Il mito di Narciso nella poesia di Rilke
di Angelo Croci
Articolo tratto dal sito Centro Culturale Temenos
“Non è solo perché rischi di perderla che la tua testa è preziosa” (1), Julia Kristeva
“Quando sarà, quando sarà, quando sarà che ne avremo abbastanza di lamenti e di parole? Non c’è forse stato chi ha insegnato a unire le parole degli uomini? Perché tentare ancora”, R. M. Rilke
Vorrei dire uno stupore: mi è toccata in sorte la confidenza della bellezza, senza merito, con quella gratuità del dono che è oggi uno dei pochi accessi al mistero. In questo dono così entusiasmante c’è anche una perdita, poiché il confidente difficilmente sarà un creatore e della bellezza non sperimenterà il tremendo, che è proprio dell’artista, ma solo la consolazione. Essere domestico della bellezza è come stare in un limbo che sa di paradiso. Eppure questa confidenza è già tanto e crea una intimità segreta e appagante che non si chiude ovviamente nella sfera estetica, ma sempre più rivela un’intelligenza altra, come se dentro la bellezza si rinnovassero molti dei valori che dichiariamo, con un certo compiacimento, perduti. Questo personale privilegio non è nato da una concezione romanticheggiante dell’arte, per cui è ispirato l’artista ed è ispirato anche il fruitore, ne vuole escludere la convinzione che la saggezza della bellezza si possa insegnare. Sono sempre più orientato a pensare che una pedagogia della bellezza possa oggi rimediare a molte insufficienze pedagogiche e portare a quella meraviglia che genera linguaggio e conoscenza. Nella magia del momento mi limito a godere i frutti di questa dimestichezza e a custodire i frammenti del bello che riusciamo a salvare dallo spreco della vita: forse per questo sono stato irretito dalla storia di Narciso, che è comunque la si legga, una storia di bellezza sprecata. Avvolto e nascosto nell’acqua che lo apre e lo chiude (2), con il suo gioco di illusioni, di riflessi e di duplicazioni, il mito di Narciso ci riflette e racconta.
Narrato per la prima volta da Ovidio nelle Metamorfosi (3), scritte all’inizio dell’era cristiana, dal 3 all’8 dopo Cristo, non casualmente appare così tardi nell’universo dei miti, perché la storia di Narciso coincide con la scoperta della soggettività nel pensiero occidentale. Giustamente Julia Kristeva (4) sottolinea non solo il posto che il mito occupa nella storia della soggettività, ma anche nell’esame dei sintomi critici e dei pericoli che la soggettività produce. Narciso siamo noi! Come lo è Rilke che in questa figura si identifica e si specchia, fornendoci come una chiave segreta per entrare nella sua poetica.
Narciso abita la nascita della soggettività e subito la dichiara legata alla morte: Narciso muore. La sua morte percorre tutta la cultura dell’occidente, perché in Narciso non muore un altro qualsiasi, ma è l’io stesso che muore e che si guarda morire (5).
Il mito di narciso
Figlio di Cefìso e di Liriope, Narciso cresce segnato dall’oscuro vaticinio di Tiresia che la madre ha interrogato per sapere se il figlio vivrà a lungo. Si se non noverit, se non conoscerà se stesso, risponde il vecchio profeta. E già all’inizio troviamo come un rovesciamento dell’antico precetto di saggezza dell’oracolo di Delfo, come a metterci sull’avviso intorno al carattere sconvolgente del racconto.
Narciso, amabilissimo fin dalla nascita, sembra subito sparire in un profondo torpore: dopo una lunga, misteriosa ellissi, lo ritroviamo sedicenne andar per selve, impegnato nella caccia in un movimento che parrebbe senza tempo, vanamente amato da giovani e fanciulle attratte dalla sua bellezza e respinte dalla sua superbia.
