di Enrico Piccinelli
Scrivo queste note per ricordare i fatti avvenuti durante il viaggio che ho compiuto per conto del vicario imperiale in Milano alla corte del re Roberto D’Angiò a Napoli, Azzone Visconti.
Si sarebbe dovuto trattare solo di un’ambasceria per stringere accordi economici tra i due Paesi, tuttavia, sono costretto a riconoscere quanto i mesi di permanenza a Napoli mi abbiano segnato profondamente, in particolare per merito di un fortunato incontro.
Mi trovavo nella mia casa di Cremona quando, in una nebbiosa giornata d’aprile dell’anno del Signore 1330, ricevetti una lettera del tutto inattesa. Non l’accolsi con gaudio: il vicario mi chiedeva di imbarcarmi per una spedizione commerciale. Fino a quel momento non avevo mai compiuto alcun viaggio per mare, e il tragitto più lungo che avessi percorso via terra era quello, non lungo, che separa Milano da Cremona. Tuttavia, mi rimisi alla volontà di Dio e al mio senso del dovere e l’indomani mattina partii a cavallo alla volta di Genova.
La strada si era dimostrata talmente tortuosa, soprattutto nei valichi montani, da farmi rimpiangere la mia città ancor prima di giungere al porto. In seguito, durante la traversata via mare, mi sarei ricreduto: il battello, spazioso, era stato fabbricato recentemente. I venti furono sempre favorevoli e il sole si stagliava alto nel cielo. Ecco un altro aspetto che mi ha stupito del mio soggiorno a Napoli, ossia quanto il clima fosse sereno e soleggiato, al contrario di ciò a cui ero abituato.
Sbarcato in città, mi diressi presto verso il palazzo reale, dove fui accolto dalla servitù, che mi condusse alla stanza predisposta per me. Il giorno successivo ebbi la prima udienza col re: fin da subito mi resi conto che le trattative sarebbero state lunghe e questo avrebbe aumentato la durata della mia permanenza. In effetti, la trentina di giorni inizialmente previsti si tramutarono in tre mesi interminabili, anche se l’iniziale nostalgia fu presto lenita da esperienze indimenticabili.
Fu la sera della seconda giornata del mio soggiorno che feci quell’incontro tanto significativo: per la cena scelsi di unirmi a un gruppo di mercanti provenienti da ogni angolo della penisola e ospitati tutti a corte. In maniera casuale mi sedetti a fianco di un mercante fiorentino, tale Boccaccino di Chiellino, a Napoli già da due anni per condurre i propri affari, accompagnato dal figlio naturale. La discussione cadde numerose volte su quest’ultimo, il quale mi venne presentato come un giovane e brillante letterato. Crebbe in me una certa curiosità di discorrere con lui, non avendo mai avuto la possibilità di parlare con un chierico: alla corte del signore di Milano sono, infatti, rarissimi. Ma quella sera non fu possibile, poiché non era presente al banchetto.
L’indomani, con mia somma sorpresa, fu lui a cercare me per primo, incuriosito dal fatto che venivo da lontano. Purtroppo dovetti rimandare la conversazione a causa del mio incontro col re, pertanto posticipammo l’appuntamento.
Giunto quel momento, il chierico si offrì di mostrarmi più approfonditamente la città, che conosceva alla perfezione.
Scoprii anche il motivo per cui desiderava parlarmi: non avendo mai incontrato alcuno che provenisse da Cremona, era interessato a conoscere la mia patria e, nello specifico, mi pregava di raccontargli quali storie popolari si narrassero in quelle zone. Fortunatamente avevo lavorato anche come mercante e ne conoscevo numerose, fatto che rendeva le nostre passeggiate cittadine via via più lunghe. Dal canto mio volli sapere qualcosa riguardo alla sua attività poetica.
- A cosa state lavorando ultimamente, ser Boccaccio?
Lusingato dal titolo di messere, mi iniziò a sciorinare i suoi non pochi suoi componimenti a memoria: in particolare ne apprezzai uno incentrato su una contesa amorosa con ambientazione mitologica. Inoltre, ebbi modo di conoscere la sua passione per la lingua greca, per il volgare fiorentino e per Dante Alighieri, verso il quale nutriva una straordinaria venerazione. Fu in quell’occasione che imparai il fiorentino e, dai suoi versi, mi resi conto di come avesse davvero una dignità letteraria quanto il latino. Mentre accresceva la nostra confidenza mi accorsi di quanto insufficienti fossero, invece, i miei studi e le mie letture, perciò presi in prestito la sua copia della Commedia. Tentò perfino di insegnarmi i rudimenti del greco, ma ottenne un risultato assai scarso.
Contemporaneamente, accennò ai suoi rapporti complicati con le donne, argomento su cui, trovando molti punti di contatto con la mia esperienza personale, si sviluppò un vero dibattito. “Quale sia la vera natura della donna è un profondo mistero”, soleva ripetere. Mi descrisse anche una dama di nome Fiammetta, ma devo ammettere che non riuscii a capire se si trattasse di una persona reale o piuttosto di una creatura immaginata.
Nel frattempo le trattative commerciali volgevano a termine e avevo fissato la data della mia ripartenza. In uno dei nostri ultimi incontri, Boccaccio mi parlò di un suo progetto, ossia di dedicare una grande opera al genere femminile.
- Dovrà ancora passare del tempo prima che trovi la giusta ispirazione.
- Promettete che mi terrete al corrente?
Nel salutarci, ci ripromettemmo di rimanere in contatto e ancora oggi manteniamo questa nostra relazione epistolare.
Lasciando Napoli provai una grande tristezza, consapevole di quanto il mio soggiorno lì mi avesse segnato. Ripartii con un progetto in mente, quello di cimentarmi nella composizione in volgare, per diletto personale, senza particolari aspirazioni di virtuosismo. Fu così che iniziai a poetare in privato e a riconoscere alle lettere un ruolo che mai avrei considerato prima di quel viaggio.