28 febbraio 2020

Moda sostenibile

Una moda sostenibile è possibile? Osservando le caratteristiche primarie sia del fashion che della sostenibilità, si direbbe che no, non è possibile. La moda è innovativa, veloce, e soprattutto passeggera: un capo non viene indossato perché ormai è fuori moda, nonostante il più delle volte sarebbe ancora perfettamente in grado di svolgere la sua funzione materiale. La moda dura meno di quanto duri il capo, e ciò genera sprechi. Secondo uno studio di EPA96, il 48% degli americani butta vestiti ancora riutilizzabili, generando ogni anno tra le 11 e le 13 milioni di tonnellate di rifiuti. A ciò vanno aggiunti i sistemi di produzione altamente inquinanti, dove vengono utilizzati pesticidi ed altre sostanze chimiche, in particolare durante le fasi di tintura e finitura. L’industria della moda si piazza così al secondo posto come industria più inquinante al mondo, dopo quella petrolifera. La sostenibilità è al contrario conservazione delle risorse, mantenimento di un equilibrio sociale, limitazione degli sprechi e degli impatti delle attività dell’uomo sull’ambiente. Sembra quindi che la «moda sostenibile» sia destinata a rimanere un ossimoro, una contraddizione naturale.

Come scrive Vittoria Filippi Garbardi, giornalista di Vogue Italia, «Non c’è settore oggi che non si interroghi su cosa può fare, o smettere di fare, per contribuire alla sfida della sostenibilità».

Ecco che proprio Vogue ha provato a reinventarsi per lanciare un importante messaggio sulla riduzione dell’impatto ambientale della rivista. Nell’uscita del numero di gennaio 2020 la moda, per la prima volta in decenni, non viene raccontata tramite la fotografia, ma il disegno. Le luci di set fotografici sono rimaste spente, la corrente tagliata, gli aerei su cui viaggiano modelle, set designer, stylist ed abiti non sono decollati. Otto abili artisti hanno invece avuto l’inedito compito di produrre copertine e raccontare storie di moda, disegnando abiti che fanno parte delle collezioni Spring- Summer di marchi come Dior, Givenchy, Ralph Lauren, Dolce e Gabbana, per nominarne alcuni. Il noto magazine ha inoltre sottolineato l’importanza che ha il tema sostenibilità per il presidente della Camera nazionale della moda italiana, Carlo Capasa. Già nel 2012 si era occupato di «tracciare una via italiana alla moda responsabile e sostenibile». Capasa fa notare come le sostanze inquinanti siano un centesimo rispetto a trent’anni fa, merito che il presidente attribuisce all’uso della tecnologia. Come Italia, abbiamo un ruolo fondamentale nel mondo della moda: siamo il secondo paese produttore di moda, dopo i cinesi, ma siamo i primi per il lusso. In Europa

produciamo ben il 41 per cento. Grazie alla sua importanza e responsabilità è ancora più importante che l’industria italiana diventi sempre più sostenibile.

Alla sfilata di Emporio Armani per la Milano Fashion Week 2020 maschile, l’intera collezione, parte della linea «Reycling-Emporio Armani», era realizzata con tessuti riciclati, lana e denim rigenerati e cotone organico. I capi presentati avevano come sfondo l’appariscente slogan «I’m saying yes to recycling». Giorgio Armani, 85 anni, ha detto: «Dobbiamo salvare il mondo e la vita delle generazioni future. A volte l’industria può essere molto dannosa per la Terra in cui viviamo. Stiamo cercando di risolvere il problema, trovando un equilibrio tra i bisogni industriali e la necessità di respirare».

L’attivista canadese Naomi Klein si chiede se sia possibile che la Fashion Industry possa veramente diventare sostenibile, senza rinnegare l’edonismo che l’ha sempre animata. A parer suo, «sostenibilità» è una parola ripetuta e sfruttata così tante volte da aver perso qualsiasi significato, specialmente nell’industria del fashion. Punta il dito contro un astuto strumento di marketing: il «greenwashing», una pratica abbastanza diffusa, associata a quelle aziende che sponsorizzano la loro sostenibilità, nonostante nella realtà siano guidate solo in parte da logiche di marketing sostenibile. Ciò avviene tramite operazioni di facciata come ingannevoli pubblicità in cui mostrano l’adesione a campagne di sensibilizzazione, rispetto dei diritti umani o utilizzo di materiali ecologici, cercando di far passare le normali attività dell’impresa come più sostenibili di quanto non siano nella realtà e inducendo così i clienti a comprare. Secondo Naomi Klein il problema centrale dell’inquinamento nel settore del fashion è l’idea che bisogna sempre possedere qualcosa di nuovo, che si senta il bisogno di comprare un capo anche se non serve. Idea che sta alla base del Fast Fashion.

