Francesco Petrarca, Canzoniere 339, di Tommaso Zausa, IA
Conobbi, quanto il ciel li occhi m’aperse,
quanto studio et Amor m’alzaron l’ali,
cose nove et leggiadre, ma mortali,
che ’n un soggetto ogni stella cosperse:
5 l’altre tante sí strane et sí diverse
forme altere, celesti et immortali,
perché non furo a l’intellecto eguali,
la mia debil vista non sofferse.
Onde quant’io di lei parlai né scrissi,
10 ch’or per lodi anzi a Dio preghi mi rende,
fu breve stilla d’infiniti abissi:
ché stilo oltra l’ingegno non si stende;
et per aver uom li occhi nel sol fissi,
tanto si vede men quanto piú splende.
Il poeta riconosce di aver potuto individuare nella donna amata solamente virtù e caratteristiche terrene («cose nove et leggiadre, ma mortali»: v. 3), e si rimprovera di non essere riuscito a scorgerne i pregi spirituali, bellezze che la sua «debil vista non sofferse». Le lodi che ha intessuto per lei sono quindi insignificanti, sia se paragonate alla donna, sia all’intercessione di essa presso Dio: le poesie del poeta sono svilite dai «prieghi» della donna, in quanto, a differenza di esse, hanno natura terrena ed effimera, mentre le sue preghiere appartengo ad una sfera più alta di quella mondana. Tale sproporzione è resa al v. 10 dalla doppia figura della metafora e dell’iperbole: la vanità delle composizioni di Petrarca è infatti paragonata a una «stilla», mentre l’incommensurabilità delle virtù di Laura è rappresentata come «infiniti abissi».
La consapevolezza del poeta di tale insufficienza è maturata dolorosamente dopo la scomparsa della donna: il sonetto, infatti, fa parte della sezione “in morte”. In effetti, l’autografo stesso separa i primi 263 sonetti (“in vita”) ai successivi con una serie di pagine bianche, a rappresentare il baratro della morte di Laura. Mentre quindi nella prima sezione del Canzoniere il poeta decanta le virtù della donna e lo struggimento di un amore non corrisposto, nella seconda egli, avvedendosi della vanità delle cose terrene, invita sé stesso a «cercare il ciel», cioè a volgere lo sguardo verso Dio. Per questo motivo è spinto a mettere a confronto la fragile bellezza mortale di Laura esaltata nella prima parte e la bellezza immortale che emana dalle virtù divine. La prima è ricordata a v. 3 come «cose nove et leggiadre, ma mortali», poi superate da «sì strane et sì diverse / forme altere, celesti et immortali» (vv. 5-6). La disposizione delle parole riflette l’io lacerato: nel descrivere la bellezza terrena, infatti, Petrarca dapprima la loda con entusiasmo («cose nove et leggiadre»), poi soffocato dal riconoscimento della sua vanità («ma mortali»); nella descrizione dell’ordine di bellezza di carattere divino, invece, il poeta dapprima vi si avvicina cautamente («sì strane et sì diverse»), come per devozione, per poi esaltarla, con i mezzi espressivi umani, per per quanto possibile («forme altere, celesti et immortali»). È tuttavia da notare che i vv. 5 e 6 sono legati da un enjambement, che suggerisce l’unità tra il sentimento di timore reverenziale e la massima esaltazione della virtù. Un’esaltazione che però non può descrivere appieno la bellezza celestiale della donna, come confessa il poeta stesso, paragonando il suo ingegno limitato a un uomo che guarda diritto nel sole (vv. 13-14). Provando a comprendere, ovvero fissando intensamente lo splendore di Laura, il suo ingegno viene meno, come quando si rimane accecati osservando il lume intenso del sole.
Nella poesia amorosa d’alto stile il tema dell’ineffabilità è frequente, tanto che in Dante e nello stilnovo diviene un topos. Petrarca non fa eccezione: nel descrivere (o meglio, nel tentare di descrivere) la virtù di Laura, fa utilizzo di immagini che rievocano la perfezione della donna angelo. Nel sonetto 339, per esempio, la terzina finale paragona Laura al sole, che acceca chiunque tenti di osservarlo direttamente; la seconda quartina, inoltre, descrive le sue bellezze come «forme altere, celesti et immortali» (v. 6), che il poeta non può giungere a comprendere.
In entrambe le rappresentazioni, Petrarca ricorre al repertorio figurativo della luce intensa, che non può essere sostenuta dallo sguardo. La luminosità riconduce all’ineffabilità della bellezza della donna angelo: è un topos che si rilevava anche in altri poeti, come Dante. Nel terzo canto dell’Inferno, infatti, Virgilio descrive Beatrice come una creatura bellissima e luminosa, il che è magistralmente raffigurato nella rispettiva incisione di Gustave Doré, in cui è possibile notare il poeta latino abbassare lo sguardo dinanzi alla donna, che gli appare avvolta in un’aureola di luce.
Anche tralasciando tale simbologia, il tema dell’ineffabilità della bellezza della donna è stato molte volte trattato: Petrarca stesso dichiara di cercare in altre donne il volto di Laura, così come il «vecchierel» compie a fatica un pellegrinaggio verso Roma per vedere la Veronica in «Movesi il vecchierel canuto e bianco». È una bellezza che trascende il tempo, come si nota in «Erano i capei a l’aura sparsi», nel quale, pur invecchiata, la memoria della bellezza di Laura continua a ossessionare il poeta.
Altri esempi del tema dell’ineffabilità sono presenti in gran quantità nella tradizione stilnovista, come in Guido Cavalcanti, che esprime chiaramente l’impossibilità a descrivere e a comprendere l’essenza della donna angelo che procede con Amore per le vie del paese in «Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira». A questo sonetto si può accostare il celebre componimento dantesco «Tanto gentile e tanto onesta pare», in cui come la sola vista di Beatrice basta ad ammutolire e a riportare all’umiltà chi la incontri.
Tra la concezione stilnovista e quella petrarchesca corre tuttavia una differenza abissale: mentre i poeti dello Stilnovo rimanevano come estasiati da tali virtù, Petrarca, invece, ne soffre, lacerato tra una visione medioevale e sensibilità umanista: cosa che rende unica la sua esperienza poetica rinnovandola rispetto ai suoi predecessori.