Il Dialogo di Malambruno e Farfarello

di Francesco Bovo

Nel Dialogo di Malambruno e Farfarello, Leopardi mette in scena una conversazione tra un mago, Malambruno, e un demone da lui evocato, Farfarello (il cui nome si rifà, come quelli degli altri spiriti infernali invocati dal negromante nell’incipit del dialogo, a importanti opere della tradizione letteraria italiana, da Dante alla tradizione eroicomica).

Il dialogo, sottilmente ironico nei toni, ma serio nel contenuto delle verità che l’autore affida alle voci dei suoi protagonisti, nasce da una richiesta rivolta dal mago a Farfarello: con stupore del demone, Malambruno esprime una richiesta che esula da quanto gli uomini chiedono ai sottoposti di Lucifero – ricchezze smisurate, poteri e imperi sconfinati. Malambruno, tuttavia, esprime un desiderio che Farfarello non ha facoltà di esaudire: il mago vorrebbe che gli fosse concessa una almeno momentanea felicità. È da qui che inizia un vivace dialogo, nel quale Farfarello espone la tesi leopardiana secondo cui uno stato di felicità e appagamento risulta, per il genere umano, inattingibile: nemmeno il re dell’inferno potrebbe infatti rendere un uomo davvero felice anche per un solo istante. Certo, gli sarebbe possibile liberare l’individuo dall’infelicità, almeno sul piano teorico: tuttavia, se anche l’uomo ne fosse libero, sarebbe portato dalla propria stessa natura a desiderare al sommo grado la felicità, per quanto irraggiungibile. Nemmeno i diletti possono concedere una tregua dalla logorante condizione di infelicità. In sostanza, come afferma Farfarello, «la privazione della felicità, quantunque senza dolore e sciagura alcuna, […] importa infelicità espressa». L’unica possibilità di sfuggire all’infelicità quale ineluttabile condizione esistenziale dell’uomo, suggerisce implicitamente Farfarello, è la morte: da ciò, il suo interlocutore desume che “il non vivere è sempre meglio del vivere”, l’eco del pensiero di Sofocle. Secondo Leopardi, infatti, la morte non è motivo di sofferenza e dolore, bensì pietosa liberatrice dall’insopprimibile insoddisfazione e vacuità esistenziale, in quanto determina la cessazione del dolore connaturato allo statuto ontologico umano; per questo va accolta senza timori, in accordo anche con la posizione filosofica dell’autore, fortemente influenzata dal materialismo settecentesco e convintamente ostile a ogni prospettiva spiritualistica, religiosa, oltremondana ed escatologica.

Leopardi, tuttavia, non vede nell’uomo una mera vittima della propria stessa natura, insormontabile ostacolo al conseguimento della felicità: con arguta ironia, sa indagare la condizione umana, mettendo in risalto i difetti comuni attraverso la vena satirica che percorre le battute dei protagonisti e che anima tutta la raccolta delle Operette morali. È alle parole di Farfarello che Leopardi affida la prima battuta satirica sui difetti dell’umanità: «Fa’ conto che vi sia de’ diavoli da bene come v’è degli uomini”; in questo modo il demonio sembra raffigurarsi l’umanità come una massa di corrotti tanto quanto le schiere infernali, ormai estranea al bene e alla moralità. L’autore, poi, mette in luce l’innata e insopprimibile tendenza umana a ricercare, come sommo bene, la felicità, in conseguenza di un altrettanto irresistibile impulso a nutrire un amore supremo di sé. Lo stesso Malambruno ne è consapevole: alla richiesta del diavolo di rinunciare a tale tendenza in cambio della liberazione dall’infelicità, egli infatti replica che gli sarà possibile farlo solo da morto; dopotutto, come ricorda Farfarello, «la vostra [umana] natura vi comporterebbe prima qualunque altra cosa, che questa [la rinuncia all’amore di sé]». Il tratto umoristico della prosa delle Operette morali non si esaurisce in queste due acute osservazioni, ma riemerge frequentemente con espressioni ironiche: il tono stesso dell’invocazione iniziale dei demoni risulta quasi comico, non soltanto per l’onomastica degli spiriti, tratta da opere che già intendevano rappresentarli in chiave sottilmente umoristica, ma anche per l’utilizzo di espressioni colloquiali e di immagini lontane dal repertorio classicista (per esempio, «sgangherare la luna, e inchiodare il sole a mezzo il cielo»). Tutto il tono del dialogo si dimostra in qualche modo ironico e umoristico, con espressioni ossimoriche, come quella del «demonio da bene» che Malambruno auspica che Farfarello sia; con l’immagine - anch’essa comica - del demonio appiccato alle travi per la coda da un insoddisfatto Malambruno; con l’uso sapiente dell’iperbole («Belzebù con tutta la Giudecca e tutte le Bolge») e della reticenza eufemistica (si veda l’espressione con cui Farfarello allude, senza menzionarla direttamente, alla morte).

