28 gennaio 2020

Dante all'Inferno di Auschwitz


Nel corso di Se questo è un uomo la realtà infernale del lager richiama più volte quella dell’inferno dantesco: sin dall’inizio del libro vi sono riferimenti danteschi.

Una volta giunto ad Auschwtiz, il soldato tedesco che scorta Primo Levi e gli altri uomini che lavoreranno a Monowitz, viene chiamato «il nostro Caronte». Levi si sente come un dannato che viene portato sull’altra sponda dell’Acheronte. Il Caronte tedesco, al contrario di quello originale, non è minaccioso e non grida «Guai a voi, anime prave!», ma chiede cortesemente a tutti orologi e denaro, suscitando collera e riso nei deportati. A bordo del camion, Levi oltrepassa il cancello con la tristemente famosa scritta «Arbeit macht Frei», riconducibile ai nove versi inscritti sulla porta dell’Inferno dantesco. Con «città dolente» si può intendere Lager, con «eterno dolore» si comprende come in nessuno dei due inferni esista un limite di tempo, come non sia previsto un termine della pena. «La perduta gente» sono naturalmente i dannati, i cosiddetti Häftlinge. Ecco che però si arriva ad un’importante differenza tra i due ambienti infernali: se quello dantesco recita «Giustizia mosse il mio alto fattore», in Lager parole come «giustizia» non esistono. Non esiste una logica che riservi ai peccatori una pena secondo la legge del contrappasso; nei campi, il concetto di giustizia è del tutto assente, le vittime sono innocenti, ed anzi è soprattutto il caso, l’arbitrarietà a decidere il destino di ciascuno. «Lasciate ogni speranza voi ch’entrate» è strettamente ricollegabile all’espressione ironica «arbeit macht frei» che riprende quella vena di umorismo pesante, protervo, funereo tipico dei tedeschi. Tradotta in linguaggio esplicito, essa avrebbe dovuto suonare press’a poco così: «Il lavoro è umiliazione e sofferenza, e si addice non a noi, Herrenvolk, popolo di signori e di eroi, ma a voi, nemici del Terzo Reich. La libertà che vi aspetta è la morte».

Man mano che Levi viene sottoposto al processo di deumanizzazione, durante il quale il prigioniero viene separato dai suoi cari, dai suoi averi, dal suo aspetto e dal suo nome (Levi divenne 174 517), ecco che emerge in modo sempre più ricorrente l’espressione «sul fondo». Un chiaro riferimento alla struttura dell’Inferno dantesco, il quale è costruito a forma d’imbuto e più si sprofonda, più ci si avvicina al male assoluto. Levi, parlando del mondo al di fuori di Auschwitz, scrive: «lassù nel dolce mondo sotto il sole», dipingendo l’idea di come lui sia ormai sprofondato negli abissi infernali, bui e tetri proprio come quelli danteschi; parallelamente l’espressione «dolce mondo» cita pari passo Ciacco. Inoltre, per far capire come le leggi in vigore nel dolce mondo non valgano nel Lager, dove tutto è proibito, cita nuovamente Dante: «Qui non ha luogo il Santo Volto, qui si nuota altrimenti che nel Serchio!». Proseguendo nella narrazione, mentre lavora con Null Achzehn, uno spigolo di ghisa gli ferisce il piede ed è costretto a trascorrere del tempo in Ka-Be, l’ospedale del campo. Il Ka-Be costituisce il limbo infernale, in quanto vi vigono le medesime leggi dell’Inferno ed esso stesso si trova al suo interno, ma i dannati non sono sottoposti al lavoro ed al disagio fisico, proprio come nel Limbo dantesco. Persino «sommersi e i salvati» (un altro romanzo di Levi) è preso in prestito da Dante. Infatti nell’Inferno del sommo poeta, i sommersi sono i peccatori, i colpevoli, mentre in quello di Levi sono i Muselmänner, cioè coloro non hanno più alcuna traccia di umanità, che non riescono a soffrire veramente e di conseguenza si lasciano morire.

In Buna, decidono in seguito di costituire un Kommando Chimico, il Kommando 98. Per accedervi, Levi deve sostenere un esame con il dottor ingegner Pannwitz, che incarna il perfetto ariano. Incarna inoltre Minosse, il giudice infernale di Dante che esamina i peccatori e decide in quale girone mandarli. Pannwitz siede «formidabilmente» (in senso etimologico: “che incute paura“, dal latino formido = “paura“) il che è, per ammissione dello stesso Levi, una reminiscenza dantesca: «Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia».

