Pensieri... dalla mia Stanza di Terapia

Your Place (il tuo posto)

Quando nel 2014 decisi di aprire il mio studio ricordo di aver detto ad una persona a me cara: "lo sa, alla fine ho deciso di cominciare a ricevere pazienti".

Mi venne risposto "Era ora".


All'oggi ricordo con affetto queste parole di chi aveva più fiducia di quanto ne potessi riservare per me.

Da quel 2014 diversi sguardi e storie si sono accomodati su quella poltroncina.

Alcuni sono rimasti, altri sono andati via, alcuni ritornati, alcuni affacciati.

Alcuni hanno esplorato e poi trovato quello che serviva.

Alcuni stanno ancora cercando. Altri hanno portato le uniche cose che possedevano. Altri solo le lacrime.


Qualcuno mi porta i desideri e altri le prigioni.

Alcuni mi portano le persone che amano.

Qualcuno si siede perché si sente impaurito e qualcuno si accomoda per arrabbiarsi.

Qualcuno invece ha bisogno di chi gli tiene la mano mentre si avventura. Qualcuno invece si siede perché non ha una famiglia e la cerca.

Chiunque è entrato e che continua a varcare la soglia del mio studio ha un desiderio: trovare il suo posto.


Dal canto mio io sono dall'altra parte.

Sono dall'altro lato ad attendere e ad aiutarli nella loro personalissima fioritura nel posto in cui si trovano con le risorse che con il tempo scoprono di possedere.

Da Bruco a Farfalla

Quando ero un'adolescente parlavo spesso, con tutti e in qualsiasi situazione. In classe mi capitava di prendere anche qualche nota. Ero quella tipica persona a cui gli amici dicevano "dai vai tu, tanto hai la faccia tosta". Si parlavo tanto, ma spesso le cose importanti non riuscivo a dirle e questo diventava il mio "non sentirmi compresa" da nessuno, nè amici nè famiglia. 


Questo come altri aneddoti, mi capita di ripescarli in stanza quando lavoro con gli adolescenti. Perché il lavoro più faticoso con loro è la "ricerca" delle parole da dirsi prima ancora di decidere a chi "dirle". Con loro c'è sempre un primordiale punto di partenza, il sentirsi "persi", non si è più come prima, non siamo più riconoscibili dagli altri, e tutto emotivamente corre al punto di non riuscire ad afferrare cosa effettivamente ferisce e cosa no. E' uno stato in cui il bozzolo "dagli altri" è a volte necessario per imparare a comprendere di che forma e sostanza siamo. Quando entro "nel bozzolo" con loro per arrivare alle "parole" porto con me "le fotografie" che ci aiutano a navigare "verso".


Le fotografie scattano quegli attimi interni che sfuggono e che le parole difficilmente riuscirebbero a dargli "visibilità" così come lo sentono.


Ci vuole tempo e spazio per imparare a parlarsi senza paura, le foto in questo aiutano a trovare gli indizi di sé sul cammino delle proprie parole.

Una "seduta" con Bono Vox

Anche i grandi hanno bisogno di aiuto.

Questa la frase che mi risuona al termine delle storie di "resa" lette, drammatizzate e cantate da Bono Vox.

Da un lato un percorso canoro di un baritono di gran successo, l'incontro con i grandi del mondo, dal Papa a Lady Diana, un percorso vinto per la lotta per i diritti umani.

Un uomo di successo, capace di eccitare un pubblico al solo rintocco di qualche nota "nota", di qualche breve pezzo delle sue poetiche canzoni.

Dall'altro lato, una sedia vuota, la sedia occupata dal padre, dove tutta la sua salita diventava ai suoi occhi incredibile discesa.

"Sei un baritono che si crede tenore".

Un padre che mancava puntualmente nel riconoscere il proprio figlio, o quanto meno nel riconoscere e accettare i "sogni" del figlio. Un sogno per niente lirico, ma essenzialmente rock.

Una serata emotivamente sulle montagne russe, dove ti senti in cima ma poi qualcosa ti riporta in basso. Dove in basso ci sono tra le parole dette con ironia, la confessione di "non essere stato abbastanza, di non essere all'altezza dei sogni del padre", le emozioni più silenziose.