Insomma, nel testo emerge il tono spiritoso e quasi giocoso con cui Leopardi, secondo un procedere argomentativo tipico di alcune delle Operette, offre al lettore una riflessione che risulta tuttavia profondamente drammatica nel suo contenuto filosofico, espressione del suo pessimismo, ormai giunto alla fase del cosiddetto “pessimismo cosmico”. L’autore, più in generale, si dimostra abile nel mutare continuamente registri e modalità espressive: benché il suo stile sia generalmente elevato, ricco talora di vocaboli colti e aulici, Leopardi dimostra una sorprendente capacità nel passare dai toni vibranti e appassionati a quelli sagacemente umoristici, dalla vivacità espositiva del dialogo all’impassibilità dell’aforisma. Tale mescolanza di registri e stili, che si riscontra anche nello Zibaldone, risulta evidente anche in questo passaggio, dove alle già citate espressioni umoristiche Leopardi ne combina altre, che rivestono di una patina arcaicizzante il suo procedere argomentativo: oltre ai riferimenti colti – le menzioni degli Atridi e dell’El Dorado¸ per esempio, così come l’allusione al sovrano dell’impero su cui non tramontava mai il sole, Carlo V d’Asburgo, Leopardi usa per esempio l’elisione («a’ tuoi comandi», «de’ diavoli»), che richiama un uso poetico più arcaica, soprattutto di area toscana (per esempio, il termine «recolo» o le forme «insino» e «ispazio»). L’amalgama di elementi contrastanti contribuisce all’originalità dell’opera e riesce piacevole al lettore, che può così conoscere le verità a cui Leopardi è approdato a seguito di una intensa e sofferta meditazione: verità dolorose che rivelano l’infelicità inevitabile della condizione umana attraverso una forma scorrevole, diretta e, al tempo stesso, evocativa e capace di rimanere impressa nella memoria.

Ma Leopardi vivacizza il dialogo anche grazie al ritmo serrato delle battute dei protagonisti, spesso nella forma di botta e risposta che completano l’uno il ragionamento dell’altro, così che il lettore segue lo sviluppo del confronto, rimanendone coinvolto e acquisendo a ogni battuta una consapevolezza più alta. Inoltre, in tal modo gli è possibile comprendere le varie fasi di riflessione che hanno condotto l’autore al suo profondo pessimismo, interiorizzandole fino a farle anche proprie. Si tratta, in sostanza, del medesimo espediente narrativo e formale sfruttato dall’autore nella composizione di un’altra delle Operette morali, il Dialogo tra un venditore di almanacchi e un passeggere.

Nel testo, anch’esso impostato in forma dialogica, con un ritmo ancor più vivace e batture ancora più brevi, Leopardi espone la medesima tesi, questa volta affidandola alle parole di un venditore ambulante di calendari, che nell’incontro con un passante, interessato all’acquisto, dà avvio a una conversazione che giunge a tematiche di grande profondità: la noia, la vacuità dell’esistenza, già introdotte nella produzione giovanile tramite la figura di Petrarca nella canzone Ad Angelo Mai del 1820; una concezione profondamente pessimistica della vita, in cui vi è poco spazio per il diletto, il piacere, e anche per la felicità, che l’uomo non può raggiungere (a causa dell’indifferenza, o aperta ostilità, della “Natura matrigna”, incurante della sorte delle sue creature, secondo quanto Leopardi spiega più nel noto Dialogo della Natura e di un islandese); la convinzione che non vi possano essere magnifiche sorti e progressive come quelle decantate dai progressisti dell’epoca e in accordo il messaggio della Ginestra, in cui il poeta esorta l’uomo alla solidarietà e alla dignità dinanzi all’ostilità della Natura, per vivere il presente nella propria virtù, pur nella consapevolezza che ogni lotta si rivelerà infine vana. Attraverso questa Operetta, dunque, perfettamente inserita in un complesso sistema intertestuale (che è, del resto, la frammentaria e asistematica esposizione del pensiero del Leopardi filosofo), l’autore pone in evidenza la questione su cui aveva già riflettuto nel Dialogo di Malambruno e Farfarello; inoltre, tra i due testi si crea anche un’analogia formale, legata ad un’impostazione dell’argomentazione fondata su toni lievi, ironici e volutamente in contrasto con il messaggio di verità filosofica che vi è esposto.

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1. Si tratta della più breve delle ventiquattro Operette morali dell’edizione postuma delle Opere complete, pubblicata da Le Monnier nel 1845 e curata dall’amico Ranieri.

2. Non è terminologia dell’autore, ma una fortunata definizione introdotta dallo studioso Bonaventura Zumbini.