28 dicembre 2019

I bambini e le lingue


Quanto sappiamo dell’apprendimento della lingua madre? Non è affascinante come i neonati riescano ad imparare una lingua alla perfezione?

Già dopo poche ore dalla nascita, i neonati riescono a distinguere un suono linguistico da altri tipi di suoni, e prediligono sempre il primo. Se ad esempio davanti ad un neonato ci fosse un pianista che suona ed una persona che parla, il piccolo ascolterebbe sicuramente quella che parla. Dal momento che un neonato deve essere in grado di imparare qualsiasi lingua del mondo, è capace di percepire tutte le differenze tra i vari suoni che caratterizzano una qualunque lingua, una facoltà che purtroppo perdiamo dopo circa dieci mesi. Solo in un secondo momento infatti potrà concentrarsi sui suoni significativi della lingua a cui è esposto, cioè la sua lingua madre, che riesce a riconoscere a pochi giorni di vita. Dai quattro mesi un neonato comincia a riconoscere e ricordare le parole, e ad un anno il suo vocabolario è composto da circa settanta parole diverse. Inizialmente impara circa dieci parole al mese, poi il ritmo aumenta incredibilmente, fino ad arrivare a cinquanta parole alla settimana.

I bambini hanno una predisposizione genetica che li spinge a parlare, ma è fondamentale che l’ambiente risponda con altrettanti stimoli linguistici. È cruciale che siano a contatto costante con una lingua prima della pubertà, quando la finestra temporale si chiude e l’istinto del linguaggio si atrofizza. Purtroppo questo non è avvenuto in alcuni casi, quelli dei cosiddetti «bambini selvaggi», che sono stati in grado di apprendere solo un linguaggio rudimentale, ben lontano dalle sofisticate lingue parlate in tutto il mondo.

Il caso più celebre di bambino selvaggio vede come triste protagonista Genie, nata nel 1957 in California. Suo padre si convinse che la figlia fosse malata e, non sopportando la sua condizione, la rinchiuse in uno scantinato, in totale isolazione. Fu trovata nel 1974, quando aveva tredici anni, e non sapeva né parlare né camminare. Malgrado i tentativi di numerosi esperti e linguisti per insegnarle a parlare, non apprese mai totalmente un linguaggio umano, così si espresse per tutta la vita gesti basilari.

La questione dell’acquisizione del linguaggio era oggetto di grande interesse anche nell’antichità. Lo storico greco Erodoto infatti racconta di come, durante un viaggio in Egitto, sentì parlare di un bizzarro esperimento condotto da un re chiamato Psammetico. Il re affidò due neonati ad un pastore, ordinando all’uomo di non fare altro se non nutrire i piccoli. Né il pastore né altre persone potevano proferire parola davanti ai due bambini, che dovevano rimanere soli in una capanna abbandonata. Psammetico voleva sentire quale parola avrebbero pronunciato per prima. Dopo circa due anni i bambini, tendendo le mani, iniziarono a dire al pastore «βεκός» (bekos). Psammetico cominciò quindi ad informarsi per sapere cosa volesse dire βεκός, e scoprì che i Frigi chiamavano così il pane. Questo esperimento provò che nonostante i bambini fossero lasciati a se stessi, trovarono un modo per comunicare tra loro, tuttavia non si sa se in futuro abbiano avuto problemi nell’apprendimento di una lingua, come nel caso di Genie.

Analogamente i bambini sordi sin dalla nascita imparano peggio la lingua madre se nati in famiglie di udenti che non si accorgono subito della condizione del figlio. A metà degli anni 80, l’esperimento del re egiziano fu ripetuto in Nicaragua, seppur casualmente. Nel 1979 il governo del Paese centroamericano avviò un programma per educare i bambini sordi. Centinaia di studenti furono divisi in due scuole nella capitale, Managua, senza che conoscessero nemmeno una delle più di duecento lingue dei segni esistenti al mondo. Comunicavano con le loro famiglie senza grammatica o sintassi, con semplici gesti per dire «mangiare», «bere» e poco altro. Una volta riuniti nelle scuole, tuttavia, iniziarono a creare una lingua nuova, basandosi sui pochi gesti che ognuno di loro usava a casa. Non c’era un parlante alfa, ma ogni bambino creava un dialetto individuale che si mescolava ed accordava con quello degli altri. Nacque così una vera e propria lingua, la Lingua dei Segni Nicaraguense. I più piccoli dimostrano subito di padroneggiarla meglio rispetto ai ragazzi più grandi, ma anche questi ultimi riuscirono ad impararla perfettamente, sebbene con più difficoltà. Ad esempio un ragazzo di nome Aleman la imparò a quindici anni, grazie al duro lavoro. Ad un’intervistatrice disse: «Non avrei potuto imparare la lingua prima, perché sono cresciuto nella foresta. Ho passato la mia infanzia durante la guerra e dal momento che mio padre era un controrivoluzionario, eravamo costretti a nasconderci in continuazione. Mi ricordo pistole, paura, nascondigli. Ricordo la mia infanzia, ma ricordo anche come non avessi nessun modo per comunicare. A quel tempo, la mia mente era semplicemente vuota». Nonostante non potessero averle imparato da nessuna parte, i bambini comunicavano utilizzando strutture semantiche e regole morfologiche. Secondo il linguista Chomsky, esiste una “grammatica universale”, secondo cui ci sono dei principi regolativi innati in tutti gli esseri umani e condivisi da tutte le lingue: per questo tutti quanti imparano perfettamente la loro lingua madre. Infatti i bambini non imparano imitando i genitori, perché gli errori che commettono non sono mai tipici degli adulti, che non direbbero mai «aprito» invece che «aperto», tipico errore nei piccoli. È dimostrato che tutti i bambini del mondo seguono una sequenza invariabile di acquisizione del linguaggio, procedendo secondo lo stesso schema mentale per padroneggiare la lingua. La Lingua dei Segni Nicaraguense è un magnifico esempio di una lingua che emerge con incredibile ricchezza e curiosamente non somiglia affatto allo spagnolo.

Elena Ricci