La Via dei Simboli
LA VIA DEI SIMBOLI
Nell’articolo “La via dei simboli” (http://architettura.it/coffeebreak/20001215/index.htm)
viene affrontato un processo di analisi, come un fosse un viaggio nella storia e
nell’architettura, partendo da Giuseppe Terragni e arrivando a Frank O. Ghery, sebbene
questo non sia davvero il punto d’arrivo.
Durante i secoli vi è sempre stata una ricerca della monumentalità, specialemente in
edifici come cattedrali e palazzi di famiglie nobili, come se questo potesse amplificare
maggiormente l’importanza della chiesa o della famiglia in questione.
Con l’arrivo dei tempi moderni gli architetti hanno ribalatato le priorità costruttive,
allontanandosi dalla monumentalità intesa come espressione di potenza favorendo
elementi sociali come “la casa per tutti, un linguaggio secco, industriale e astratto,
l'utilizzo dei nuovi materiali e delle nuove scoperte costruttive, l'urbanistica e gli
insediamenti ”.
Giuseppe Terragni riuscì a sovvertire la concezione che si era avuta di monumentlaità
fino a quel momento, donando alla “Casa del Fascio” ( Piazza del Popolo 4, Como ) un
eccezionale monumentalità nella sua semplicità.
Continuando questo viaggio si passa per Utzon, un architetto interessato all'uomo nelle
sue diverse manifestazioni sociali, motivo per cui progetta una seria di case che sono
celebrazione dell’individuo, una chiesa semplice nella forma ma non nell’intenzione e
una sala concerti, oggi simbolo di un continente, il primo simbolo dell’architettura
moderna. È un opera monumentale, finalmente con una nuova accezione, un
monumento della collettivià.
“È avvenuto che il mondo, e gli architetti se ne stanno rendendo conto, è mutato e che
siamo nell'epoca delle informazioni, nel pieno della Rivoluzione Informatica. E l'epoca
informatica funziona non più per messaggi assertivi, causa effetto, ma per messaggi
metaforici, traslati. Un edifico non è più buono solo se funziona ed è efficiente, insomma
se è una macchina, ma deve dire e dare di più. Tra l'altro quando serve, anche simboli.
Daniel Libeskind lo fa a Berlino nel suo straziante Museo-monumento all'Olocausto,
come un muro spezzato e zigzagante. A Roma il danese Kay Fisker ha eretto
l'accademia del suo paese come un monastero che sa dialogare con San Pietro.. “