Petrarca, Canzoniere XXXII
S’Amore, o Morte non dà qualche stroppio
A la tela novella ch’ora ordisco;
E s’io mi svolvo dal tenace visco,
4 Mentre che l’un coll’altro vero accoppio;
I’ farò forse un mio lavor sì doppio
Tra lo stil de’ moderni e ’l sermon prisco;
Che (paventosamente a dirlo ardisco)
8 Infin' a Roma n’udirai lo scoppio.
Ma però che mi manca a fornir l’opra
Alquanto delle fila benedette
11 Ch’avanzaro a quel mio diletto Padre;
Perché tien’ verso me le man sì strette,
Contra tua usanza? I’ prego che tu l’opra:
14 E vedrai riuscir cose leggiadre.
Analisi
Il sonetto presenta la consueta rima incrociata nelle due quartine ABBA. Le terzine hanno struttura invertita CDE DCE.
A verso 3, un'allusione alla passione del poeta per Laura; Petrarca sembra vivere sull'orlo di un baratro creativo: l'amore non muove la creatività, anzi la paralizza.
Il componimento fa parte del Canzoniere in vita di Laura, e se immaginiamo l'opera come una sorta di diario perpetuo, ci è dato immaginarci un poeta tutto sommato sereno. Si dedica al lavoro con rigore, impegnato a cantare le lodi dell'amata e a conquistare per sé la gloria poetica. La Fede rimane sullo sfondo: non è amore di Dio, ma mero apparato filosofico da far combaciare con un'altra verità. Il poeta ostenta fiducia, tradisce un disperato bisogno di creare: emblematica l'espressione vedrai riuscir cose leggiadre: promessa che non avrebbe sconfessato nei fatti. Petrarca riuscì, infatti, a dare forma alla tela novella, a cui allude nella metafora a v.3; la trasla a v. 10, continuando a muoversi in questo tracciato retorico. Come una tessitrice, esempio di costanza e duro lavoro, Petrarca si immagina comporre. Certo, l'esempio è un po' austero: non si rifà all'arte che il poeta sapeva di praticare, ma è coerente con il tono della lettera: un giovane che si rivolge al suo mecenate, mette le mani avanti nella prima quartina - et s'io mi svolgo dal tenace visco - espone le sue ambizioni nella seconda, avanza la sua richiesta ai vv. 9-10, sempre mantenendo tonalità coinvolta e confidenziale. Chiude giocando sul dittico implorazione/lusinga, rispettivamente con i' prego che tu l'opra e contra tua usanza.
Con questo non voglio rappresentare un Petrarca imbonitore: lo vedrei piuttosto come un fine tecnico del volgare, che lo plasma per conseguire il suo scopo: creare, tessere l'arte.
Ne abbiamo un valido esempio a v. 7, con il sintagma paventosamente ardisco; l'espressione, dalla connotazione ossimorica, funziona. Giacomo Colonna avrà letto il verso immaginando una grande impresa portata a termine da un uomo umile, in cui non c'è traccia di hybris.
Ed è proprio sulla grande impresa che fa perno un altro importante sotteso retorico del sonetto. Petrarca vuole che Colonna si senta parte dell'esecuzione, convincendolo inconsciamente che si tratti di un coinvolgimento a buon mercato. Deve "soltanto" inviargli dei libri, sforzo risibile se paragonato a quello di un poeta che, come ribadito, deve creare un modello di verità, resistendo nel frattempo all'amore. Fa quindi leva sull'ego del cardinale, sul suo desiderio di essere ricordato come benefattore di un uomo straordinario, e gli prospetta quella gloria come facile, a portata di mano.
La cosa più bella di questa storia è - banalmente - il suo epilogo: il poeta mantiene la sua promessa, di lui si parlerà infin’ a Roma. Francesco si dimostra un giovane fedele a sé stesso, che sfrutta il suo talento per cavarne qualcosa di straordinario. Leale verso un mecenate di cui, senza Petrarca, oggi si serberebbe ben poca memoria.
