La degenerazione del pensiero scientista

di Alfonso Coppola

Con piacere colgo l’occasione offerta dal garbato articolo di Concetta Russo, Le geremiadi della ragione”, in risposta al mio “La questione di Dio”, per approfondire l’argomento.

Stando alla riflessione di Russo, il pensiero scientista - la convinzione che soltanto la scienza sperimentale possa essere in grado di fornire conoscenza e che ogni questione possa essere risolta col metodo scientifico - rappresenterebbe l’unica strada in grado di frenare “pensieri distopici ed ostracizzati”, l’unica via in grado di “aprire nuovi orizzonti, e vagliare con saggezza, per orientare meglio le nostre azioni”; “proporre e riproporre un «dio», spesso debole e incongruo, espressione delle nostre irrequietezze” ci allontanerebbe da quel “percorso di crescita personale in grado di dare un vero significato alla nostra esistenza e che ci permette di ricercare continue risposte e scoprire, contestualmente, nuove entusiasmanti domande”. L’autrice, evidente sostenitrice di una fede negativa che rifiuta a priori qualsiasi forma di conoscenza non riconducibile all’evidenza sperimentale, non si astiene, anche se con garbo, dall’attribuire a chi propone una differenza di metodo nel proprio approccio al reale un “intelletto fiacco, che non osa più”, non più in grado di “accogliere le sfide che si presentano alla nostra attività conoscitiva”. La dimensione religiosa, scrive, “non può essere un’alternativa alla ragione”, in quanto capace principalmente di “accendere gli animi con il fanatismo e l’intransigenza”.

Va detto che persino le personalità richiamate da Russo si sono mostrate decisamente più imparziali ed obiettive. Heidegger, ad esempio, il severo filosofo della Foresta Nera, in una sua conferenza, Tempo ed essere del 1962, riferendosi al “problema di Dio” pronunciò la seguente frase: “più saggio rinunciare non soltanto alla risposta, ma allo stesso interrogativo”. Un consiglio che però non venne attuato neppure da lui, visto che quattro anni più tardi, in un’intervista al settimanale Der Spiegel ebbe a dichiarare: “Solo un Dio ormai può aiutarci a trovare una via di scampo”. Lo stesso Stephen J. Gould, biologo evoluzionista, ammise il valore della religione nell’esistenza umana. Nel suo libro I pilastri del tempo scrisse: “Non sono credente, sono un agnostico … tuttavia nutro grande rispetto per la religione”. Un pensiero che continuerà ad essere evidente in tutto il suo libro. Un’affermazione che provocò una forte reazione negativa da parte del più insigne ateo al mondo, Richard Dawkins. Lo stesso Dawkins, però, dopo aver sferrato un infuocato e sistematico attacco incentrato sulla follia della religione, nel libro L’illusione di Dio, definendo quest’ultima “non soltanto un male, ma anche stupida” e asserendo “che alle persone religiose non si debba alcun rispetto”, attenua la propria posizione ponendosi soltanto al livello 6 di ateismo, in una scala da lui stesso ideata, nella quale al primo livello si trovano coloro che hanno una fede assoluta in Dio, mentre il settimo indica una certezza al cento per cento che Dio non esista. Una posizione che conferma nel 2012 quando, in un incontro sul ruolo della religione nella vita pubblica, tenutosi presso l’Università di Oxford con l’arcivescovo di Canterbury Rowan Williams, sorprendendo tutti, sostenne di preferire definirsi agnostico, provocando l’incredulità del filosofo Sir Anthony Kenny, incaricato di presiedere la discussione. La notizia fece il giro del mondo. Più o meno la maggioranza dei quotidiani anglosassoni titolarono così: «Richard Dawkins, l’ateo più famoso del mondo dice di essere agnostico». (cfr il Daily Mail Online e The week UK entrambi del 24 febbraio 2012).