Il racconto è messo in moto dall’incontro con Eco (6), la ninfa che Giunone ha punito costringendola a mortificare la propria voce nella sola duplicazione dei suoni, ripetendo le parole che ha udito. Questa è la punizione per aver distratto con lunghi discorsi Giunone, mentre Giove amoreggiava con le altre ninfe. Eco vede Narciso e se ne innamora subitamente e perdutamente: lo segue, inpossibilitata a dire il suo amore, pronta ad afferrare e ripetere come in una nenia amorosa le sue parole. Quando finalmente, sull’onda di un continuo ritornello di frasi che divengono il più impossibile tra i duetti di passione, Eco si fa avanti e viene respinta con fastidio e con parole troppo definitive: preferisco morire che darmi a te ! (7) Eco può solo ripetere: darmi a te! La povera Eco non può che consumarsi fino a ridursi solo voce e ossa. E, anche le ossa ben presto si trasformano in sassi. Solo la voce, che dappertutto si sente, ripete in ogni eco il suo lamento.
Narciso invece continuera il suo vagabondare, seguitando a far innamorare e a disprezzare gli amanti e attirandosi da uno di loro una maledizione che la Nemesi non può non sentire: che possa innamorarsi anche lui e non possedere chi ama! Così un giorno Narciso, spossato dalla caccia, arriva a una fonte intatta e, mentre si china a bere, cade affascinato dall’immagine che vede nella fonte e corpus punta esse, quod umbra est, crede che sia corpo quella che è un’ombra, e lo prende un amore irrimediabile e subito disperato. Furoris novitas: espressione potente che sottolinea sia il carattere paradossale dell’evento, sia la violenza improvvisa della passione di Narciso.
Si può aggiungere che il furore amoroso caratterizza, nelle Metamorfosi, i personaggi femminili e le loro incontenibili passioni. Narciso è travolto anche dall’impossibilità di appagare il suo desiderio: desidera, senza saperlo, sé stesso; elogia, ma è lui l’elogiato, e mentre brama si brama, e insieme accende e arde…Quante volte non tuffa nell’acqua le braccia per gettarle attorno al collo che vede, ma nell’acqua non si afferra…
Questo struggimento fatto di estenuante languore e di una sofferenza sempre più impotente sembra diverso da quello parallelo di Eco che si perde senza sapere, solo patendo. Narciso produce dentro il tormenento un sapere progressivo: so che mi piace, so che lo vedo; ma se lo vedo e mi piace, pure trovarlo non mi riesce finché dentro l’inganno di gesti, carezze, sguardi d’affanno, che si duplicano nell’immagine riflessa, si fa strada la verità.
Iste ego sum! sensi, nec mea fallit imago (8) ”. Il turbamento è tale che intronati per la prima volta le acque della fonte. Sfinito si consuma ed Eco che riappare non può che ripetere il suo ultimo lamento. Di sé muore Narciso: Reclinò il capo sull’erba verde. La notte chiuse quegli occhi che ancora ammiravano la forma del loro signore. Si dice che anche nella sede infernale continui a contemplarsi neile acque dello Stige. Ma vicino alla fonte dove le Naiadi, sue sorelle, corrono al lamento e si preparano alla sepoltura, il corpo non c’è più: al suo posto un fiore, giallo nel mezzo e tutto intorno petali bianchi.
Prima ancora del gioco delle interpretazioni che nel corso del tempo si costruiranno intorno storia di Narciso, possiamo già dire che una lettura si impone chiara all’interno del racconto: il mito è l’esemplificazione delle conseguenze nefaste che nascono dal rifiuto della reciprocità amorosa, rifiuto che il mondo antico considera come adikia, “violazione della norma della corrispondenza amorosa” che vuole che amor, nullo amato amar perdoni. È proprio questo rifiuto che esalta nel racconto il tema della riflessività (prima la riflessività vocale di Eco, poi la riflessività ottica di Narciso), sul quale soprattutto hanno indugiato gli interpreti.
