Classi seconde

Pietro Grossi

Voglio fare la boxe


Il protagonista combatte per ottenere quello che vuole, e la sua determinazione lo porta al successo.


Guardiamoci negli occhi, a me ‘sta faccenda della boxe piaceva parecchio.

Non so cos’era, se quel senso di sicurezza o la consapevolezza che facevo qualcosa come si deve. Forse tutt’e due, forse anche la formidabile sensazione che c’era un luogo dove avevo qualche numero, o dove comunque potevo battermi ad armi pari.

Là dentro c’era una logica. Là dentro nessuno poteva scappare, né te né gli altri, e sapevi contro chi combattevi, ed era sempre uno solo, e pesava quanto te, e se ti batteva voleva dire che era più bravo, o aveva più esperienza, e in entrambi i casi dalla sconfitta non avevi che da imparare. Sembra assurdo, ma finisce che vai in quel posto dove tutti menano le mani perché ti senti più al sicuro.

Poi c’era il fatto che mi veniva bene. Saranno stati tutti quei filmati su Mohammed Alì e Sugar Ray Robinson1 che mio babbo guardava quando ero piccolo, ma quando entrai per la prima volta in quel capannone, vidi quel ring raffazzonato2 che stava in piedi per miracolo e mi immaginai là sopra che zompettavo come Alì e mollavo jab3 come saette. Non so, forse se ti convinci di qualcosa alla fine la raggiungi. Fatto sta che impari a combattere così: zompettavo intorno all’avversario e lo martoriavo4 come una zanzara con quei diretti5 precisi e veloci e secchi come frustate. Siamo onesti: io non ce l’avevo il fisico da pugile, non promettevo niente di buono. Ero magro, il collo stretto e lungo, i polsi piccoli, le gambe secche e le ginocchia sporgenti. Parevo un bastone a cui avevano levato i ramoscelli di fretta. Eppure mi mettevo là, chiudevo le spalle, alzavo la guardia, mi mettevo a saltellare avanti e indietro ed era come se prendessi a volare.

Era mia mamma che mi aveva imposto di suonare il pianoforte.

Fu così che iniziai con la boxe. Ero il figlio perfetto: studioso, sfigato, senza grilli6 per la testa, ubbidiente, che andava a letto presto e se glielo chiedevi ti recitava pure due preghierine prima di dormire. Ma non voleva suonare il piano. Il piano mi faceva schifo. Mi faceva schifo Mozart e Bach e quel fenomeno sordo malefico di Beethoven. Forse solo

Rachmaninov buttavo giù,7 perché quando suonava sembrava sempre incazzato e perché tanto era troppo difficile poterlo suonare.

Glielo dissi un giorno alla mamma che il piano mi faceva schifo, lei disse che la musica era fondamentale, che dava disciplina. Disciplina? Ma come disciplina! Ero il figlio più disciplinato del mondo. Ero talmente disciplinato che stavo scomparendo dalla faccia della terra.

La mamma mi guardò perplessa e mi disse di non dire idiozie, e che la musica era impor- tante. Era una situazione piuttosto fastidiosa.

«Allora voglio fare anche la boxe.» «Come?»

«Se suono il piano voglio fare anche la boxe.» «La boxe?»

«Sì, la boxe.» «Non dire idiozie», tentò di tagliare corto la mamma.

«Voglio fare la boxe.» «Con me la parola voglio non funziona.»

Era la prima volta che mi impuntavo con mia mamma, e una parte di me si sentiva ecci- tata, come se al sesto round di un duro incontro mi fossi risvegliato e avessi piazzato un sinistro-destro. L’altra voleva piangere.

«Voglio fare la boxe» gancio destro al volto. «Non se ne parla nemmeno. Chiuso il discorso.» Suono della campanella,8 salvataggio sul limite. Ormai m’ero risvegliato, avevo alzato la testa. Una volta tanto il ragazzino graziosetto e disciplinato lottava per qualcosa. Fu un incontro difficile, di quelli estenuanti sulle quindici riprese. Smisi di studiare, feci scena muta per due interrogazioni di fila, smisi di parlare e di suonare. Per ben tre volte la mia insegnante di pianoforte dovette abbandonarmi dopo aver tentato per dieci minuti di farmi suonare o parlare. Tirai avanti una settimana senza parlare. Nessuno ormai sapeva che fare, erano pronti a mandarmi dallo strizzacervelli,9 quando d’un tratto mia mamma una sera entrò in camera e mi disse che ne aveva parlato con il babbo, e che se volevo potevo provare con la boxe. «Bene», dissi. «Domani vado a iscrivermi.»

Fu la mia prima vittoria: un KO tecnico alla quattordicesima ripresa, costruito con astuzia e pazienza. Forse avrei comunque vinto ai punti. Non so, mia mamma è sempre stata una bella rogna.10 Quando mi iscrissi, un paio di ragazzi si misero a ridere, e Gustavo, un tipo magro e anziano con la voce da jazzista nero, mi chiese di portare certificazione e autorizzazione dei genitori e liberatoria per la palestra e cinquemila lire per l’iscrizione. Sei mesi dopo già danzavo sul ring come una ballerina e seminavo diretti sinistri come la grandine d’estate. Era innegabile: per quanto non si fosse mai visto un pugile con un corpo più inadatto, sembravo nato per stare là sopra. E da quando mi allenavo suonavo meglio anche il pianoforte; mi iniziava quasi a piacere pure quel bastardo di Beethoven. Non so cosa mi accadeva quando stavo lassù, ma d’un tratto sparivano tutti i rumori, i suoni, le grida e gli odori; spariva il mondo intorno e vedevo solo il mio avversario, che d’un tratto sembrava quasi muoversi al rallentatore; sentivo solo il battito del mio cuore, preciso e regolare come un treno a vapore. Solo il mio cuore e gli occhi affaticati di quel poveretto che mi stava davanti.

Era un piacere starmi a vedere. Gustavo mi mostrava come un’auto nuova.


Adatt. da P. Grossi, Pugni, Sellerio