Conoscere e riconoscere la violenza nelle relazioni

Il seminario “Conoscere e riconoscere la violenza nelle relazioni” è un dialogo tra varie voci incentrato sul tema della violenza nelle relazioni tra privati, violenza domestica e violenza in famiglia.

Ne parlano Eleonora Polidori, presidente coordinatrice del settore civile del Tribunale di Pisa, Sandra Orsini, commissario Vice dirigente della squadra mobile di Pisa, Francesca Pidone, avvocata e coordinatrice del telefono donna per il centro Casa della donna di Pisa, Valentina Bonini, docente del Dipartimento di Giurisprudenza. Coordina Caterina Murgo, Dipartimento di Giurisprudenza.

Introduzione della Prof.ssa Caterina Murgo

Il seminario si apre con un’introduzione di Caterina Murgo. Il punto di partenza è il riconoscere come, affrontando il tema della violenza, ci si possa soffermare e possano essere discussi tanti aspetti e profili diversi.

Ne vengono evidenziati in particolare due.

Il primo aspetto riguarda l’incidenza dell’educazione e della formazione delle generazioni più giovani.

Dai dati dell’Istat e del rapporto del Grevio (gruppo di esperti scelto dal Consiglio di Europa, che verifica le modalità attraverso le quali gli Stati aderenti danno attuazione alle indicazioni della convenzione di Istanbul) è emerso come ci sia una scarsa rilevanza degli approcci educativi come contrasto alla violenza, sia che si parli di violenza familiare, che violenza nelle relazioni, che ad esempio di bullismo scolastico.

L’ultimo rapporto del Grevio, risalente ad aprile 2021 e che copre parte del 2019 e il 2020, è infatti risultato poco incoraggiante, mostrando criticità di diversi Stati oggetto di indagine.

Il secondo aspetto riguarda l’efficacia o meno delle misure predisposte dall’ordinamento giuridico.

Tra queste ultime vengono citate la normativa del 2001 sugli ordini di protezione contro gli abusi familiari, il Codice Rosso del 2019 e la legge del 2018, intervenuta sulle misure repressive riguardanti sia le vittime primarie di violenza sia le secondarie, come i figli minori (essi possono ad esempio rimanere orfani nel caso in cui un genitore commetta l’omicidio dell’altro), toccando anche il problema dell’affidamento.

Quest’ultima normativa prevede inoltre anche misure che agiscono mortis causa: un esempio è la sospensione della chiamata alla successione del coniuge indagato per omicidio o tentato omicidio del partner.

Si tratta dunque di una serie di misure predisposte nel corso del tempo dall’ordinamento giuridico, su cui ci si interroga sulla loro efficacia, poiché i dati risultano essere, ancora una volta, poco incoraggianti.

Viene a questo punto data la parola alle relatrici.

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Intervento della Prof.ssa Valentina Bonini

Il primo intervento è della professoressa Valentina Bonini, del Dipartimento di Giurisprudenza.

Il focus sono le misure penali e loro efficacia.

Il primo problema che viene messo in evidenza è la difficoltà nel riconoscere il confine tra violenza e conflittualità all’interno delle relazioni: se il confine può infatti apparire netto visto dall’esterno, per i coinvolti viene spesso percepito in maniera confusa.

Il diritto e il processo penale hanno per questo motivo il ruolo prezioso di segnare tale confine, oggettivizzando i comportamenti umani e descrivendone le caratteristiche materiali che devono possedere per essere poi punibili.

Nel sistema penale il comportamento umano non viene punito in ragione dell’offesa o danno arrecato ad una persona, ma proprio per l’inosservanza della legge. Oltre all’oggettivizzazione di comportamenti violenti, descritte da un corredo normativo, per tracciare il confine tra ciò che è lecito e ciò che non lo è, avviene anche una spersonalizzazione dell’intervento e un’espropriazione del conflitto: lo Stato cioè si sostituisce alla vittima nella gestione delle conseguenze della violenza.

In conclusione, identificando le condotte violente all’interno dei rapporti interpersonali, queste misure offrono un importante aiuto nel riconoscere una situazione di violenza.

Nell’ambito della violenza domestica il processo penale ha ancora più impatto, perché contribuisce a sottolineare il rilievo pubblicistico dell’evento, che non rimane più un episodio privato solo perché avvenuto all’interno delle mura domestiche: tutto ciò risulta essere un importante contrasto alla violenza, perché ne favorisce l’emersione e ne mostra, per l’appunto, il confine.