In realtà questo tema così fascinoso non è il punto di partenza, ma il risultato della mancata scoperta dell’altro e dell’amore che questa scoperta deve generare in una circolarità assolutamente necessaria. La negazione della reciprocità impone così la chiusura nella circolarità narcisistica e mortale del sé. Non si può affermare l’io, senza dire il tu.
La fortuna del mito
II mito di Narciso ha avuto una incredibile fortuna nella storia della cultura occidentale (9) ed è stato tante volte ripreso, illustrato, metaforizzato. Nel Medioevo per esempio, l’errore di Narciso sta nel suo innamorarsi per ombra e non nella filatulia, cioè nell’amore di sé. Cosi Dante può scrivere, quando nel paradiso scambia per ombra gli spiriti beati, che è caduto nell’errore contrario a quello di Narciso. La psicanalisi invece sottolinea proprio l’innamoramento di Narciso per se stesso, vedendo nel narcisisrno un ritrarsi della libido nell’io. Ma al di là delle riprese del mito che portano per esempio l’Alberti a pensare a Narciso come all’inventore della pittura (10), e questo Narciso creativo verrà poi invocato anche dai surrealisti, a noi interessa sottolineare le due visioni del mito, in qualche modo antagoniste, che ne hanno caratterizzato la stimolante sopravvivenza. Da una parte si fa, come già per Ovidio, una lettura moraleggiante del mito e Narciso diviene esempio della vanitas, sia in riferimento alla caducità della sua bellezza, per nulla salvifica, sia per il suo inganno visto come allontanamento dalla verità e conseguente dispersione. Così è in Plotino (11) che tuttavia costruisce una filosofia dove l’amore di sé è figura stretta dell’amore dell’uno e premessa per il ritorno all’unità originaria.
Dall’altra parte, soprattutto dal tardo Quattrocento in poi, si rileva nel mito una rivalutazione della conoscenza di sé che porta alla trasformazione dell’essere. Per quanto dolorosamente, Narciso arriva a conoscere sé stesso in continuità con l’ammaestramento socratico. La trasformazione porta all’abbandono del corpo e presenta quindi un aspetto salvifico, una vera rinascita attraverso il torpore [narché (12)] racchiuso nel suo nome.
La storia di Narciso come cammino di perfezione è già presente in Ficino (13), e nella sua proposta neoplatonica, ed è ripresa nel Seicento come specchio della perfezione, fino a venir rivisitata, con qualche forzatura, in chiave cristiana (14). Esemplare immagine di una compiuta unità, nel superamento di ogni divisione o riflessione, è il cerchio perfetto disegnato dal Narciso di Caravaggio. che sembra anticipare il frammento rilkiano del 1913. ln una di quelle notti defìnitive che lo hanno fatto signore delle tenebre, Caravaggio immerge il suo Narciso inginocchiato sulla sponda solo con la sua immagine riflessa dalla superficie dell’acqua. Nessun altro elemento, nessuna “decorazione” narrativa interrompono il serrato dialogo suggerito dalle due mani che sono li li per toccarsi e dal movimento delle labbra. Le due figure compongono un cerchio, il cui fulcro è costituito dal ginocchio illuminato da una luce innaturale che esalta il bianco della camicia.
Nella sua assolutezza questo Narciso riassume tutte le letture positive del mito, istituendo col suo cerchio I’immagine compiuta di ogni processo di autoconoscenza, simbolo di una perfèzione che la cultura dell’ultimo Cinquecento insegue, in un desiderio di purifìcazione, non estraneo a inquieti sensi di colpa. Per Calvesi “il circolo luminoso che che Narciso compone con la propria immagine riflessa è dunque Dio trovato nella propria coscienza” (15).
