Università

Se un peggioramento c’è stato, è riconducibile a peggioramenti di studenti e professori che, in assenza di una riorganizzazione coerente con la nuova struttura e scopi della riforma, si sono rafforzati a vicenda. Per fare il lavoro necessario a seguire gli studenti che l’allargamento degli accessi inseriva nell’Università il personale docente avrebbe dovuto essere diverso e, soprattutto, diversamente organizzato. Non è chiaro che debba essere l’Università a rimediare a carenze formative pregresse, dovute sia alla poca efficacia della scuola media superiore, sia soprattutto al back-ground socio-familiare degli studenti. Ma se è questo quel che la legge prevedeva, occorreva rivedere i programmi in modo adatto all’alfabetizzazione accademica o alla formazione pratica, e dedicare risorse alla didattica integrativa e interattiva. La quasi contemporanea riforma dei concorsi accademici, che consentiva non solo ai finanziariamente autonomi atenei di orientare su posti di docente di ruolo le risorse disponibili ma anche di influenzare fortemente l’esito dei concorsi, innescava invece un circolo vizioso. Privilegiando la numerosità dei corsi e degli studenti, delle cui carenze pregresse non si preoccupava, da un lato il sistema rinunciava a fornire al sistema produttivo percorsi sostanzialmente utili e segnali chiari sulla qualità dei laureati. Dall’altro scatenava processi di reclutamento orientati dalla composizione di rapporti di forza personali e di area disciplinare. L’Università usava quindi ogni aumento di risorse per attingere più persone dal solito bacino e con i soliti criteri, inevitabilmente peggiorandone la qualità. E al vecchio e nuovo personale continuava a far fare lo stesso lavoro di sempre, in strutture che mantenevano l’antica organizzazione formale ma già da tempo avevano perso quel controllo, dall’alto o tra pari, che poteva mettere l’Università, come struttura didattica e di ricerca, al servizio del sistema sociale ed economico del Paese.

I nuovi laureati