TAMBERMA, I SIGNORI DEL CASTELLO - Testo del documentario (1995)

Siamo entrati nella valle dei Tamberma con la curiosità e l’ansia di conoscere un popolo ed un territorio che già al primo impatto ci appaiono straordinari.

Siamo anche fortunati.

Oggi è il giorno della settimana in cui i capi-clan dei Tamberma sono riuniti in consiglio.

Attraverso questo strano rito detto “dei bastoni”, interrogano le anime degli antenati sull’opportunità di accettare la nostra presenza sul loro territorio.

Ci accompagna un maestro di scuola elementare di origine tamberma, Michel Tiado, che ci fa da interprete.

Sottopancia: Gli antenati sono molto felici, … molto felici per l’arrivo degli stranieri. Perché, presso di noi, gli stranieri devono essere bene accolti”

Detalmo Pirzio Biroli:

" I Tamberma dell’Atakorà, la regione montuosa che sta al nord del Togo e del Benin, fanno parte del gruppo etnico Somba.

Sono noti in antropologia culturale e sono entrati nella storia attorno all’anno 1888, in quanto erano stati grandi fornitori di schiavi alla corte di Guinea nella prima metà del secolo e per una loro ribellione contro il potere coloniale francese"

Somba e Tamberma formano un’unica etnia, solo il nome è diverso.

Quando, nel 1896, Germania e Francia separarono con un confine il Togo dal Dahomey, oggi Benin, i Somba che vennero a trovarsi sotto l’influenza tedesca, e cioè in Togo, vennero chiamati Tamberma.

La stagione delle piogge è appena terminata.

Le coltivazioni di miglio e di sorgo, in pieno rigòglio, trasformano a volte le strade sterrate in lunghi corridoi nascondendo alla vista i “tatà”, le singolari case-fortezza dei Tamberma.

Tra poco il paesaggio sarà irriconoscibile.

Il verde scomparirà, le foglie degli alberi cadranno ed una terra rossa sollevata dal vento trasformerà la campagna in una landa arida e desolata.

Ci inoltriamo nella valle.

I campi coltivati con cura e il bestiame al pascolo, ci fanno pensare ad un popolo di abili agricoltori ed allevatori, fortemente legato alla propria terra ed alle proprie pacifiche tradizioni

Alti, silenziosi, distanti, i Tamberma non danno confidenza e difficilmente sorridono.

Ogni comunicazione diretta ci appare, di fatto, impossibile e sapremo qualcosa dei Tamberma solo cercando di interpretare i segni esteriori della loro cultura.

Incontriamo P. Angelo Mabon dell’ordine de Padri Bianchi.

E’ nato in Francia, ma da oltre 45 anni vive con i Tamberma.

Ha fondato scuole e mantiene uno stretto contatto con i giovani:

Bisogna, fin dall’inizio, vivere “dentro”, assieme alla gente. Ma è solo dopo, quando scoprono che tu sei lì per loro, che iniziano ad aprirsi e a parlare un po’ e allora puoi cominciare, poco a poco, a scoprire quali sono i loro costumi”

Non incontriamo villaggi, ma solo case isolate, sparse per la valle.

Da queste parti si dice che la distanza tra una casa e l’altra deve superare la portata di un tiro di freccia.

La società Tamberma è suddivisa in clan o gruppi parentali che fanno riferimento ad antenati comuni.

Ogni clan riconosce un capo che dirime i conflitti interni al gruppo, sovrintende alle cerimonie religiose ed ai riti di passaggio tra le varie età.

Il clan è anche l’area entro la quale ci si può sposare, ma questa tendenza all’endogamia, presso i Tamberma, non è costante: i matrimoni tra giovani di clan diverso non sono rari e questo rappresenta una garanzia per eventuali alleanze tra i gruppi.

La famiglia Tamberma è strettamente monogamica e il “tatà”, cioè la casa, ne è la sede e soprattutto, la rappresentazione simbolica.

L’assenza di elementi occidentali, in queste singolari costruzioni e la riservatezza con cui veniamo accolti, ci fa intuire un forte attaccamento, quasi una gelosia per il loro modo di vivere le proprie tradizioni.

La parte centrale del cortile davanti al “tatà” è un’area sacra.