La poesia di Rilke
Prima di vedere come la figura di Narciso nasconda quasi un’autobiografìa segreta di Rilke, se non una identificazione Narciso = poesia, e ci permetta di cogliere alcuni nodi cruciali dello sviluppo della sua opera, ci avviciniamo al poeta di Praga in una maniera un po’ insolita chiamando in causa tre testimoni di grande riguardo per capire di più un personaggio che ha suscitato amori esclusivi e detestazioni anche impietose:
I testimoni:
Freud: Caducità.
“Non molto tempo fa, in compagnia di un amico silenzioso e di un poeta già famoso, nonostante la sua giovane età, feci una passeggiata in una contrada estiva in piena fioritura. Il poeta ammirava la bellezza della natura intorno a noi ma non ne traeva gioia. Lo turbava il pensiero che tutta quella bellezza era destinata a perire, che col sopraggiungere dell’inverno sarebbe scomparsa: come del resto ogni bellezza umana, come tutto ciò che di bello e nobile gli uomini hanno creato o potranno creare. Tutto ciò che egli avrebbe altrimenti amato e ammirato gli sembrava svilito dalla caducità cui era destinato” (16).
Possiamo immaginare, come già ha congetturato Franco Rella, che il giovane poeta con cui Freud si accompagna sia proprio Rilke che in quell’anno scrive i primi due Narcisi. Nel testo Freud cerca di convincere il poeta che la vanità del tutto non sminuisce la bellezza anzi ne esalta il valore, ma non sembra riuscire ad addolcire la malinconia del compagno. In realtà l’incontro tra i due avviene un poco più tardi: l’8 settembre 1913. Accompagnato da Lou Andreas Salomè, Rilke trascorre I’intera giornata al IV Congresso di Psicanalisi, presieduto da Jung. Lou lo presenta a Freud e i due trascorrono la serata fino a tarda notte. Il contenuto e il tono del colloquio sta tutto nelle pagine di Caducità. Freud a mio avviso ha fatto un breve spostamento temporale e ha dilatato la scenografia dell’incontro, mettendo sullo sfondo il paesaggio dolomitico. Il frammento di Freud coglie bene quel sentimento della caducità che aveva caratterizzato la felice e fragile poesia del primo Rilke e che tornava con una certa continuità nella sua vita e nella sua poesia, come testimoniano anche i quaderni di Malte Laurids Brigge, romanzo ampiamente autobiografico, dal quale Rilke esce svuotato e non salvato, anche se il suo sguardo sembra riscattato dai compiacimenti intimistici e capace ora di posarsi con più ampia sapienza sulle cose.
Marina Cvetaeva: lettera a Rilke (9 maggio 1926).
“Voi, poesia fatta carne, dovreste sapere che il vostro stesso nome è già poesia. Rainer Maria: una risonanza ecclesiastica, infantile, cavalleresca. Il vostro nome non fa rima con la modernità; viene – dal passato o dal futuro – da lontano. Un maestro (Goethe per esempio) lo si può superare, ma superare voi significa (significherebbe) oltrepassare la poesia. Poeta è chi oltrepassa (dovrebbe oltrepassare) la poesia”.
E pochi mesi dopo, a ridosso della morte di Rilke, in Deserti luoghi:
“Non vita né morte: la nuova terza cosa”.
Tra il testo di Freud e la lettera della Cvetaeva, la prima di sette appassionate lettere che la poetessa russa invia a Rilke nella primavera e nell’estate del ’26, all’interno di un epistolario a tre voci che ha come mediatore Boris Pasterrrak’ (17), scorrono una decina d’anni e ci sta quell’incredibile gennaio-febbraio del ’22 nel quale Rilke porta a termine le Elegie e i Sonetti. Il breve epistolario testimonia una rara affinità elettiva e una comunione dello spirito, che al di là degli entusiasmi arriva poi a cogliere il nucleo segreto della poesia di Rilke, “la nuova terza cosa”. Marina coglie con infantile stupore l’unicità della poesia di Rilke, sicuramente il più assoluto dei poeti del Novecento, per l’immedesimazione di vita e poesia, di cosa e parola, di vita e di morte
Martin Heidegger: perché i poeti?
