La possibilità di esprimere liberamente le proprie opinioni, punti di vista e giudizi sta alla base della democrazia ed è garantita in Italia dall’articolo 21 della Costituzione, che sancisce il diritto di “manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, scritto e ogni altro mezzo di diffusione”.

Il filosofo greco Democrito definisce la parrhesia come qualcosa che è proprio della libertà della persona: è proprio la sua etimologia che permette di tradurre questo termine in italiano con l’espressione “libertà di dire tutto”. Democrito tuttavia completa la definizione affermando che la difficoltà e il pericolo stanno nella valutazione del momento: la libertà di parola, che comprende anche la possibilità di giudicare, incontra dunque qualche limite? Bisogna dunque tener conto della vulnerabilità della persona che ne è coinvolta, oppure non è necessario curarsi della sensibilità e della capacità di sopportare critiche e giudizi?

Sicuramente la risposta varia in base all’interlocutore: se sto parlando con un bambino, il buonsenso mi consiglierà di non rivelargli chi sia davvero babbo natale, ma se invece mio figlio fa uno sbaglio, lo dovrò rimproverare, ovviamente senza dire qualsiasi cosa mi passi per la testa; e, ancora, nelle relazioni professionali la parrhesia è fondamentale, ma pur sempre se controllata dal contegno e dal rispetto.

E qualora fossi un comico, su un palco prestigioso, davanti a milioni di spettatori, in mondovisione, dovrei avere qualche limite? Se fossi Checco Zalone, durante il mio monologo sul palco dell’Ariston, in occasione del programma televisivo più importante d’Italia, potrei fare battute sulla necessità delle donne di farsi la ceretta, o sulle scarpe di taglia 48 dei trans, o ancora sulla gente “strana” che vuole “sia la fragola che la banana”?

Io non lo farei, ma questa è solo una mia opinione.

D’altra parte, chi sono io per poter giudicare un comico famoso, amato da molti, che fa ridere gli italiani a suon di luoghi comuni e stereotipi.

Dunque non lo giudicherò, terrò a freno il mio diritto di esprimere la mia opinione. Eccezionalmente autocensurerò la mia parrhesia purché sia garantita quella altrui.

Non dirò che ho ritenuto il suo intervento inopportuno e diseducativo, perché altrimenti mi si potrebbe controbattere che la satira è attacco, è utilizzare stereotipi, è mettere in ridicolo caratteristiche di una determinata comunità; e che l’attacco ha lo scopo, in realtà, di condannare proprio quei comportamenti e quegli atteggiamenti offensivi nei confronti di una categoria.

E nonostante io sia sicuro che l’intento di Checco Zalone non fosse l’insulto, nondimeno mi limiterò a rilevare che l’esecuzione non è stata delle migliori: dall’esordio - in cui afferma di essere uno come tanti, quando poi invece è pagato migliaia di euro per una serata - alla storiella della fata calabrese estetista, alla canzone sui trans brasiliani e i loro clienti nelle strade. Sono tutti temi che non lo riguardano in prima persona: Zalone non può sicuramente sapere cosa significhi per una persona transgender essere costantemente associata a stereotipi del genere, come non può comprendere cosa voglia dire sentirsi quasi obbligata a farsi la ceretta.

Non lo posso capire nemmeno io: ma so che se qualcuno avesse speso quindici minuti su un palco di tale importanza a ridicolizzare e banalizzare delle mie abitudini o comportamenti, sicuramente non ne sarei felice, e penso che non ne sarebbe contento neanche Luca Medici. Inutile nascondere che, anche con le migliori intenzioni, gli insulti gratuiti possano non far piacere.

A coloro che asseriscono che la satira è fatta così sin dai tempi antichi, non risponderò certo che questo genere letterario andrebbe cambiato o eliminato.

Anzi, rilancerò. Davvero, sono d’accordo: è un ottimo strumento per sensibilizzare. Ma solo se a metterla in scena è qualcuno che conosce sul serio e in prima persona le tematiche su cui la satira verte.

Personalmente, dall’intervento di Zalone non ho ricavato né un insegnamento né una risata. E magari il comico ha capito che se non si è fatto apprezzare dalla comunità oggetto della satira, allora forse qualcosa non ha funzionato.

Ma tutto questo non lo dirò: non perché non possa dirlo, ma perché, a volte, è meglio tacere.