Nel mio precedente articolo ho espresso l’invito a prendere coscienza che non esiste alcun conflitto tra credo e scienza, tra fede e ragione, e che essi sono del tutto compatibili. Scienza e religione sono due straordinari saperi che possono agire in una condizione di collaborazione, comprensione e di mutuo rispetto, poiché entrambe sono parti complementari della ricerca della realtà e del senso dell’esistenza. È un’apertura che ci propone lo stesso Nagel nel libro che ho recensito il quale, per quanto ateo convinto, non ha avuto alcuna riserva nel sostenere che “una spiegazione puramente materialistica della teoria evoluzionistica non può essere tutta la verità”, che “la teleologia implica che, oltre alle leggi fisiche del tipo che ci è familiare, ci siano altre leggi della natura «orientate verso ciò che è straordinario»”, e che tale ipotesi implichi che possa esistere “una predisposizione cosmica alla formazione della vita, della coscienza e dei valori, che è inseparabile da essi”.

Concetta Russo si chiede: “cosa c’entra il neodarwinismo con Dio?” C’entra, innanzitutto perché prende in esame la prospettiva emergentista, che vede l'evoluzione come un progressivo incremento della complessità e della capacità della vita di giungere fino all'autocoscienza e alla dimensione spirituale, cioè alla libertà e alla sua capacità di produrre il nuovo. C’entra, inoltre, nel momento in cui comprendiamo che non è possibile, nemmeno a partire dalla scienza sperimentale, il raggiungimento di un punto di visuale così ampio da produrre una visione del mondo come sapere.

La scienza sperimentale procede oggettivando, ma il tutto della vita non è oggettivabile perché ci contiene, così che parlando di essa in realtà parliamo di noi. Di fronte al tutto della vita, al fine di poterne avere una visione d’insieme, oltre alla conoscenza oggettiva sono necessarie altre facoltà, cioè quelle disposizioni ulteriori diverse rispetto alla deduzione logica e solitamente dette intuizione, sentimento, fiducia, emozioni. Grazie alla comprensione di molti dei suoi meccanismi, oggi l’evoluzione trova il suo giusto posto fra le riflessioni biologiche, e può davvero spiegare un mucchio di cose sul mondo vivente, ma ritenere che non vi possa essere conoscenza se non legata all’evidenza scientifica e alla dimostrazione logico-matematica è divenuta nel tempo una concezione antiquata. Come ha scritto Francis Collins, genetista di fama internazionale, a lungo a capo del Human Genome Project: “La scienza non è l’unica strada che conduce alla conoscenza. La visione spirituale del mondo offre un’altra via verso la verità”. Evoluzione e fede in Dio non sono necessariamente in contraddizione. Già all’inizio del XX secolo il filosofo, geologo, paleontologo e sacerdote gesuita francese Pierre Teilhard de Chardin argomentò che l’evoluzione non sostituisce Dio e che Dio, secondo il suo pensiero, “agirebbe attraverso il processo evolutivo”. Il riduzionismo scientifico è un metodo validissimo e potente, ma è solo un metodo utile a osservare alcuni aspetti delle relazioni tra fatti. L’errore che si tende a fare è trasformarlo in ontologia, ossia ritenere che la realtà debba essere indagata solo con quel metodo e che solo ciò che è compatibile con esso sia vero. Come scrive il fisico teorico Carlo Rovelli, il quale ama definirsi “serenamente ateo”, nel suo saggio La realtà non è come ci appare: “Siamo immersi nel mistero e nella bellezza del mondo”. Scoprirne le sue infinite sfaccettature rappresenta una sfida immensa ed affascinante, che si apre come un sipario davanti ai nostri occhi, ma che sapremo affrontare in maniera adeguata solo se saremo in grado di liberarci dalle gabbie mentali che ci siamo autoimposte.

Insistere su “prove” a proposito della complessiva visione del mondo finisce per collocarci all’interno del più perfetto dogmatismo. Anche un certo dogmatismo del potere ecclesiastico ritiene, infatti, che dall’osservazione della natura si giunga con certezza alla conoscenza dell’esistenza di Dio e che quindi vi siano prove razionali della sua esistenza.

(Articolo pubblicato sul periodico Zonagrigia.it il 15/03/2019)