“Il precursore quanto poco è oltrepassabile altrettrettanto poco è passeggero”;
“Non siamo affatto preparati a un’interpretazione d’insieme delle Elegie e dei Sonetti; e ciò perché la regione di cui essi ci parlano non è ancora stata pensata sufficientemente nella sua costituzione e nella sua unità metafisica”;
Heidegger sembra riprendere in chiave filosofica l’adorazione della Cvetaeva, e cerca in Rilke quel rapporto tra poesia e filosofia che può riportarci sulle tracce dell’essere. Egli parte da una citazione di Holderlin, “Perché i poeti nel tempo della povertà ?”, della perdita, dell’oscillazione sull’abisso? E qui vorrei fare una prima osservazione: a me Rilke sembra più il poeta del tempo della ricchezza, perché la sua poesia, che a volte è sembrata languida, mi pare richiedere una severa compostezza e la serena consumazione della vita. È una poesia che impone il superamento dei bisogni e delle domande. Le interrogazioni, è vero, la attraversano continuamente, ma hanno più la funzione liturgica dell’invocazione dopo il compimento, come il cristiano “torna Signore Gesù!”. Nel Rilke delle Elegie e dei Sonetti la poesia cambia funzione e direzione e diviene il linguaggio di chi, consumato, è già disposto verso l’Altrove. È opportuno a questo punto sottolineare la distinzione che la cultura tedesca opera tra Sprachsschopfer, il creatore di lingua, il grande fabbro della parola, e tale per esempio è Shakespeare per Wittgenstein, e il Dichter, non semplicemente il poeta, ma colui che costituisce nella parola un sapere. Se lo Sprachsschopfer si muove sul vuoto e sull’abisso e cerca di circondarlo, addolcirlo, e in definitiva ingannarlo con le parole, il Dichter conosce solo la parola che promette. Il suo è un sapere che si avvicina a quello di Adamo, egli dice quello che è, dà un nome alle cose. Per Canetti il Dichter più di ogni altro essere umano, è investito di una responsabilità verso la vita, per cui la sua vocazione privilegiata e insistita è di opporsi alla morte. Per Heidegger egli dice l’essere in una apertura ed esposizione alle pressioni dell’essere a farci percepire il mistero, quella portentosa e invisibile pulsazione del venire all’essere in tutte le presenze del nostro mondo. Il Dichter è il pastore e il profeta dell’essere e con lui l’uomo si avvicina di più a quello che ha promesso di essere se vuole essere un uomo. La poesia di Rilke è una dolorosa conquista dalla condizione e di Sprachsschopfer (quella sua indisponente facilità al verso, quella felicità musicale che quasi lo irrita e che accompagna come una condanna la sua prima produzione poetica) a quella di Dichter che trova la più esemplare delle attuazioni nella luminosa IX Elegia, che possiamo indicare come il compendio di tutta l’opera. La lettura di Heidegger resta comunque riduttiva (19): la saggezza rilkiana ribadirebbe che il rimedio alla perdita della fusione primitiva con la natura (la povertà, allora, come perdita dell’Aperto: VIII Elegia) può essere la fuga verso una interiorità così profonda da raggiungere in un movimento all’indietro l’unità perduta. Ma Rilke non è il poeta del ritorno, piuttosto dello sconvolgi mento e del rovesciamento, della metamorfosi continua che lo porta a scoprire (ecco la nuova regione o “la terza cosa” della Cvetaeva) una realtà altra dall’io e altra dall’essere, una realtà che salva, in un nuovo spazio, io e natura, fatti interiori l’uno all’altra e così imperdibili.
