicendo al padre: “Appena smette la pioggia vengo a casa”. Il Paolini, secondo l’autopsia, fu colpito alle spalle mentre cercava riparo nella fase finale della rissa, quando i fascisti retrocessero verso via Garibaldi, da un proiettile di piccolo calibro blindato e di altissima velocità, che perforato polmone e cuore, fuoriuscì dal torace. La morte fu istantanea e cadde nella piazza quasi all’angolo tra la via Battisti e la via San Francesco.
Gli altri feriti da arma da fuoco furono Ottavio Orlandi e Gino Fiorelli.
Orlandi, secondo la sua testimonianza, dopo essere stato a fare una passeggiata in spiaggia mentre tornava a casa per la cena, giunto in piazza Grande sentì esplodere numerosi colpi d’arma da fuco. “Impaurito mi diedi a fuggire per la via Battisti dal lato della Pretura. Mi corsero dietro due soldati, uno dei quali col moschetto mi diede un colpo alla schiena, subito dopo da un carabiniere che aveva un gallone grande d’argento ed uno più sottile, mi furono sparati contro due colpi, dei quali uno mi fischiò all’orecchio destro ed uno mi colpì sotto il piede sinistro”. Per quella ferita ebbe un referto di 40 giorni.
Gino Fiorelli, di anni dieci, dichiarò di aver visto cadere a pochi passi di distanza Pietro Nieri e quindi “impaurito feci per fuggire e pormi al riparo dietro un platano, ma prima di giungervi fui ferito da un colpo alla gamba sinistra del quale mi accorsi dopo aver fatto qualche passo quando caddi presso il negozio Pezzini ove fui ricoverato”. La ferita fu dichiarata guaribile in 75 giorni.
Il giorno dopo, il Sindaco Giorgio Paci condannò l'episodio, “scatenato dalla passione di parte”, ed invitò la cittadinanza a “soffocare ogni ira ed ogni rancore, attendendo che giustizia sia fatta”.
Ma le indagini di polizia non individuarono i colpevoli ed il processo si concluse il 20 marzo 1922 con “il non luogo a procedere”.
Dagli atti dell’inchiesta si apprende che “dei sovversivi sarebbe risultato armato di rivoltella il solo Bandoni”, e che dei fascisti, ammisero di essere scesi in piazza armati l’avv. Reggiani ed altri quattro, ma tutti negarono di aver sparato e questa dichiarazione fu ritenuta poco credibile perché “giovani baldi e fieri, abituati ai conflitti è inversosimile che a colpi di rivoltella non abbiano risposto con altrettanti colpi”. Considerazione che si basò sui “bossoli di rivoltella trovati nel campo della mischia, nel centro della piazza da Tobia e Giorgio Bianchi e da altri ragazzi immediatamente dopo il fatto”.
Alla fine, nessuno fu ritenuto colpevole anche se il 23 settembre 1921 il giornale “Il Popolo d’Italia” aveva pubblicato una corrispondenza da Viareggio che è una chiara amnmisione di responsabilità: ”Nel maggio scorso, in seguito ad una tracottante sfida lanciata da un centinaio di sovversivi, una quindicina di fascisti stese al suolo un paio di comunisti”. Felice Policreti, autore dell’articolo, fu sentito come testimone e nonostante che fosse stato, dal luglio al settembre 1921, direttore del settimanale viareggino fascista “Il Faro”, dichiarò che la sua versione dei fatti era basata solo su vaghi ricordi di quanto letto sui giornali di Roma all’epoca del conflitto, e di non sapere in quale maniera si erano svolti i fatti del 16 maggio 1921.
Sulla base di questa dichiarazione non si ritenne di “elevare imputazione di correità in omicidio e lesioni a carico dei fascisti”.
Così, l’attesa per la giustizia auspicata dal sindaco Paci fu vana.
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