I coni in terra battuta rappresentano le divinità tutelari del clan.

I sacrifici rituali si svolgono sempre in particolari ricorrenze stagionali, oppure quando si voglia rafforzare, col sangue delle vittime, il legame di protezione tra queste divinità e il nucleo familiare.

Ai lati della porta d’ingresso del tatà sono rappresentati nello stesso modo gli antenati, custodi del benessere e della sicurezza della famiglia.

Nella tradizione Tamberma, gli antenati ritornano periodicamente attraverso i nuovi nati.

Con un particolare rituale si può individuare, osservando i gesti ed i lineamenti del bambino, quale antenato sia tornato a visitare i suoi discendenti.

I Tamberma dicono che l’antenato segna il neonato con il suo carattere.

E’ questo un modo di stabilire una continuità tra le successive generazioni mantenendole unite tra loro.

Il “tatà” non è solo una casa, ma una fortezza in miniatura.

Detalmo Pirzio Biroli:

A testimonianza di queste tradizioni guerriere, sono anche le loro abitazioni.

Sono costruite con spesse mura in mattoni di argilla che contengono della ghiaia come legame e che sono delle vere e proprie fortezze atte a difendere le famiglie, il bestiame, i prodotti alimentari, dall’aggressione dei nemici.

Un po’ come i castelli medioevali europei dove tutti si rifugiavano al passaggio di eserciti stranieri"

La porta piccola e quindi ben difendibile, dà accesso ad un’ampia stanza adibita al ricovero notturno degli animali di proprietà della famiglia.

In un angolo vicino alla porta d’ingresso, c’è l’altare interno degli antenati, dove ogni abitante della casa ha fissato, con una pietra, l’antenato che si è reincarnato in lui e che rappresenta, quindi, il proprio altare personale.

In alto, coperti dalla polvere del tempo, sono appesi vecchi trofei di caccia: teste mummificate di animali, mandibole, crani di antilopi e di gazzelle.

Poco più avanti, in un piccolo locale semicircolare, è in funzione un mortaio per pestare le granaglie: in un foro praticato nel terreno vengono posti i grani da frantumare.

Una o due donne procedono all’operazione. Il lavoro è molto faticoso e la polvere che si alza avvolge cose e persone.

Un altro attrezzo primitivo ma ancora molto usato qui e in gran parte dell’Africa è questa specie di “mulino”. Con due pietre e la sola forza delle braccia si riesce a frantumare e ridurre in farina tutte le sementa che saranno poi usate per preparare alimenti come pane o frittelle.

In una stanza contigua è situata la cucina con il focolare per la preparazione degli alimenti.

Un’apertura laterale, oltre a dare luce, permette di salire ad una terrazza dove si trovano i granai e gli stretti abitacoli usati per dormire.

Nei granai, dopo essere stati essiccati, vengono custoditi, al riparo dalle piogge e dai roditori, sorgo, miglio, granoturco, fagioli, che saranno poi consumati, durante l’anno.

Il tatà è il simbolo della famiglia e mantiene immutate le proprie funzioni, anche se oggi, molte volte, la famiglia non dorme più al suo interno, ma in un ambiente più comodo costruito vicino al cortile.

Le due sporgenze che sovrastano, come corna, la porta d’ingresso, rappresentano l’autorità del capofamiglia.

Se il capofamiglia muore le due sporgenze vengono abbattute in segno di lutto.

Ma il tatà è anche una casa fortificata in grado di difendere gli abitanti e di prevenire qualsiasi attacco esterno.

Ci siamo chiesti perché un popolo apparentemente tranquillo, privo di conflitti interni o esterni, debba adottare sistemi difensivi così complessi.

In passato si è ritenuto che i Tamberma fossero bellicosi, aggressivi, sempre pronti a farsi guerra tra loro, ma forse è vero il contrario.

Per capire questa realtà bisogna risalire al XVIII secolo quando le popolazioni delle pianure dell’attuale Togo, Benin e Burkina Faso, si rifugiarono sui monti dell’Atakorà per sfuggire all’invasione dei Baribà da est ed alle scorrerie degli Ashanti, sempre a caccia di schiavi, da ovest.