Questa è l’opera del cuore: dire l’indicibile (non vi si sfanno i nomi sul palato?). L’antinomia tra interno e esterno non si risolve, come legge Heidegger, attraverso il ripiego nell’interiorità assoluta, e saremmo ancora dentro la storia della metafisica della soggettività con Rilke trasformato in una specie di dolce Nietzsche, ma in una nuova possibilità dell’io e del mondo di vivere in una completa reciprocità di dentro e fuori. Estendersi (reichen) in un’eccedenza continua dell’esistenza:
“Innumerabile esistere mi scaturisce in cuore”, (IX Elegia).
Le cose trasfigurate, proprio da noi, i passanti, permettono di leggere direttamente l’interiore nell’esteriore, superando ogni contrapposizione, senza nulla elidere.
Dalle voci che abbiamo ascoltato emerge il ritratto di un artista dall’acuta e fragile sensibilità che è riuscito a trovare dentro la poesia, più che dentro di sé,l a forza non tanto di contrastare la morte, quanto di farla ascendere alla vita. Può essere utile schematrzzare il suo itinerario distinguendo tre periodi nell’opera di Rilke. Il primo, in cui il tramite è il puro sentire, culmina nell’esperienza dei viaggi in Russia compiuti alla svolta del secolo, a fianco di Lou Andrea Salomè. L’opera più importante di questo periodo è, secondo Peter
Szondi, Il libro d’ore. Il secondo periodo ha inizio con la prima svolta dovuta alla frequentazione di Rodin e alla scoperta entusiasta della pittura di Cézanne, col volgersi alla visione precisa, pervasa dalla inesorabile volontà di capire e imitare, all’opera della vista, che si colloca all’epilogo di questa fase e che trova espressione poetica nelle Nuove poesie, che segnano il superamento di una soggettività del sentire, nient’altro che languore o logorio, dove si perde inesorabilmente ogni comunicazione con l’essere. Il terzo periodo si matura
nella seconda decisiva svolta, su cui si fondano le Elegie duinesi. Qui avviene il passaggio dall’opera dello sguardo all’opera del cuore che la nona elegia definisce come il Sagen, il dire le cose. Ma il dire produce anche quella conversione della morte che è il fine dell’intero ciclo, il rovesciamento continuo e definitivo insieme, di cui è figura Orfeo, dove non è la poesia che dà soluzione al problema della morte, ma la morte che dà soluzione al problema della poesia.
La caduta e il sentire
È dalle ansie che l’apparente gioiosità dell’impressionismo mal cela che prende l’avvio la poesia che sa di musica del primo Rilke. Il punto di partenza non è lontano dall’impressionismo viennese, per cui il mondo altro non è che lo scorrere delle nostre sensazioni, che nascono, si consumano, si disper dono. Nella caduta e nella perdita l’io si disperde e si dissolve (“Trascorro, trascorro come sabbia tra le dita”). Non solo l’io appare irredimibile, ma si riduce ad essere una sola metafora, una parola priva di qualsiasi sostanza (Hoffmansthal), nella caduta di ogni corrispondenza di mondo interiore e mondo esteriore. Resta nella fìsicità della caduta la lievità del verso, come un ritrovamento infantile, ora pura emozione, ora, come ne Il libro d’ore, tentativo di costruire una spiritualità che all’anima infantile dia consistenza o impossibile durata (“Ma l’ora muore senza testamento“). La città (l’infernale Parigi
dell’attacco del Malte), la civiltà, la storia spazzano via versi e sogni e riportano il poeta alla fedeltà a un’indole quietamente malinconica e perduta. Il sentire è puro svanire.