Fin quando questo padre è stato in vita, il vissuto di Bono è stata una sfida per remare  contro questo sentire, per dimostrare che qualcosa di "straordinario" stava realizzando, nonostante non si era più nei sogni del padre.

Ed accade sempre così, che fin quando ogni figlio vive in funzione di certi sogni dei genitori, la nostra vita e le nostre scelte prendono sempre le direzioni dettate da questa lotta, sia che i nostri genitori abbiano o, nelle situazioni peggiori, non abbiano un sogno su di noi.

E poi accade invece che quando questi vanno via e lasciano la sedia vuota, i figli abbandonano la lotta ed essenzialmente si concedono quello che avrebbero voluto veramente sentire se si era o meno dentro il loro desiderio.

Mi vesto dunque per andare al concerto di Bono nella maniera più elegante e meno rock possibile. Con abito nero lungo e con tante perle, come lui ci aveva chiesto prima di questa serata.

Tutti lo facciamo, ma per restituirgli la possibilità di "entrare nel sogno" del padre e sentirsi un tenore al San Carlo.

Succede quindi che con un padre assente, un figlio di 63 anni chiede di entrare nel sogno ma non più per sentirsi all'altezza, ma per sentirsi un figlio voluto bene.

Accade soprattutto quando un genitore non c'è più, che un figlio anche a 60 e 70 anni per stare in pace con sé stesso, ha bisogno di ritrovare il "bene" di chi lo ha messo al mondo.

Grazie Bono! Grazie Paul David Hewson!

Sull'Essere Madre e Terapeuta

Mi capita spessissimo di sentirmi dire da altre mamme “Sei psicologa, beata te che sai come comportarti con i tuoi figli!”.

Ed io “ma ANCHE NO”. 


Fare questo lavoro non mi hai mai abilitato ad essere una madre eccellente e comprensiva di tutto. Essere una madre che fa questo lavoro significa vivere le proprie figlie con mille “alert” in testa. Ti vivi le loro tappe, pensando a Piaget, e guardi i giochi pensando al gioco simbolico e ai vecchi manuali pedagogici. Una mamma che è psicoterapeuta è una mamma che piuttosto deve vivere spegnendo queste antennine.


Piuttosto è stato il diventare madre che ha restituito e cambiato il mio essere “nella stanza” con i pazienti.


Primo fra tutti divenire madre è lo spalancamento di una grande porta emotiva su stessi. Nove mesi a contatto con sfaccettature emotive e fisiche completamente differenti. Vivi il parto tra il dolore e gioia insieme. E dunque se prima di allora potevi illusoriamente pensare di “conoscere” la materia incandescente emotiva, con il diventare madre “senti” le emozioni nella loro vera natura e suono. Questo mi ha aiutato dunque a “poter sentire” in seduta le madri, i loro interrogativi e il loro stato d’animo. A non volerlo “correggerlo” ma accoglierlo e riconoscerlo. Quando una madre piange e un padre è stanco certi scenari non mi sono sconosciuti.


Diventare madre è stato imparare “a farle spazio” prima di tutto fisicamente. E il corpo che cambia non è qualcosa di così scontato. Come anche “tenere i figli” in mente (cosa devono mangiare, se oggi fa caldo e domani freddo come si devono vestire, banalmente per dire) non è un processo così immediato come succede al nostro corpo. Fare spazio all’altro è una condizione necessaria quando fai questo mestiere. Siamo uno strumento per “far nascere”, i pazienti non devono “gratificarci”, i pazienti almeno in terapia “devono trovare uno spazio” dove esprimere tutto di sé, soprattutto quello che non amano far vedere a tutti, nemmeno a se stessi.


L’essere madre mi ha fatto conoscere la temuta parola dell’imprevedibilità. Imprevedibilità dettata dal fatto che tuo figlio è qualcosa che non rientra “in ciò che ci immaginiamo”. Il figlio ti porta a vivere nella realtà, quella conosciuta, banale, irripetibile, già da quando tu hai bisogno di lavarti e per lui “non è il momento”. 


L’imprevedibilità è essenziale quando fai questo mestiere. Perché una cosa è ciò che studi sulla psicopatologia e una cosa è quando una persona ti racconta perché sta male e come si sente. Ogni figlio ha i suoi tratti da conoscere e in terapia il paziente ha bisogno, prima ancora di essere aiutato, ad essere visto per “quello che è e che lui desidera essere”.


