Chi sono e di cosa mi occupo... in tre parole!

Questa piccola descrizione di me e della mia professione è per te che sei alla ricerca di un psicoterapeuta, oppure per te che stai studiando psicologia e ti stai approcciando a questa professione, oppure è per te che per semplice curiosità hai aperto il sito web e mi stai leggendo 😊

Potrei banalmente allegare alla mia foto il mio curriculum vitae o anche dirti che ho scelto di fare ed essere psicoterapeuta per passione o perché amo aiutare gli altri. In parte è vero, ma dietro c’è ben altro e qualcosa di più complesso che lascerò descrivere a queste 3 parole: curiosità, analisi e… caparbietà.

Curiosità

Sono stata sempre molto curiosa, fin da piccola, curiosa delle persone, dei luoghi, dei dettagli e delle parole, delle storie, soprattutto quelle che riguardavano amori e legami. Nello specifico una curiosità dominante prese il sopravvento intorno ai miei 15/16 anni, leggendo casualmente un libro di Jung. La mia curiosità allora era capire il perché della follia e della sua natura e del perché, ingiustamente, alcuni venivano socialmente definiti tali.

Ricordo che ingenuamente alla tesina del mio diploma portai una serie di autori come Van Gogh, Erasmo da Rotterdam, Allan Poe per dimostrare che quella che tutti definivano la loro “follia” era un linguaggio e un “genio” non adeguatamente compreso. Ma non mi bastava, ci volevo capire di più e così senza batter ciglio mi iscrissi alla facoltà di Psicologia alla Federico II di Napoli.

Ho conseguito la triennale nel 2009 e nel 2012 la magistrale non perché avessi qualche particolare dote, ma perché spinta dalla “curiosità” di avere tutti gli strumenti, le tecniche, le teorie per imparare a leggere quella che socialmente veniva riconosciuta come “follia”. Le mie due tesi di laurea, la prima “Senso di solitudine e capacità di essere solo” e la seconda “Competenze attese e competenze riconosciute” sono anch’esse frutto della curiosità.

Nel primo caso decisi di studiare il caso di un eremita e facendomi sostenere da autori come Winnicott, Klein e le mie stesse osservazioni cercavo di trovare una “lettura” al perché una persona decide e riesce a vivere nella completa solitudine. La seconda tesi è frutto di un lavoro di ricerca, durante un anno, e spinto invece dalla curiosità di capire quanto gli studenti sentono che la loro formazione universitaria “possa” dare loro adeguati strumenti di lavoro nella clinica e nel trattamento dei pazienti.

La ricerca, questa immensa parola, ha rappresentato e rappresenta tuttora un campo per me di grande fascino, perché permette di produrre e conoscere in prima persona qualcosa di “nuovo” rispetto a quello che è il vasto campo della “psiche”. All’oggi, difatti, mi occupo sia di ricerca che della revisione di articoli scientifici per la rivista JPS Journal.

Analisi

Facciamo un passo indietro… alla mia tesi magistrale e agli studenti... Bhe, la tesi per certi versi mi annunciava già allora che forse la formazione universitaria non mi bastava. Non mi bastava non perché avessi semplicemente bisogno di riempirmi di saperi, ma perché nel frattempo avevo conosciuto i protagonisti della mia curiostà… i pazienti.

Dal 2009 al 2013 infatti, sia per il tirocinio intercorso, sia per l’anno di praticantato mi ero buttata a capofitto in diversi settori di lavoro clinico, nell’ordine il Centro di salute mentale, Spazio adolescenti e il Centro per disturbi alimentari. In questi anni, finalmente non ero più sui libri ma a lavoro, testando con mano chi erano finalmente quelle persone che attiravano la mia curiosità e il mio interesse e che per certi versi desideravo aiutare.

L’incontro con i pazienti mi ha dato modo di scoprire un altro lato di me, l’essere profondamente analitica. Mi scoprivo allora capace di connettere i dettagli, le parole, i sogni, frammenti di biografie in una cornice di significato per i pazienti. Finalmente potevo sentirmi una piccola Freudiana, ma senza lettino😊. Un po' come i bambini che di fronte a tanti pezzi provano a mettere su un puzzle. Solo che in quel caso il puzzle lo facevo insieme a loro.

Ma proprio come i bambini che più crescono e più imparano a connettere pezzi sempre più piccoli, mi trovavo con il passar del tempo ad aver bisogno di imparare a come connettere i piccoli pezzi, quelli più invisibili e non palesi nel linguaggio verbale. E mi riferisco ai pezzi delle emozioni, delle risonanze personali, e della sofferenza. Sentivo allora che la mia curiosità e capacità di analisi aveva bisogno di ampliarsi e che l’esclusivo focus sul paziente, o la sua storia personale era per me limitante, come se vedessi altro e non riuscivo bene a trovare la giusta traduzione nel vissuto del paziente e nel perché certi sintomi si manifestavano. C’era qualcosa che ancora non consideravo....