Proseguendo con l’intervento, viene citata la Convenzione di Istanbul, e in particolare l’art. 3, in cui la definizione di violenza accoglie ampie sfaccettature (violenza fisica, psicologica, sessuale, ecc…).

La Convenzione di Istanbul, inoltre, non solo è un documento dal valore giuridico, vincolante per gli Stati che la hanno ratificata e per gli Stati del consiglio di Europa, ma è anche di carattere culturale: riconosce che la violenza contro le donne ha radici in un passato fatto di disuguaglianze, stereotipi di ruoli e limiti, la cui inosservanza è spesso proprio alla base della violenza. La Convenzione riconosce inoltre la natura strutturale della violenza contro le donne, ponendo come obiettivo non solo il contrasto della stessa, ma anche il superamento di tutti quei pregiudizi e costumi basati sull’idea dell’inferiorità della donna.

Di queste radici c’è traccia anche nello sviluppo dello stesso processo penale: fino al 1996 la violenza sessuale era un reato contro la morale e non contro la vittima, da poco ci si era liberati del matrimonio riparatore come motivo di estinzione del reato di violenza sessuale contro una minorenne (il bene tutelato era l’onore familiare e non la donna).

Seppur oggi sia stata superata questa idea dell’offesa non alla donna, ma alla famiglia e al suo onore, è ancora radicata l’idea che la violenza nella famiglia rimanga un fatto esclusivamente della coppia.

In questo quadro culturale il diritto penale può certamente fare molto, riconoscendo la violenza, individuando e delineando le condotte punibili; allo stesso tempo, finisce per essere uno strumento tardivo che interviene solamente dopo che il fatto è stato commesso (la prevenzione è più che altro in chiave di deterrenza, ma per i reati culturalmente orientati essa fa poco) e insufficiente: non aiuta a conoscere la violenza e le sue specificità, non riesce ad intervenire sulle radici culturali del fenomeno e non ha efficacia nel costruire modelli positivi di condotta, basati su valori di uguaglianza e parità.

Il rapporto del Grevio sull’Italia, rilasciato nel 2020, ha mostrato come la centralità della politica repressiva penale abbia quasi portato ad offuscare la natura culturale della violenza contro le donne, confondendola e trattandola come una questione qualsiasi di ordine pubblico.

Anche dal punto di vista della vittima, il processo penale può presentare due facce: da una parte è motivo di conforto e protezione da nuove violenze, dall’altra, a causa dell’agone processuale, diviene spesso luogo inospitale e doloroso.

Proprio per questo motivo vengono attuate accortezze e limitazioni, con lo scopo di attenuare la vittimizzazione secondaria, quando cioè la vittima deve ripercorrere ed esporre la violenza subita. Tra queste precauzioni ricorrono il limite al diritto alla prova, l’attenzione al rispettare la fragilità del dichiarante (ad esempio offrendo l’aiuto di uno psicologo) e a non indagare sull’intimità, sulla vita e sulla sessualità della donna; il limite al tipo di domande, e così via.

È questo un sacrificio chiesto al processo penale in ragione del bene, della dignità e dell’integrità psicologica della vittima. Tale sacrificio rischia però di essere inutile quando i giudici, gli avvocati, gli operatori non sono dotati degli strumenti giusti per essere gender aware e sono essi stessi portatori di pregiudizi, segno di una loro carenza culturale e formativa.

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Intervento della Dott.ssa Francesca Pidone

Il secondo intervento è della dottoressa Francesca Pidone, avvocata e coordinatrice del telefono donna, parte del centro antiviolenza di Pisa (associazione Casa della donna di Pisa).

La relazione si apre con una descrizione del ruolo dei centri antiviolenza, i quali non solo offrono un servizio specialistico per donne, ma fanno anche parte di processi di sensibilizzazione con organismi a livello nazionale.

Il focus dell’intervento sono i vari percorsi che si possono attuare all’interno dei centri: al contrario dello stereotipo diffuso attorno ad essi, non offrono come risposta alla richiesta di aiuto solamente la denuncia dell’uomo, ma prevedono misure diverse, non solo penali.

Nel 2019 il centro antiviolenza di Pisa ha seguito 332 donne, nel 2020, con un aumento durante il periodo del lockdown, il numero è salito a 357 e sono stati gestiti 240 percorsi.