Imparare a vedere: l’opera della vista
Il Rilke che sente diviene il Rilke che impara a vedere: i versi sono esperienze. Per scriverne anche uno soltanto, occorre aver prima visto molte città, molti uomini, molte cose (20). È questo I’apprendistato difficile e doloroso degli anni dal 1901 al 1913. Lo salva la solidità dell’atto e la solidità della cosa che nell’atto si scopre, non più immagine delle nostre evanescenti sensazioni, ma vera sostanza, essenzialità che non marcisce, come le mele di Cézanne viste nella grande retrospettiva al Salon d’Automne, che Rilke va a visitare quasi di nascosto, ogni giorno, dandoci di ogni scoperta il minuzioso resoconto e la solida emozione, nelle lettere alla moglie, poi raccolte in un volume che è tra i gioielli della critica d’arte del primo Novecento (21). Il disperdersi nelle cose (l’anemone, sensualità elementare senza occhi (22) , il primo Narciso) diventa farsi cosa fatta tra le cose (Rodin): da poeta musicale a poeta plastico, dalla melodia delle cose al corpo e al silenzio delle cose. Dipingere o scrivere significa dire: questa è la cosa e non: io amo questa cosa. Si tratta allora di creare poesie che abbiano un grado di realtà tale da sottrarre il loro oggetto al fluire spazio-temporale, poesie più reali degli oggetti che esse rappresentano. Se questa svolta dà una prima consistenza alle cose non sembra darla a Rilke – Malte.
Di nuovo dire (Dennoch, eppure…)
Rilke tenta il ricongiungimento: questo congiungersi della figura umana con le misure delle cose ci fa tornare a Plotino e detetmina una poesia molto vicina ai processi di astrazione dell’arte del Novecento (23). La parola salva le cose e in questo ricongiungimento dà all’uomo, la più fragile delle creature, una consistenza inaudita che lo fa superiore all’angelo. L’angelo chiamato in causa nell’apertura della prima elegia, continuamente invocato e terribilmente inaccessibile, viene letteralmente scavalcato dall’uomo salvato nella parola, che gli diviene sbalorditivamente maestro.
La fìgura si rovescia e ora TU puoi all’Angelo lodare il mondo, tu dire le cose, tu mostrare quanto una cosa può essere felice. È come una nuova creazione, il punto più alto della poesia dì Rilke, a cui partecipa la terra intera, in un nuovo cantico delle creature: la morte che tutto smembrava (Noi siamo solo la buccia e la foglia. La grande morte che ognuno ha in se è il frutto intorno a cui rotola ogni cosa), ora è ammessa all’esistenza e giustificata e noi viviamo l’esistenza del nocciolo dentro il frutto. Noi siamo esigenti della morte:
O Signore dai a ciascuno la propria morte,
un morire che sia veramente scaturito da questa vita,
dove trovò amore, senso, angoscia.
Sormontare la morte: vuole dire oltrepassare, ma sostenendo ciò che ci oltrepassa. Vi sono morti distratte: quella in cui non siamo maturati, che non ci appartiene; quella che non è maturata in noi e che abbiamo acquisito con violenza. Morte estranea, che ci fa morire (24) nell’angoscia dell’estraneità.
Morire invece nell’appartenenza al tutto della vita e della morte (e dacci adesso – dopo tutti i dolori delle donne – la maternità grave dell’uomo). Morire di una morte che non tradisca me stesso. Morire me stesso senza tradire la verità e l’essenza della morte. Rilke non esalta la morte ma tenta anzitutto una riconciliazione: vuole che noi ci sentiamo in confidenza con quella oscurità, affinché essa ci illumini. Ogni uomo è chiamato a ricominciare la missione di Noè. Deve diventare l’arca intima e pura di tutte le cose, il rifugio in cui esse si mettono al riparo, e dove tuttavia non si contentano di essere quali sono. Anch’esse devono immergersi in un diluvio più profondo: non bisogna restare ma passare. Ogni cosa è caduca, ma noi siamo i più caduchi, tutte le cose passano e si trasformano, ma noi vogliamo la trasformazione. E questa trasformazione, questo compimento del visibile nell’invisibile, di cui abbiamo l’incarico, è il compito stesso di morire che ci è stato così diffìcile riconoscere.