Interpretazione
È inevitabile - in un orizzonte di santi, verità cristiana, vescovi - ricadere nella metaforica religiosa. La declinazione petrarchesca della trinità è la triade amore, gloria e poesia. Questo sonetto la sintetizza perfettamente.
Al centro la poesia, mezzo di Petrarca per conseguire la gloria. C'è poi l'amore, che pur non molto presente in questi versi, tiranneggia buona parte dei sonetti, canzoni, sestine e ballate del Canzoniere. La gloria, quella del poeta che unirà due verità, ma anche quella del potente erudito che gli verrà in soccorso. Il tutto racchiuso dal nome dell'amata Laura, qui una debole luce all'orizzonte, là destinataria di struggenti poesie. Laura è l'aura, il vento, il sospiro tormentoso dell'amante. È il lauro, pianta sacra ad apollo, protettore dei rapsodi. Ed è la laurea, corone d'alloro tributata a condottieri e poeti.
In questo sonetto si avverte il respiro della classicità, che collide tuttavia con la dottrina cristiana. Nel Trecento decadono le interpretazioni allegoriche della grande grande tradizione letteraria latina, si apre ad una lettura dei classici schietta, a cui aveva spianato la strada il rinnovato approccio filologico. Petrarca si nutre di testi romani a Montpellier, scopre l'otium letterario, protagonista dei suoi frequenti e meditabondi ritiri a Valchiusa. Elabora a partire da queste opere una conazione di virtuosismo basata sul motto delfico e sul controllo delle proprie pulsioni. Come ignorare, inoltre, che il latino era la lingua tramite cui il Nostro pensava di conseguire la gloria? Petrarca vi scriveva e vi pensava. Trae perfino il nome dell'amata, ombelico dell'apparato metaforico del Canzoniere, da un episodio mitico di ovidiana memoria: si dice che Dafne, inseguita da Apollo, per avere salva la castità, si sia fatta trasformare dal padre in una pianta di lauro. Da qui la traslazione etimologica lauro/Laura, che attraverso il racconto viene identificata con Dafne fuggente.
Se si tiene conto di come la ninfa si sottragga autonomamente al Dio con un atto di dinamismo, ecco, è comprensibile come da un lato Petrarca confermi la concezione stilnovistica di amore come desiderio inappagato, ma nel contempo ne stravolga i canoni turbando l'atavica immobilità della donna angelo. Ed è forse questa, parafrasando Marco Santagata, la più grande eredità di Petrarca alla poesia erotica in volgare.
Eredità frutto delle lettere classiche.
Altro grande riferimento per il Nostro, che sarà nel corso di tutta la vita legato alla Chiesa è la già citata Cristianità. Nel sonetto è presentata come apparato ideologico da emendare, ma anche incarnata nel personaggio del benefattore, cui è rivolta la poesia. Petrarca percepisce la frattura tra una romanità dall'esasperato antropocentrismo e un cristianesimo per cui umanità non basta se non guarda al cielo. E vuole posizionarsi in questo dissidio, vuole sì suggellare la loro lontananza, ma anche illuminarne la profonda vicinanza. E nel guardare a questo sonetto, un po' invocazione, un po' retroscena sulla creazione, assistiamo a come questa ricerca sia pressante per l'autore, che come lui stesso ci dice, lo assillerà fino all'ultimo.
La donna amata, ciò da cui ho iniziato e ciò con cui voglio concludere, sembra un vago puntino nel firmamento, un mero rischio per l'energia creativa del poeta. Ecco, questo è emblematico di come per Petrarca solo qualora sia investita dal suo desiderio o eserciti un influsso sulla sua vita. La poesia d'amore diventa così uno spazio dell'io, una zona franca franca che si rigenera ciclicamente. Cosa accade, allora, quando non si ha più nulla su cui accentrare il proprio amore, fascio di pulsioni e tensioni ? Cosa accade quando Laura muore?
L'io si affloscia, vittima dell'accidia di cui si favoleggia nel secondo libro del Secretum.