Caparbietà

Nel frattempo però ulteriori esigenze venivano avanti.. .quella di lavorare e diventare indipendente economicamente dalla mia famiglia, soprattutto dopo aver investito tanto tempo e impegno nello studio. Per uno psicologo trovare un lavoro nell’immediato post laurea rappresenta quasi un’utopia. Per certi versi, la vastità degli ambiti di lavoro in cui può collocarsi uno psicologo portano un “fresco” laureato a non capire esattamente come cercare o trovare bene la sua giusta strada all’interno di questa professione.

Dinanzi però alla vastità di “cosa potevo fare”, sentivo che la mia “vocazione” era la clinica, la “cura” del paziente. Ed è qui che tra dubbi, precarietà economica, variegate possibilità/impossibilità di lavoro, senso di frustrazione, e bisogno di approfondire le mie competenze che sentivo ancora molto poco definite, che scopro un lato della mia persona, che all’oggi è tra i miei piccoli attrezzi di lavoro con i pazienti… la caparbietà.

Cominciai a svolgere svariati lavori, che non c’entravano nulla con la psicologia, ma che potevano darmi la possibilità di pagarmi l’abilitazione alla professione, e accedere alla “scuola di psicoterapia”. Nel 2014 trovo nella scuola di Specializzazione in Psicoterapia “Ecopsys” a Napoli, quei “pezzi mancanti”, forse quello più fondamentale, la “cura che passa per la relazione e che parte dalle relazioni del paziente” e questo pezzo che non consideravo mi si era reso visibile non solo con lo studio della Terapia Sistemico Relazionale, ma più specificatamente nell’apprendimento che si realizzava in quegli anni mediante il setting “gruppale” della formazione.

L’aver potuto allargare i miei confini di lettura al contesto, alle famiglie, insomma alla “complessità” mi ha portato negli anni ad appassionarmi a due grandi campi di lavoro dove coesistono diverse forme di relazioni, la comunità allargata e alla scuola. Dal 2015 cominciai a ritrovare nel Terzo settore e nella scuola ambiti dove la mia originaria curiosità potesse generare altre forme di cura e funzionalità, non più esclusivamente sul singolo, ma sui gruppi.

In questi anni ho svolto, difatti, diversi incarichi come psicologo al “supporto della genitorialità e della relazione genitore-figlio” laddove il gruppo ha funzionato come contenitore per il confronto, il sostegno reciproco e per la riscoperta dei propri ruoli dentro e fuori la famiglia. In questi anni ho accompagnato sia individualmente che in gruppo studenti e insegnanti provenienti da diversi istituti scolastici dell’Agro Nocerino Sarnese nel sostegno e counselling psicologico laddove venivano segnalate difficoltà o malesseri dentro e fuori la scuola. All’oggi sto ulteriormente affinando strumenti di lavoro e di riflessione per lo psicologo entro i contesti di formazione attraverso un Corso di Perfezionamento in Psicologia Scolastica presso l’Università degli studi di Napoli Federico II.

L’altro terreno di intervento e di lettura per me molto interessante è la comunità in senso lato, nello specifico ciò che riguarda quello che spesso è ai margini del sociale. Grazie all’esperienza maturata in Onlus del Territorio, dal 2014 all’oggi, ho potuto aver modo di comprendere come molti disagi individuali non siano semplicemente connessi al proprio contesto familiare di appartenenza, ma al più ampio contesto sociale, come la microcriminalità, lo scarso investimento nella cultura e nell’educazione e più di tutte nella forte presenza ancora della povertà educativa. La mia indole all’analisi ha trovato ulteriori applicazioni nell’impegnarmi a “progettare nel sociale”. Leggere i vari sotto strati che compongono uno specifico problema sociale e al tempo trovare obiettivi, attività e tecniche di intervento rappresenta, dopo la clinica, un lavoro che mi appassiona e al contempo mi dà la possibilità, come detto in precedenza, di poter non incontrare le singole persone, ma gruppi, famiglie e istituzioni. Negli anni mi sono specializzata attraverso vari corsi di formazione alla “Progettazione sociale”, “Progettazione europea” “Valutazione dell’impatto sociale”. La cosa che più amo di quando “progetto” è l’incontro con la “creatività”. La creatività è per me un’arma potente contro l’impasse che spesso emerge dalla lettura delle problematiche sociali. La creatività mi permette di “uscire” dal normale, rigido e ordinato modo di riflettere, incontrando altre sfumature e il problema sotto una diversa veste.

Attualmente l’utilizzo della creatività e più nello specifico di strumenti nati dalla creatività come le immagini e la fotografia rientrano tra i miei piccoli attrezzi del mestiere sia nella clinica che nel progettare attività psicoeducative e riflessive per i gruppi di minori e adulti. L’immagine, e la fotografia terapeutica, mediante apposita formazione, sono diventate delle chiavi che spesso con i pazienti utilizziamo per entrare in porte del proprio vivere e sentire che non potrebbero esprimersi ed essere incasellate nelle parole, ma semplicemente viste, accolte e restituite.

Beh, vi avevo detto all’inizio che mi sarei descritta in 3 parole…non è stato proprio così… dietro ogni parola c’è sempre altro di più: i propri vissuti, le proprie emozioni, le proprie sconfitte, i propri errori, la propria storia, ovvero chi siamo e chi potremmo essere.