Le donne che vengono accolte hanno esigenze e obiettivi diversi: ci sono donne non ancora pienamente consapevoli della loro situazione, che vengono invitate a decodificare il loro malessere e a capire il confine tra conflitto e violenza; ci sono invece donne consapevoli di vivere una situazione di violenza, il cui obiettivo è innanzitutto quello di concentrarsi sul loro io, liberandosi della subordinazione alla volontà dell’uomo, e altre situazioni differenziate.

Altro esempio è quello delle donne che espongono episodi attuali, ma rievocandone altri passati (ciò si è verificato soprattutto nel periodo del lockdown).

Oltre ai percorsi non giudiziari (o che non lo sono nell’immediato), come i sopra citati, ci sono poi i percorsi penali, che aiutano la donna a riconoscere l’esperienza della violenza, ma anche a conoscere i propri diritti.

Questi percorsi hanno vari tipi di sviluppo: il solo ammonimento, un atto amministrativo comunque importante per contenere un uomo autore di gesti violenti, percepito spesso come uno strumento più gestibile e sostenibile personalmente dalla vittima e più immediato rispetto alla denuncia; la querela, scelta quando qualsiasi provvedimento precedente non ha avuto successo.

Situazioni particolari e delicate sono quelle in cui una coppia con figli ha subito una separazione, per cui bisogna valutare anche l’affidamento dei minori. È infatti, in situazioni di violenza, obbligatorio evitare la mediazione familiare; ma se la situazione è civile e non è conclamata da un procedimento penale il discorso è più complesso: bisogna capire qual è l’interesse del minore e come organizzare le visite protette.

Un bambino che è stato testimone della violenza (si parla di violenza assistita) ha infatti anch’egli bisogno di protezione e va tutelato durante il confronto con la figura paterna.

L’ultima riflessione riguarda come sia la legge sullo stalking, sia la legge sul femminicidio, che la convenzione di Istanbul siano nate come risposte a situazioni di emergenza (il primo degli interventi citati nasce da un decreto legge) e non a partire da riflessioni più organiche. Nel caso, ad esempio, della Convenzione di Istanbul, essa fu approvata nel 2013 come risposta ad un caso mediatico molto forte, che vide protagonista una ragazza uccisa dal proprio fidanzato.

Le vicende che hanno portato all’approvazione della Convenzione vengono oggi lette quotidianamente e quasi non fanno più scalpore.

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Intervento della Dott.ssa Sandra Orsini

Il quarto intervento è della dottoressa Sandra Orsini, commissario della polizia di Stato, vice dirigente della squadra mobile della Questura di Pisa.

Si parte da una descrizione del percorso intrapreso nel tempo dalla polizia in relazione al ruolo e alla tutela delle donne: nel 1959 nasce il corpo di polizia femminile; nel 1981 la polizia diventa un corpo civile a cui partecipano anche le donne con pari diritti; nel 1996 viene inserita nel Codice penale la violenza sessuale tra i reati contro la persona e nel 1998 nasce una sezione specializzata che si occupa di reati in danno di donne e minori.

L’attenzione va poi alla donna e al percorso, sia verso la denuncia sia il successivo giudiziario, che risulta essere spesso complicato per la frequente difficoltà nel riconoscere la violenza: molte donne decidono infatti di tornare a vivere con l’uomo violento.

Viene poi ripreso il concetto e l’importanza dell’ammonimento: è una prima segnalazione di violenze subite, che spesso permette di avere successo senza dover proseguire con una querela.

L’incontro prosegue sottolineando l’importanza della collaborazione con tutte le istituzioni e associazioni sul territorio (esempio dell’istituzione del Codice Rosa, in collaborazione con l’ospedale che segnala le vittime che arrivano al Pronto Soccorso) e di tutta la cittadinanza, per far emergere reati e segnalare situazioni di disagio. È infatti frequente che dopo la denuncia emergano persone già consapevoli dei fatti.

Ovviamente non sempre i provvedimenti presi sono immediati: la donna è messa subito in protezione quando il rischio per la sua incolumità è già abbastanza alto.

Ci sono misure cautelari come l’allontanamento, ma i tempi di indagine possono non essere immediati e non è detto che tali misure possano essere sempre applicate.

I racconti riportati dalle donne spesso non riguardano un solo fatto singolo, ma descrivono l’intera storia della relazione e di come si sia giunti alla scelta della denuncia solo dopo aver preso consapevolezza di trovarsi in una situazione non sana: questa accettazione della realtà può richiedere anche diverso tempo, per la difficoltà che una vittima di violenza ha nel riconoscere quest’ultima.

