AMBIENTE STORICO
Il monte S. Pancrazio è la montagna di Calvi. Non è solo una relazione di vicinanza, ma si tratta di un vero e proprio diritto di proprietà ideale sancito storicamente, dopo aspre contese con gli abitati vicini, da un documento arbitrale del 1456, risultato di un lodo ordinato da papa Callisto III.
L’evento storico viene rievocato ogni anno il 12 maggio, festa del santo patrono Pancrazio: Delegazioni comunali di Calvi e di Poggio di Otricoli si incontrano sulla cima del monte ai due lati di una linea di confine e rinnovano il patto di concordia entro i confini stabiliti.
Sulla sommità del Monte una piccola cappella in muratura, antica ma più volte ricostruita, dedicata a san Pancrazio alla quale tutti i calvesi sono particolarmente affezionati perché anch’essa ricorda la loro supremazia sugli abitanti del vicino Poggio nel dominio del Monte. Oltre alla cerimonia sopra ricordata del Riconoscimento dei confini, anche la cappella ha un ruolo importante nella tradizione calvese. Quando il signorino, giovanissimo figurante che impersona san Pancrazio durante la celebrazione, sale al Monte a cavallo, compie al galoppo tre giri attorno alla cappella, ”legandola” così, assieme all’intera montagna, al paese e alla comunità di Calvi
Non sappiamo quando il sito è stato consacrato a san Pancrazio, ma, come avviene spesso in luoghi di particolare valore paesaggistico, abbiamo prova che il sito ha assunto un particolare valore sacrale fin dall’antichità preromana, quando questi luoghi erano abitati dagli antichi Umbri, “Le più antiche popolazioni d’Italia”, come le definisce Plinio.
La cappella è stata fondata sulle rovine di un tempio italico del VI secolo a.C., parzialmente trasformato nel III/II secolo a.C. In particolare il muro di fondo mostra alla sua base un filare di grossi blocchi di calcare squadrati, appartenenti all’antica costruzione. Altri grossi blocchi sono allineati a questi nel prato accanto alla cappella: è tutto quello che rimane del tempio o portico preromano, che doveva avere dimensioni ragguardevoli.
Il luogo era un santuario d’altura riferibile a un tipo diffuso nel territorio umbro del quale si trovano esempi a Spoleto, sul monte Pale, a Cancelli di Foligno e sul monte Torre Maggiore. Sulla sommità di quest’ultimo, il cui massiccio si può scorgere da qui in direzione nord, tra l’abitato di Sangemini e la piana di Terni, è l’area archeologica meglio conservata del gruppo che mostra un recinto fortificato, la platea di un tempio e pozzi nei quali erano gettati ex voto. Questi in forma di lamine bronzee rappresentavano figure umane, del tipo cosiddetto Marte in assalto o animali. Alcune di queste lamine sono state rinvenute anche nel santuario del monte San Pancrazio oggi conservate nel Museo Archeologico di Perugia.
Gli autori latini consideravano la popolazione degli Umbri la più antica d’Italia e asserivano che il loro nome li indicava come popolo sopravvissuto al diluvio. La loro area si estendeva oltre la dorsale appenninica verso l’Adriatico fino all’attuale Romagna. Dal IX al IV secolo a.C. si tratta di una civiltà pre-urbana che si sosteneva su di un’economia agricola ma soprattutto sulla pastorizia. I templi – santuari in luoghi elevati spesso fortificati, posti presso le vie di transumanza delle greggi, costituivano poli di aggregazione dei villaggi circostanti. Un’ipotesi avanza una possibile relazione tra il santuario d’altura del monte San Pancrazio con l’abitato di pianura di Ocriculum, similmente a quanto accade per la relazione tra monte Torre Maggiore e Interamnia Nahars, l’odierna Terni.
Le una grande quantità d’informazioni sulla struttura delle città-stato italiche sono contenute nelle Tavole Iguvine conservate a Gubbio, lastre di bronzo con iscrizioni bilingui, latino e osco-umbro, idioma questo imparentato con l’etrusco, databili tra il IV e il I secolo a.C. Vi si menzionano elementi di assetto territoriale, vi si descrivono collegi, divinità e prescrizioni rituali relative alla divinazione attraverso l’interpretazione del volo degli uccelli. La conoscenza di questa pratica testimonia quanto dalla religione degli Umbri passò in quella dei Romani. La contesa tra Romolo e Remo sul luogo dove dovesse sorgere Roma fu risolta interpretando il volo di uccelli.
