Parlare di pace: da Atene a noi

La situazione in Medio Oriente ci ha colti durante la lettura in classe degli Acarnesi di Aristofane. Per noi è stato naturale rintracciare in questo testo così antico diversi punti che ancora oggi potrebbero indicare una strada per la mediazione e per affermare il valore della pace.

La commedia “Acarnesi” è stata scritta da Aristofane nel 425 a.C. ed è ambientata ad Atene, durante la guerra del Peloponneso. Gli acarnesi, il coro, sono gli abitanti di Acarne stanchi e danneggiati dalla guerra tra Sparta e Atene. 

Diceopoli, invece, è il protagonista e l’eroe comico della commedia. Lui è l’esempio del “buon cittadino”; infatti, si tratta di un contadino che, esasperato di vedere continuamente distrutti i suoi campi e le sue vigne, vuole convincere i suoi concittadini a firmare una tregua con Sparta.

In particolare proprio in questo brano, Diceopoli decide di travestirsi da “pezzente”, indossando dei vestiti sgualciti, per promuovere la sua richiesta in assemblea.

Questo suo gesto può essere interpretato sia come una critica alla superficialità della società sia come dimostrazione che, per essere veramente ascoltato, bisogna provare agli altri di aver subito le conseguenze del conflitto ed esporsi.

I versi che riportiamo sotto sono il discorso di Diceopoli: diversi link, evidenziati in verde, aprono ad approfondimenti sui singoli aspetti di un "metodo di mediazione" che abbiamo rintracciato anche in eventi più vicini a noi e che testimoniano un percorso sempre valido.

EURIPIDE: Costui vuole offendermi. [Al Servo] Chiudi la porta della magione. [L'enciclema si mette in movimento, e ricompare la facciata della casa di Euripide]


DICEOPOLI: O cuore, bisogna mettersi in marcia senza prezzemolo. Sai quale agone sosterrai ben presto, accingendoti a parlare in favore dei Lacedemoni? Avanza, cuore. Ecco: là è il traguardo. Esiti? Non hai forse inghiottito... Euripide? Bene! Avanti, cuore infelice, va' lì [indica il tagliere], mettici su la testa, e di' tutto quello che ti pare. Su, coraggio, avanza: ti ammiro, mio cuore.


CORO: Che farai? Che dirai? Sappilo: sei un impudente, un duro, tu che porgi il collo alla Città e ti appresti a parlare da solo contro tutti. Costui non teme questa impresa. Ebbene, parla: sei tu che lo hai voluto.


DICEOPOLI: Non me ne vogliate, spettatori, se, pur essendo un mendico, mi appresto a parlare della Città fra voi Ateniesi, in una commedia: anche la commedia conosce il giusto; ed io dirò cose terribili, ma giuste. Ora Cleone non mi calunnierà dicendo che parlo male della Città alla presenza degli stranieri. Siamo tra di noi, l'agone è quello lenaico: non sono ancora presenti stranieri, e non sono arrivati né i tributi né gli alleati dalle loro città. Ma ora siamo noi soli, il fior fiore della farina: a mio parere, i meteci sono la crusca dei cittadini. È grande l'odio che nutro per i Lacedemoni; e Posidone, il dio del Tenaro, possa abbattere tutte le loro case con una scossa di terremoto: anche le mie vigne sono state distrutte. Ma, visto che si parla tra amici, perché incolpiamo di questo i Laconi? Nostri concittadini non sto parlando della Città; tenetelo a mente: non sto parlando della Città - anzi, gentaglia di cattiva lega, di nessun valore, falsa, bastarda, denunciava i mantellucci di Megara; e se vedevano un cetriolo o un leprotto o un porcellino o dell'aglio ovvero un grano di sale, era "merce di Megara", e in giornata era messa all'asta. Si trattava di fatti di poco conto, che non uscivano dai confini della città; ma dei giovanotti, ubriachi per aver giocato a cottabo, vanno a Megara e rapiscono Simeta, la puttana. Allora i Megaresi, per il dolore, vanno su tutte le furie e rapiscono, per rappresaglia, due puttane di Aspasia. Ecco perché scoppio la guerra tra tutti i Greci: per colpa di tre baldracche. Ed ecco perché Pericle, l'Olimpio, in preda all'ira, scagliava fulmini, tuonava, metteva a soqquadro l'Ellade, promulgava leggi scritte a mo' di canti conviviali: "Al bando i Megaresi dalla terra e dal mercato, dal mare e dal continente». Ed ecco perché i Megaresi, sempre più in preda ai morsi della fame, pregavano i Lacedemoni che fosse abolito il decreto emanato a causa delle tre baldracche. Ma noi ci rifiutammo, malgrado le loro insistenti preghiere. Ed ecco perché era ormai uno strepitio di scudi. Si dirà: "Non bisognava"; ma cosa bisognava fare? Ditelo voi. Supponiamo che un Lacedemone, partito su un vascello, avesse denunciato un cagnolino di Serifo, e poi l'avesse venduto: ve ne sareste rimasti tranquilli nelle vostre case? Neanche per sogno! Certamente avreste subito messo in mare trecento navi, e la città sarebbe stata dappertutto una bolgia: soldati che urlano; grida per il trierarca; paga del soldo; palladii indorati; chiasso sotto il portico; viveri razionati; otri; stroppi; gente che compra giare; agli, olive, cipolle nelle reti; corone; acciughe; flautiste; occhi pesti. E, d'altra parte, al- l'arsenale si piallano remi; si battono pioli; si forano portelli di remi; e flauti, e grida dei capivoga, e sibili, e fischi. Questo avreste fatto: lo so. E pretendiamo che Telefo non si comporti allo stesso modo? Evidentemente non c'è senno in noi!"


CAPO DEL I SEMICORO: Ma davvero, furfante scellerato? Questo osi dirci tu, un mendico? E se qualcuno è stato sicofante, tu lo offendi?


CAPO DEL II SEMICORO: Per Posidone, sono giuste le cose che dice: in niente si sbaglia.

                                                                                                                                                                                                                        

                                                                                                                                                                                        Aristofane, "Gli Acarnesi", vv. 512-561