Le popolazioni dell’Atakorà, tra cui i Tamberma, impararono così a difendersi ed a respingere i numerosi attacchi degli invasori. Inoltre il continuo “stato” di guerriglia, non permetteva la coltivazione dei campi e l’allevamento del bestiame per cui, la caccia, divenne l’unico mezzo di sopravvivenza.

L’aspetto veramente straordinario è che la loro religione animista non è rimasta condizionata dai lunghi periodi in cui hanno praticato l’agricoltura come l’attuale, ma fa, ancora oggi, riferimento agli spiriti dei boschi, della guerra e della caccia.

Detalmo Pizio Biroli:

I tamberma sono ancora animisti e sono piuttosto refrattari ad aderire al cristianesimo o all’islam.

Praticano molto ancora la magia"

Da un passato di cacciatori e di guerrieri deriva il loro carattere, a volte, scontroso ed altero.

Detalmo Pirzio Biroli:

"I tamberma sono ottimi agricoltori e allevatori ma le loro antiche tradizioni di cacciatori e di guerrieri sono ancora molto apparenti nei riti che sono severi, soprattutto l’iniziazione, dalla pubertà all’età adulta, dura ben tre anni…”

Questa doppia anima legata al presente e al passato, è evidente nei riti di iniziazione che segnano il passaggio tra l’adolescenza e l’età adulta.

L’iniziazione rappresenta un momento fondamentale in cui confluiscono tutte le sicurezze, le problematiche e le contraddizioni della società Tamberma.

Non si è mai un vero Tamberma se prima non si sono superati i riti di iniziazione.

Tra i 14 e i 16 anni i giovani di entrambi i sessi, vengono sottoposti ad un regime di vita rigido per acquisire quei caratteri fisici, psicologici e comportamentali tipici dell’etnia che dovrà riconoscerli ed integrarli come propri componenti.

Durante questo periodo, i maschi devono essere completamente nudi sia di giorno che di notte; sono obbligati a portare con se solo un coltello da cui non possono mai separarsi.

Suddivisi in piccoli gruppi, in base al clan di appartenenza, svolgono gratuitamente lavori agricoli collettivi.

In particolare collaborano reciprocamente per coltivare i campi dei futuri suoceri.

I rapporti sessuali sono severamente vietati. In caso di trasgressione l’iter dell’iniziato subisce complicate modificazioni.

Questa fase preparatoria, della durata di circa tre anni, termina con una lunga e misteriosa cerimonia notturna in cui l’iniziato dovrà mostrare il coraggio, la forza, la resistenza fisica, necessari a mantenere e a difendere la propria famiglia.

Questa cerimonia conclusiva si svolge in un luogo segreto detto “bosco sacro” o “bosco degli antenati”.

Una settimana dopo il nostro arrivo nella valle, siamo di nuovo tornati dai capo-clan riuniti a consiglio ed abbiamo chiesto di poter vedere un bosco sacro.

Si consultano. Sono un po’ imbarazzati. Ci chiedono le motivazioni. Si consultano di nuovo e poi ci conducono in un bosco poco lontano.

Sorridono. Non sembrano molto convinti; noi lo siamo ancor meno: questo è un bosco qualunque e non il bosco sacro che noi avevamo chiesto di poter vedere.

Il senso dell’ospitalità unito forse al desiderio di non deluderci li ha costretti a questa ingenua bugia, ma non sono riusciti a vincere le rigide norme della tradizione.

Il giorno successivo un giovane capo Tamberma, dopo essersi assicurato che la nostra visita ha per scopo una seria e rigorosa documentazione, ci conduce nel bosco sacro del suo clan.

Si intravedono, nell’erba alta, grandi recipienti d’argilla.

Non c’è alcun dubbio: il bosco sacro è un cimitero.

I vasi che affiorano dal terreno segnalano le tombe dei capifamiglia.

Se un bambino o un giovane muoiono, non hanno diritto ad una sepoltura individuale, ma vengono collocati nella tomba del loro antenato più diretto.

Sotto questi alberi secolari, al cospetto degli spiriti degli antenati, il giovane iniziato, viene lasciato, per un giorno e una notte, solo, nudo, senza mangiare, ne bere, ne dormire.

Al mattino successivo viene sottoposto al rito “delle fruste”.