Infine, altro aspetto fondamentale è il sapere accogliere la vittima in modo da invogliarla a confidare anche episodi privati e dettagli intimi, creando con lei un rapporto empatico: è proprio per questo che ci sono sezioni specializzate in questo tipo di procedure e preparate a dare alle donne l’adeguata accoglienza.

La donna ha bisogno di trovare di fronte a sé una persona con cui confidarsi, che sia professionale nell’ascoltarla.

Nel caso ad esempio della violenza sessuale, è facile che i racconti forniti siano incompleti, per la difficoltà nel parlare di episodi non semplici e immediati da confessare.

In conclusione, è fondamentale la collaborazione tra tutte le forze sul territorio e con i cittadini, sia per ottenere buoni risultati dal punto di vista giuridico e di polizia, sia per offrire aiuto alla vittima.

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Intervento della Dott.ssa Eleonora Polidori

L’ultimo intervento è della dottoressa Eleonora Polidori, presidente coordinatrice del settore civile del Tribunale di Pisa.

Focus dell’intervento è il ruolo del presidente all’interno dell’udienza presidenziale.

Si parte da un esempio di caso di omicidio di una donna da parte del coniuge avvenuto nei primi anni 2000 (e di una serie di violenze attuate precedentemente per distruggere fisicamente e psicologicamente il partner), come prova dell’incapacità al tempo di tutelare pienamente la donna, la quale aveva infatti fatto denuncia e ricercato aiuti, ma senza ricevere l’adeguata risposta dagli organi della polizia e dalla magistratura.

Si passa poi a descrivere il ruolo del giudice civile: per un suo intervento è necessario che ci sia stato un ricorso, ad esempio di separazione, di divorzio o per la regolamentazione delle modalità di esercizio del rapporto genitoriale rispetto ai figli nati fuori dal matrimonio. Pur essendo tale intervento dunque limitato dagli strumenti predisposti dal codice civile, non è per questo motivo meno efficace.

Un esempio positivo è invece quello degli ordini di protezione contro gli abusi familiari, che risultano essere il più delle volte efficaci nel proteggere la donna: si tratta di uno strumento civile che segue sempre un ricorso, dunque quando già c’è stata presa di coscienza da parte della vittima di trovarsi in una situazione di violenza e non solo di conflittualità, per cui la donna decide di rivolgersi ad un legale e di richiedere uno strumento di tutela di natura civile per fuoriuscire da una situazione rischiosa nella convivenza.

Il giudice deve capire quando è necessario insistere sulla mediazione e quando non lo è: in alcune situazioni essa non è applicabile, non può esserci incontro tra la vittima e l’uomo che ha il solo desiderio di prevaricare su di lei e affermare la propria supremazia.

Il giudice civile può agire attraverso i propri strumenti, ma questi devono essere attivati dalla parte e sono limitati: si rivolgono soprattutto ai minori, ma poco al coniuge, che è infatti visto come un individuo in grado di agire e attuare in autonomia gli strumenti con i quali richiedere tutela.

Situazioni in cui il potere del presidente risulta fondamentale sono quelle in cui è ad esempio avvenuta una separazione nella coppia (in questo contesto è facile che vengano fuori le criticità della famiglia e gli atteggiamenti maltrattanti di un coniuge sull’altro) o casi in cui sono coinvolti anche i minori: seppur il ruolo del presidente deve essere sempre quello di tentare la conciliazione, ci sono situazioni in cui è invece da evitare l’insistenza sul ripristino del rapporto del genitore violento con i figli, soprattutto se la violenza è stata esercitata anche su di essi.

Ma anche quando la violenza è stata indirizzata solamente al coniuge, è probabile che tale atteggiamento sia indice di una incapacità di essere padre da parte dell’uomo.

Il ripristino del rapporto con i figli segue un lento percorso e passa attraverso incontri protetti organizzati dai servizi sociali, in base alle cui relazioni il giudice potrà poi valutare la possibilità o meno di ristabilire tale rapporto.

Si tratta dunque di fasi cruciali, in cui è fondamentale saper applicare con criterio ed estrema attenzione gli strumenti a disposizione.

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Interventi conclusivi

L’incontro si conclude con alcune riflessioni e interventi finali da parte della professoressa Caterina Murgo e della professoressa Enrica Salvatori, sull’importanza della collaborazione e dell’intreccio delle conoscenze per far fronte alla violenza nelle relazioni, nonché con il ringraziamento di tutti i partecipanti al seminario.

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