Con ciò non dico che ogni terapeuta deve “essere madre”; ma chi fa questo mestiere usa una bussola che è calibrata sul proprio esistere. E nel mio caso, diventare madre mi fa essere quella che sono quando incontro l’altro.

Sulle costanti

Negli ultimi tempi mi è ritornata spesso in mente la mia tesi della triennale. "Sulla solitudine e sulla capacità di essere solo".


Essenzialmente allora mi piaceva questo concetto, quello di essere in grado di proseguire portando dentro di sé "un oggetto buono interno", una presenza interna su cui contare per essere in grado di provvedere a sé stessi, da soli.


All'oggi credo che la solitudine sia una delle "costanti" caratteristiche e condizioni del terapeuta. Altro è il lavoro di equipe, il confronto e il dialogo, necessario e vitale. La solitudine è una costante del terapeuta, la possibilità di mettersi in dialogo con l'altro, sapendo nella propria "solitudine" dialogare con tutte le parti di sé, soprattutto con quelle che ti "richiama" il paziente. L'equipe ti apre alle domande, la solitudine ti aiuta a trovare le risposte per proseguire nel processo.


All'oggi la capacità di "gestire questa solitudine" mi ha condotta a sentire il bisogno di proseguire la clinica lasciando una famiglia, quella che da oltre un anno era parte della mia esperienza professionale, quella del centro, dei miei colleghi e delle famiglie.

Ma come ogni "nido", dove ritrovi quasi tutto, mi sono riscoperta nella mia voglia di proseguire con quello che da anni è il "mio spazio clinico", arredato con le svariate esperienze di questi anni, dentro e fuori.


Loro, le famiglie con cui ho camminato sono un "arredamento interno" che mi porto, come chiunque incontro e per cui sono grata alla vita.


Ci vuole tempo per lasciare i nidi, ci vuole altrettanto tempo per riconoscere la "propria casa".

Ne serve tanto altro per imparare che c'è un'altra costante nella vita, il cambiamento.

Sul 21 Aprile 1991

Ci sono giorni che quando iniziano non finiscono.

Il 21 Aprile è quel giorno che ha plasmato il mio rapporto con la vita e con la morte e il desiderio soprattutto di vita.

Il 21 Aprile 1991 ha dato una direzione al mio modo di essere figlia perché prima di quel giorno mia madre e mio padre erano persone diverse.

Il 21 Aprile mi ha tolto una persona e cambiato una famiglia

Il 21 Aprile lo incontro spesso

Lo incontro quando imbocco un'autostrada e corro veloce, e continuo nonostante la paura

Lo incontro quando devo decidere se fare qualcosa che mi restituisce la vita

Lo incontro quando saluto le mie bambine e siamo lontane per un po'.

Lo incontro in stanza quando i pazienti mi raccontano della perdita, soprattutto quella traumatica, non attesa e violenta.

Lo incontro quando vedo dei bambini che diventano subito grandi per paura di perdere e perdere i cari.

Il 21 Aprile 1991 lo incontro spesso, ma non decido di dimenticarlo. Perché questi giorni che "non finiscono" mi rendono la persona che sono, la madre e la terapeuta che sono.

Continuo a correre perché nonostante il 21 Aprile 1991 sento che mi piace farlo, nonostante tutto.

Sul Dono in Terapia

Durante il processo terapeutico accade che i pazienti mi portino un dono che simbolicamente rappresenta qualcosa del loro percorso e della loro crescita. Talvolta è la sintesi di quello che per loro è la relazione terapeutica, talvolta è il loro bisogno di imprimere nello spazio fisico della stanza un loro segno e un loro passaggio.

Tra i vari quello che ultimamente ho accolto è questa agendina, senza date e senza ora, né anno. Uno spazio per poter "scrivere" e dunque "fermarsi" nel dialogo con sé stessi. La scrittura per questa paziente è stato un inizio del suo percorso di svolta. Una scrittura vissuta in solitaria e in altri momenti condivisa con me. E oltre ciò, l'agendina sintetizza quello che è essenzialmente il lavoro del terapeuta, ovvero tenere nel proprio spazio mentale e riflessivo le loro "scritture private", saperle contenere, accogliere e ridefinirle insieme con loro.