Munito di un piccolo scudo, dovrà difendersi dai colpi di frusta inferti da un gruppo di adulti.

Questo rito particolarmente violento è inaccessibile per chiunque non sia un Tamberma.

Ce ne dà un’idea quella che è chiamata la “danza delle fruste” che i giovani Tamberma eseguono durante particolari ricorrenze stagionali.

E’ una danza caratterizzata da un ritmo a due tempi; è quindi una danza di guerra che si esegue per tradizione, ma che ha perduto il significato originario.

I danzatori indossano vecchi ornamenti tradizionali, ma per un’abitudine entrata nell’uso, utilizzano anche acconciature bizzarre, calzature occidentali e strani oggetti.

Per le ragazze, la fase preparatoria non comporta fatiche fisiche, ma una serie di pratiche segrete che le inizia ai culti femminili della fertilità e della maternità.

Periodicamente restano chiuse con donne più anziane, in particolari capanne dove si celebrano riti magici e si praticano le scarificazioni cutanee che hanno lo scopo di sottolineare ogni fase dell’iniziazione.

Questo lungo periodo preparatorio termina poi con riti e sacrifici seguiti da una processione che si snoda per tutta la valle.

Detalmo Pirzio Biroli:

I Tamberma sono riusciti a mantenere intatta la loro cultura anche grazie all’ecologia montuosa del loro paese…."

"Sono ostili al cosiddetto “modernismo” nostro che, almeno a giudicare da certi aspetti della nostra cultura occidentale, non è proprio un paradiso…."

Prima di partire, incontriamo di nuovo Padre Angelo Mabon:

"I giovani non sono la migliore fonte di informazione perché non conoscono tutto e poi perché non possono rivelare tutto"

"Nel corso delle loro cerimonie tradizionali ci sono spesso dei momenti dove si dice loro che di certe cose non devono mai parlare: “Questo non si dice, rimane un segreto dell’etnia, della razza”.

E’ una razza che ha dei costumi e delle usanze molto forti…., viscerali… e sono attaccati a queste cose.

La modernità, fino ad ora, non è arrivata molto…., ma sta cominciando un po’.

Mi dispiacerebbe, che nei prossimi anni, questa gente, si uniformasse e diventasse come tutti gli altri.

Vorrei che restassero quello che sono”

Abbiamo l’impressione che Padre Angelo non sia più un occidentale: sembra un Tamberma che difende i segreti della propria razza.

In ogni caso ha ragione: la modernità sta cominciando.

Gli stranieri presenti nella valle sono sempre più frequenti.

Gli alberghi si moltiplicano, alcuni a forma di “tatà”, come questo.

I giovani si spostano nelle città vicine e tornano con nuove esperienze e una mentalità diversa.

Chi ritorna ritrova lo stesso mondo immutato e immutabile, con le sue regole ferree, le cerimonie segrete, i paurosi e violenti riti di iniziazione legati ad esigenze e a un tempo che non esistono più.

E’ difficile oggi essere Tamberma.

Tra i popoli dell’Africa Occidentale, i Tamberma, sono quelli che contano il maggior numero di suicidi tra gli adolescenti.

Non sappiamo il motivo, né sappiamo se questo fenomeno sia sempre esistito.

Forse è un meccanismo di autoselezione della razza, oppure è il conflitto tra le nuove esigenze individuali e le rigide norme tribali che non trova possibilità di soluzione.

Questa vecchia Tamberma riassume perfettamente lo scontro ormai in atto tra presente e passato.

Desidera essere battezzata, ma non sarà possibile se prima non getta via tutti gli amuleti che indossa. Dice che lo farà, ma non riesce a farlo.

Contraddizioni e indecisioni che appaiono insormontabili: retaggio del passato ma legate al presente.

Alla fine del viaggio ce ne andiamo in silenzio, così come in silenzio e quasi in punta di piedi eravamo arrivati.

Non abbiamo capito molto, ne scoperto granché di questi singolari “signori del castello”. Ma siamo felici che, nonostante la minaccia di un modernismo negativo e invadente, esistano ancora oggi culture e tradizioni che, in altri luoghi e in altre situazioni, sarebbero irrimediabilmente scomparse da tempo.

Roberto Giovannini, Aldo Mencarini 1995