Polino, in provincia di Terni, è un piccolo comune dell’Umbria, circa cinquecento abitanti, ad 836 metri di altitudine dove il freddo, nelle gelide serate invernali, si fa sentire. È la fine degli anni Cinquanta: nelle abitazioni non c’è il riscaldamento, l’unica fonte di calore è il camino, c’è un unico televisore a disposizione della popolazione che viene acceso poche volte alla settimana, soprattutto in occasione della trasmissione Lascia o Raddoppia.
Prima delle sette di sera si cena, io e i miei fratelli facciamo a gara per finire in fretta e prendere il posto migliore davanti al focolare, perché non vediamo l’ora di sentire i racconti e le vecchie storie di nonni e genitori. Storie ben conosciute, ascoltate più volte ma domandiamo sempre la stessa cosa: «Papà raccontaci della guerra!» e lui: « beh!, magari domani sera, ora filate a letto!».
Tutte le sere ci risponde così.
Tutte le mattine, invece, i nostri coetanei si vantano delle eroiche storie di guerra raccontate a casa ogni sera davanti al camino.
E pensare che ne avrebbe avute di cose da raccontarci dopo cinque anni di militare nella Regia Marina, di cui tre nella campagna di guerra 1940-1943:
Imbarcato - a venti anni appena compiuti - il 21.01.1940 sull’incrociatore Regia Nave Fiume;
Affondato nella battaglia di Capo Matapan (Grecia) la notte del 28 marzo 1941;
Dopo trentasei ore di naufragio, soccorso e fatto prigioniero dai Greci.
Questi sono i racconti che mio padre, Giovanni Conti (detto Cecco), nato a Polino il 7 gennaio 1920, Croce al merito di Guerra 1^ concessione - 1° ciclo e Naufrago, non ha mai fatto a noi figli.
Solo con il tempo sono riuscito a carpire qua e là delle notizie, in particolare da mia madre che qualcosa aveva saputo da papà, sulla terribile tragedia di Capo Matapan.
Ora capisco che non erano storie da bambini, prima di andare a dormire come avrebbe potuto raccontarci che l’affondamento forse è stato frutto di un tradimento o che forse gli inglesi captarono un messaggio cifrato e in pochi minuti scaricarono sulla flotta italiana una pioggia di proiettili, sparati a bruciapelo sui marinai degli incrociatori Fiume, Pola e Zara. C’erano circa tremila ragazzi, tutti poco più che ventenni. Non c’è stata guerra, ma nemmeno una battaglia: solo orrore. Ventenni straziati dalle deflagrazioni. Alcuni sono annegati dopo una lunga agonia. C’erano morti da tutte le parti: chi per le ferite e le ustioni, chi facile preda dei pescecani sotto gli occhi increduli dei superstiti. Erano le 22.27 del 28 marzo 1941, quando iniziò il massacro. Intorno alle 23:15 il Fiume, ormai fortemente appoppato, venne colpito in rapida successione da colpi di proiettile da 381, si capovolse e affondò, passando in pochi secondi da nave da guerra a torcia galleggiante.
L’assurda notte di Capo Matapan è stata la più grande sconfitta della storia della nostra Marina con circa 2330 morti, 850 prigionieri, una corazzata danneggiata, tre incrociatori pesanti e due cacciatorpediniere affondati.
Nel solo incrociatore Fiume le perdite furono 814, a fronte di un equipaggio di 1.083 uomini solo 269 sono stati salvati. Le perdite della flotta inglese sono state solamente tre.
«…Buio pesto su tutta la Baia, mare piatto e un silenzio spaventoso. Era la notte di venerdì 28 marzo 1941, quando, dopo le 10, il mare si illuminò a giorno… Non avemmo neanche il tempo di reagire, gli inglesi avevano iniziato la carneficina. Pochi minuti e ci trovammo in mare circondati da tanti piccoli falò, era come se il mare bruciasse… dopo un’ora, un’ora e mezza tutto era finito, noi marinai cercavamo, di salvarci la vita nelle gelide acque, ma il peggio doveva ancora arrivare! Solo allora iniziò la lunga notte dei naufraghi! ...Sentivo le urla “Aiuto! Aiuto annego”… poi il silenzio…”Dio mio salvami!, Aiuto Aiuto!”…e ancora “Mamma, mamma mia Aiuto!”… “Mamma, mamma mia” era l’invocazione che si ripeteva di più. Andò così per tutta la notte tra un silenzio e l’altro in mezzo ai falò. Tanti mollavano erano stremati e presi dal panico, molti li abbiamo aiutati ma altri…”. “La luce dell’alba ci ridette un po’ di speranza, ma gli aiuti non arrivavano mai, ogni minuto trascorso sembrava una vita. I falò si erano ormai spenti quando cominciò ad intravvedersi qualche soccorso...»
«...Fummo recuperati e fatti prigionieri dai Greci, trasferiti in un campo ad Atene, subendo svariati soprusi oltre la fame, la sete e il freddo che erano all’ordine del giorno. Ricordo che aldilà del recinto c'erano molte piante di arancio, i frutti maturi cadevano in terra vicino alla rete, allungavamo la mano per raccoglierli, ma , puntualmente, i passanti e con un calcio li allontanavano da noi. Anche questo passò e riuscimmo a rientrare in patria e finalmente il 31.8.1945 fummo congedati. »
Dopo qualche mese, due marinai di paesi vicino Polino imbarcati sul Fiume, ma in licenza al momento dell’inizio delle operazioni di guerra, dissero a mio padre «qui si aggirano due individui che si spacciano per giornalisti, cercano i superstiti dell’incrociatore Fiume, fanno strane domande, se arrivano a Polino tu non dirgli niente! Taci non ti fidare!». E lui: «Ma chi erano? Cosa volevano sapere e perché? Forse volevano sapere che ne pensavo della trappola di Capo Matapan? Ma ormai la guerra è finita! ».
Ma non per lui che per anni e anni le notti riaffrontava la stessa guerra, anche se il bagnato che sentiva non era dovuto alle gelide acque del Peloponneso, ma al sudore di un incubo e quella mano sulla spalla non era quella dell’amico naufrago che si appoggiava per prendere fiato, ma quella di mamma che cercava di svegliarlo e gli sussurrava “Cecco! Oh Ce’! Sveglia stai sognando! Su, cambiati la maglietta che sei tutto sudato!”.
Chissà come sarebbe stata la vita senza quella maledetta guerra?