Dall’inizio del III secolo a.C. gli Umbri entrarono nella sfera d’influenza romana, sia attraverso battaglie isolate, come quella che conquistò Nequinum, da allora ribattezzata Narnia, sia per mezzo di patti pacifici, come avvenne per Ocriculum nel 308 a.C. Da allora gli Umbri conobbero una lenta romanizzazione e furono assorbiti nel sistema delle colonie latine.
Distogliendo lo sguardo dal caotico ammasso di tralicci e antenne, dirigiamo lo sguardo verso il paesaggio lontano.
Il versante est, dal quale siamo saliti, spazia sopra la valle del Tevere fino ai Cimini e ai monti della Tolfa, verso nord sui monti Martani che dominano la piana di Terni, a est e a sud-est in lontananza stanno i monti della Laga e il Terminillo e a sud, oltre il vicino monte Cosce, il panorama si apre dai monti Cornicolani fino all’isolato inconfondibile massiccio del Soratte.
AMBIENTE NATURALE
Una volta, molto tempo fa, Calvi si affacciava sul mare. Da qui si vedevano le isole del Soratte e dei monti Cornicolani, su cui si scorgono oggi gli abitati di Guidonia e Sant Angelo Romano.
La grande rupe calcarea su cui oggi è insediata si protendeva sulla costa mediterranea in un paesaggio aspro e frastagliato. Questo accadeva cinque milioni di anni fa. L’entroterra era disseminato da lagune che con andamento parallelo a quello dell’intera penisola si alternavano a corrugamenti e rilievi. Era accaduto che dal grande mare che copriva tutta l’area che sarebbe divenuta l’Italia, in seguito alla compressione proveniente da sudovest, il fondo marino si era sollevato ed era emerso, formando quella fisarmonica di rughe parallele che chiamiamo Appennini. Il fondale, formato da detriti di scheletri di molluschi corallini compressi dalle masse sovrastanti, era divenuto calcare compatto, la dura pietra bianca che vediamo ovunque. Alla compressione era poi seguita una fase di distensione che aveva abbassato il livello delle aree interne dando luogo ad altopiani e a depressioni, laghi e lagune abitate a loro volta da organismi, ora più evoluti. Non è difficile incontrare, per esempio ai piedi del monte Cosce, una specie di argilla rossastra stratificata, che si apre a scaglie simili a pagine di un libro. Quest’argilla costituiva il fondale sedimentato di quelle lagune, e tra le pagine di questo “libro” non è raro trovare ammoniti fossili, le lumache che abitavano i fondali.
Poi per millenni la vicenda diviene monotona. Le piogge dilavano montagne, scavano valli e grotte, colmano di detriti le depressioni, tracciano il letto di torrenti e fiumi, addolciscono il paesaggio e lo rendono accogliente per il primate eretto che vi arriva chissà da dove. Ora è tutto un dilavare, arrotondare, appiattire, disgregare e colmare i vuoti, azioni in cui protagonista è l’acqua, onnipresente, incessante in rivoli e fiumi, placida e torrenziale per intere stagioni ed ere.
Così come la viviamo oggi, con un fondo aspro ma addolcito da elementi naturali amici, aria e acqua, l’area mostra una varietà di scenari naturali in cui i due aspetti primordiali si mescolano in differenti proporzioni. Gole, orridi e grotte testimoniano di violenze naturali lontane, ma ovunque il paesaggio si placa in verdi altopiani e in sequenze di colli, addolciti dalla vegetazione spontanea e dal lavoro umano.