Il termine «Fast Fashion» viene utilizzato per la prima volta sul New York Times nel 1989 per sottolineare la velocità con la quale un capo potesse passare dalla mente del designer al negozio. Viene usato dai fashion retailer per indicare i design che passano dalle passerelle ai negozi nel minor tempo possibile, influenzando le tendenze della moda e spingendo le persone ad acquistare in continuazione prodotti a basso prezzo, bassa qualità e non necessari. Una sua caratteristica è proprio l’accessibilità, e per questo viene spesso associato alla democratizzazione della moda. L’impatto ambientale della moda veloce tuttavia è ingente, specialmente a causa dell’industria cotoniera, della delocalizzazione produttiva ed infine per lo spreco ed il consumismo che ne derivano. India, Cina, Stati Uniti, Brasile e Pakistan, sono i primi produttori di cotone al mondo. Oltre 33 milioni di ettari sulla superficie terrestre sono dedicate alla sua coltivazione e di conseguenza vengono dedicate vaste aree di territorio alla coltura della sola specie vegetale del cotone. Questo processo prende il nome di «monocoltura»: oltre a stravolgere il panorama agricolo ed economico di interi paesi, è una delle cause principali della scomparsa delle biodiversità, inoltre può sterilizzare i terreni, rendendo conseguentemente i raccolti più deboli e vulnerabili. Il mutamento del suolo favorisce la diffusione di infezioni e malattie e per questo c’è un costante incremento nell’utilizzo di pesticidi chimici e fertilizzanti, con pesanti conseguenze sia sull’ambiente che sulle condizioni di salute dei lavoratori.

Inoltre si stima che la produzione di un chilogrammo di cotone richieda l’utilizzo di circa 9,4 metri cubi di acqua, sebbene a volte arrivino addirittura a 20. La produzione di una semplice T-shirt, ad esempio, comporta un dispendio idrico incredibile, pari a 2.700 litri di acqua. Si potrebbe affermare però, che la problematica più grave riguardi la delocalizzazione produttiva. Come fare a produrre capi così velocemente ed a prezzi così bassi? La produzione dei capi avviene nei paesi in via di sviluppo, dove il costo della mano d’opera è bassissimo. Se la delocalizzazione ha contribuito alla crescita di paesi come Cina ed India, risulta tuttavia difficile non concentrarsi sulle condizioni sociali che hanno permesso tale crescita. I dipendenti operano in condizioni di totale insicurezza, come dimostrano tragici incidenti avvenuti negli ultimi anni: nel 2013, un edificio di otto piani in Bangladesh, dedito alla produzione di capi d’abbigliamento per le maggiori marche mondiali, crollò e costò la vita a 1.134 lavoratoti, mentre più di 2.000 rimasero feriti. In India, le donne che emigrano dai villaggi per lavorare nelle grandi industrie vengono sfruttate ed abusate: una donna su quattordici dichiara di aver subito violenza fisica, una su sette di essere stata costretta ad avere rapporti sessuali. I salari che i lavoratori turchi ed indiani percepiscono è circa un terzo del valore minimo stimato per un salario dignitoso, in Cambogia il livello dichiarato è pari quasi alla metà, mentre in Bulgaria sono pagati meno del 10% del salario dignitoso minimo per un normale orario di lavoro. Per non parlare dei numerosissimi lavoratori minorenni, retribuiti solo 20 centesimi al giorno in Bangladesh, mentre le bambine marocchine sotto ai 16 anni guadagnano 0,36 centesimi l’ora. In India sono circa 400 mila i bambini lavoratori esposti per 8-12 ore al giorno agli effetti tossici dei pesticidi utilizzati nei campi di coltivazione di semi di cotone ibridi. Senza dimenticare inoltre l’inquinamento che deriva dal continuo trasporto delle merci da un continente all’altro.

Ma come risolvere la situazione?

Se da una parte l’alta moda sta cercando di rendere la sua politica sempre più green, dall’altra Naomi Klein fa giustamente notare come non tutti possano spendere cinquemila euro per un vestito eco-friendly ed acquistino quindi prodotti dai grandi marchi di Fast Fashion come Zara, H&M, Mango e tanti altri. L’attivista propone sistemi di scambio di vestiti, noleggio o addirittura prestito dei capi d’abbigliamento. Una soluzione più acclamata è quella dell’economia circolare che, secondo la definizione di Ellen MacArthur Foundation, «è un termine generico per definire un’economia pensata per potersi rigenerare da sola. In un’economia circolare i flussi di materiali sono di due tipi: quelli biologici, in grado di essere reintegrati nella biosfera, e quelli tecnici, destinati ad essere rivalorizzati senza entrare nella biosfera». Come accennato prima, il presidente della Camera della Moda Capasa indica proprio l’economia circolare come possibile soluzione, come Forbes, e sottolinea l’importanza della sostenibilità sociale, un altro tassello fondamentale che non va dimenticato.


Elena Ricci

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