Angelo Croci, Filosofo, teologo e critico cinematografico
1998 © Tutti i diritti sono riservati ed è vietata la riproduzione
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Note
Julia Kristeva, Visions Capitales, Réunion des Musées Nationaux, Paris.
… e lo fa rivelatore , se è vera la sentenza folgorante di Averroé: “aqua est oculus” ossia l’acqua è l’occhio.
Ovidio, Metamorfosi, Libro III, versi 389-510. Altre versioni più tarde del mito sono in Conone: Narrazioni, 24 e in Pausanias: I 30,1 e IX 31,7-8.
Giulia Kristeva, Storie d’amore, Editori Riuniti.
F. Rella, Negli occhi di Vincent, Feltrinelli, 1998, p. 40.
Prefigurazione auditiva della duplicazione visiva nel riflesso acquatico, ma anche anticipazione struggente della perdita del corpo che colpirà anche Narciso.
Ben più forte Ovidio: “Manus complexibus aure! Ante emoriar, quam sit tibi copia nostri!” Rettulit alla nihil misi “Sit tibi copia nostri“. (“Giù le mani, non mi abbracciare! – esclama – Preferisco morire piuttosto che darmi a te”. Eco non risponde altro che “darmi a te!”).
Questo sono io! L’ho capito, e la mia immagine più non mi inganna.
Questa fortuna è trascritta e analizzata nell’esemplare libro di Louise Vinge: The Narcissus Theme in Western European Liberatore up to the Early 19th Century, Lund, 1967.
“Però usai di dire tra i miei amici secondo la sentenzia dei poeti quel Narciso convertito in fiore essere della pittura stato inventore. Che già ove sia la pittura fiore di ogni arti ivi tutta la storia di Narciso viene a proposito. Che dirai tu essere dipignere altra cosa che simile abbracciare con altre quella ivi superficie del fonte?”, Alberti, Della pittura, 1435.
Ennadi I, 6, VIII: “Chi infatti si avventa sui simulacri, come volendo toccare cose reali, somiglia a colui che volle afferrare la sua immagine bella che vagava a fior d’onda e – questo vuol significare secondo me la favola – s’immerse nella corrente profonda; e parve”, Vedi anche il fondamentale saggio di Hadot: Le mite de Narcisse et son interpretato par Plotino, in Nouvelle Revue de Psycanalyse, 1976.
ⱱαρxη infatti implica una dimensione conoscitiva che prelude al risveglio e alla vittoria sulla morte. Il motivo di addormentamento salvino torna nella fiabe, come in Rosaspina per esempio.
Commentarium in Convivium Platonis, 1469.
Pierre Marbeuf nel suo Le tableau de Narcisse (1620) parla del Gran Narcisse perfaite e Suor Juana de la Cruz in El divino Narciso (1685) fa addirittura coincidere le varie fasi del mito con quelle della vita del Cristo.
Maurizio Calvesi, La realtà di Caravaggio, Einaudi, 1997.
S. Freud, Caducità, 1915. Freud trascorse sulle Dolomiti parte dell’Agosto 1913; ma l’identità dei suoi compagni non è stata mai stabilita con certezza.
Cvetaeva, Pasternak, Rilke: Il settimo sogno. Lettere 1926. Editori Riuniti.
Martin Heidegger, Sentieri interrotti (1950), La Nuova ltalia.
Vedi Michel Haar, Rilke o l’interiorità della terra, in Aut Aut n. 235, 1990.
Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge, Oscar Mondadori.
Rilke, Lettere a Cezànne, Electa.
Rilke, Lettere a Lou, 26 giugno 1914.
Baioni, La musica e la geometria, in Rilke: Poesie I, Einaudi-Gallimard, a cui mi sono rifatto per questa sintesi.
…non è la nostra morte, ma una morte che ci prende / alla fine, soltanto perché noi non ne abbiamo maturata nessuna.