Il territorio di Calvi mescola questi due aspetti lungo una linea geologica ben visibile che passa poco più bassa dell’abitato. Qui a un terreno di argille sedimentate negli antichi alvei del Tevere si sostituisce più in alto la roccia calcarea compatta. I due sistemi si compenetrano parzialmente e danno origine alla grande varietà di vegetazione spontanea. In basso le uniche zone incolte sono gli alvei dei torrenti, ricchi di un intrico di macchia umida formata da una notevole varietà di specie erbacee, oltre che arbusti quali rovo, prugnolo, rosa canina, caprifoglio, pungitopo, sui quali svettano isolati cerri e querce di alto fusto. I campi sono coltivati a cereali e a foraggio mentre le ondulazioni collinari mostrano ordinati oliveti e vigne che producono un olio dalle caratteristiche da sempre rinomate e vini la cui produzione ha visto negli ultimi anni un importante incremento di qualità, con introduzione di nuovi vitigni che si affiancano a quelli tradizionali e raffinate e moderne lavorazioni. Le piccole produzioni di pregiati vini locali cominciano a essere conosciute e apprezzate fuori dal territorio.
Sopra l’abitato, nella zona di roccia calcarea, il paesaggio cambia radicalmente: i pendii si fanno più scoscesi, le rocce affioranti impediscono coltivazioni estese. Inizia la zona boscosa, che supera i 1000 metri di quota nel monte San Pancrazio, il monte di Calvi, e che copre i fianchi di una dorsale che dalla Rocca di Narni si allunga verso sud nel Lazio con il monte Cosce. Qui, in un’area di circa 6000 ettari puoi camminare per ore senza uscire dal bosco fitto e senza incontrare segni umani che non siano capanni di cacciatori. Ciò malgrado, qui l’uomo per secoli ha conformato il bosco, traendone risorse. Non sono frequenti le zone di alto fusto. La vegetazione, formata quasi esclusivamente da boschi cedui dove prevale il leccio, è periodicamente sottoposta a taglio e se ne ricava legna da ardere. Fino agli anni ’60 del secolo scorso questa era la principale risorsa del paese e occupava un buon numero di taglialegna, carbonai, mulattieri e calcinai.
I boschi di Calvi presentano una strana caratteristica. I botanici ci spiegano che qui si manifesta la sopravvivenza da tempi remotissimi di un’isola di macchia mediterranea simile a quella costiera ma oramai isolata da questa, che è favorita dal clima dei pendii esposti a sud. Testimone di questo curioso fenomeno è la presenza di specie botaniche tipiche della costa: il pino di Aleppo e, nel sottobosco, eriche, lentischi e terebinto. Nei campi più esposti si trova l’erba saracchio o tagliamani che è tipicamente presente sulle dune delle coste mediterranee meridionali, da quelle nordafricane a quelle delle isole italiane.
Salendo di quota la macchia mediterranea di pini d’Aleppo e corbezzoli si mescola con formazioni di macchia appenninica. Il leccio è sempre l’essenza largamente più diffusa, ma sono frequenti cerri, querce, roverelle, carpini, aceri e, nei prati aridi delle quote più elevate, grandi cespugli di ginepro.
In questa grande estensione naturale può vivere e prosperare una ricca varietà di esemplari di fauna selvatica. Non è raro avvistare l’istrice, la volpe, il tasso, il porcospino. Più rari sono stati segnalati lupi, puzzole e faine. Guardando in alto è possibile avvistare poiane e falchi, mentre nelle zone umide si può vedere strisciare tra l’erba il saettone. La caccia di appostamento, che è la vera passione della popolazione maschile, fa prede in un’abbondante popolazione di colombacci, tortore e torditi.
Il cinghiale, reintrodotto negli anni ‘60 con esemplari di provenienza centroeuropea ben più massicci di quelli autoctoni, allora quasi estinti, si è moltiplicato e cresce continuamente tanto da costituire una minaccia costante per le coltivazioni. Le battute di caccia al cinghiale, che impegnano gruppi anche di venti-trenta cacciatori, possono dare a volte una ventina di prede di grossa taglia.
Tutto il territorio comunale coperto a bosco, ossia a quota superiore alla strada pedemontana Calvi – Narni è comunque inserito dalla Regione nell’elenco delle aree di rilevante interesse naturalistico protetta dai vincoli paesaggistici della legge Galasso (l. 431/1985.) e potenzialmente costituisce una notevole risorsa turistico– ambientale a poca distanza da grandi centri urbani.
A cura di Paolo Milani