Si arriva poi al climax dantesco in Se questo è un uomo: il Canto di Ulisse. Levi, insieme a un compagno, Jean Pikolo, uno studente alsaziano, è incaricato di andare a prelevare la marmitta del rancio. Jean gli dichiara il suo amore per l’Italia ed il suo desiderio d’imparare l’italiano. Per esaudire quest’ultima aspirazione di Pikolo, a Levi viene inspiegabilmente in mente il canto di Ulisse (Inferno, XXVI). Cerca di recitarglielo, seppure frammentariamente a causa dei vuoti di memoria, e di tradurglielo in francese in forma prosastica. In quella breve ora in cui recita il XXVI canto, grazie a Dante, Levi si dimentica per un attimo le atrocità del lager e capisce di non poter perdere la dignità umana. Riuscirà tuttavia a ricordare solo frammenti del canto, dal momento che i nazisti provano a cancellare ogni traccia di memoria dei prigionieri. Nel canto Ulisse e Virgilio si trovano nell’ottava bolgia, nell’ottavo girone, dove ci sono i peccatori di fraudolenza, destinati ad essere nascosti in una fiamma nell’eternità. Qui incontrano Diomede ed Ulisse, nel quale s’identifica Primo. Levi ha molta fretta, non vuole sprecare quest’ora preziosa di libertà dai lavori forzati. Avverte la necessità, l’urgenza di tradurre a Jean. Recitando il verso «... ma misi me per l’alto mare aperto» fa notare la differenza tra «je me mis» e «misi me» e di come in italiano l’espressione sia più forte, ricca di audacia, di come rappresenti l’azione di scagliare se stessi oltre una barriera. Ulisse non dice «mi misi», poiché non racchiuderebbe l’idea dell’uomo che diventa Dio, decidendo in prima persona il suo cammino. Questo verso racchiude l’inconscio desiderio di evasione, la voglia di libertà, non solo rappresentata dall’«alto mare aperto», ma anche dall’espressione «misi me». Levi scrive: «Osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle». Lui e Jean, proprio come Ulisse, stanno osando, sfidando delle leggi, delle catene, per raggiungere la libertà. «Acciò che l’uom più oltre non si metta» Levi nota come «si metta» sia la stessa espressione di «misi me» e di come, se prima l’espressione denotava lo scagliarsi oltre una barriera, qui denota invece il fatto che non ci si possa scagliare oltre, che non si possa spiccare il «folle volo» se non naufragando, fallendo miseramente nell’impresa. Solo in Lager, Levi comincia a comprendere propriamente il significato del canto. «Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza». In questa famosissima terzina, Levi percepisce il dovere di avere una dignità. Il tramite, lo strumento del riscatto dall’involontaria condizione di bruto di Levi è stata la grande poesia, recuperata in un difficile, ma non impossibile, sforzo di memoria. Per lui questi versi risuonano come se fossero la voce di Dio: per lui, ebreo non credente, secondo il quale Dio ed Auschwitz non possono coesistere, Dante e la Commedia divengono come una guida che fornisce fiducia e serenità. Sente che il ricostruire questo canto gli possa permettere di tornare un qualcuno, di non essere più semplicemente un numero. Cultura ed identità vanno a braccetto e la cultura, forse, lo ha in qualche modo salvato. Per vivere occorre un’identità, ossia una dignità, e chi perde l’una, perde anche l’altra, morendo spiritualmente. Questa terzina rappresenta il contrasto tra l’annichilimento, il viver come bruti, perdendo quindi ogni volontà di reazione, annullando se stessi, e l’esserci, il viver secondo virtute, permettendo all’uomo di rinascere e ricordare. «Appunto perché il Lager è una grande macchina per ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare. Bisogna sopravvivere per raccontare, per portare testimonianza». Per Levi la memoria è uno strumento di salvezza, una possibilità di recuperare la perduta umanità. I ricordi gli permettono di ristabilire un legame col passato, salvandolo dall’oblio e salvando la sua identità. Recitando «... quando mi apparve una montagna, bruna» gli tornano in mente le amate montagne che vedeva scorrere fuori dal finestrino del treno durante il tragitto Milano-Torino.

Tuttavia, l’ora del folle volo giunge al termine, proprio quando arrivano nelle cucine, e contemporaneamente Ulisse inizia il suo naufragio. «Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque, Alla quarta levar la poppa in suso E la prora ire in giù, come altrui piacque...». Entrambi vengono puniti da una forza superiore. Entrambi sono navigatori naufragati. Ulisse non è più il peccatore di υβρις (ubris) che ha osato mettersi al di sopra degli dei, ma è il simbolo della resistenza delle virtù umane all’abbrutimento cui i nazisti vogliono ridurre i prigionieri. Ulisse persegue libertà di pensiero, la libertà d’azione, nega ogni divieto divino, proprie come Levi vorrebbe negare i divieti dei nazisti. È in un certo senso invidioso di Ulisse perché non riesce a reagire come lui. L’ora del folle volo termina e l’annuncio «Kraut und Rüben» fa bruscamente atterrare Levi e Jean nell’inferno del Lager. Infin che l mar fu sopra noi richiuso.


Elena Ricci


Articolo di dicembre 2019

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