La biomimesi è una disciplina scientifica che studia i processi biologici della natura per estrarre informazioni e tecnologie utili per l’uomo. Le ali delle aquile hanno ispirato i progettisti degli arei che si occupano di fluidodinamica; la struttura trabecolare delle ossa ha insegnato come realizzare manufatti resistenti ma leggeri; la modalità con cui il geco cammina su pareti verticali ha dato origine a innovativi sistemi di adesione. La natura insegna, gli esseri umani imitano. Questa attività pragmatica è caratterizzata dalla consapevolezza.
La natura ha forgiato anche il nostro modo di percepire il mondo. Perché, quando ammiriamo un bel quadro, veniamo inondati da sensazioni positive, avvolgenti e accattivanti? E quando, al contrario, siamo al cospetto di una “crosta”, le sensazioni improvvisamente mutano? Da dove deriva il legame di piacere associato all’arte figurativa e astratta? Qual è l’origine biologica dell’estetica?
Sono molti gli indizi che ci suggeriscono come sia stata la natura di ciò che ci circonda a definire il “senso del bello”. Se scorporiamo gli aspetti culturali e concettuali dall’estetica biologica, ci rendiamo conto che quest’ultima è innata.
I canoni estetici che guidano l’attrazione verso la ricerca del partner ricevono un imprinting dato dai lineamenti del volto posseduti dai nostri genitori (sexual imprinting) (Little, Jones and Debruine, 2011). Allo stesso modo, i giudizi che ci fanno apprezzare o meno un dipinto sono guidati dall’imprinting che ricevono i nostri occhi quando esplorano l’ambiente. Così la natura, in maniera silenziosa, giorno dopo giorno, a partire da quando siamo ancora in fasce, ci fornisce un repertorio di linee, colori e composizioni che in un futuro diventano la “sintassi del nostro piacere estetico”.
I tramonti ci abituano a sfumature e luce. La trama dei rami degli alberi fornisce esempi di tratti innestati gli uni negli altri. Le foglie ci insegnano la sinuosità dei contorni. Le silhouette del corpo umano, verso le quali siamo istintivamente attirati, offrono modelli precisi ripetibili. Tutto nella natura contribuisce a definire l’architettura del bello.
Molto spesso lo stile di un disegnatore, ossia l’insieme dei suoi segni, è scomponibile in strutture con le quali abbiamo familiarizzato per tutta una vita. Al contrario, i tratti acerbi e incerti di un artista alle prime armi difficilmente possiedono un pattern ritrovabile in natura.
Estremizzando, possiamo cogliere questo aspetto riflettendo sulla cromia. Che io sappia, non esiste alcun pittore (e non è mai esistito) che impieghi colori in grado di riflettere luce sulla lunghezza d’onda dell’ultravioletto. Il motivo è semplice: l’ultravioletto non è visibile dall’occhio umano. A meno che un artista non sia gratificato dal realizzare quadri apprezzati dalle renne (le renne sono gli unici mammiferi in grado di cogliere la “luce invisibile”), dipingere con l’ultravioletto non ha efficacia comunicativa. I dipinti sono perciò un sottoinsieme di tutti quelli che potenzialmente potrebbero essere realizzati. È la biologia dell’occhio umano ad imporre questa limitazione. Ancora una volta, è la natura a dettar legge.
Da un certo punto di vista, dipingere, anche in ambito informale, è un omaggiare il lavoro fatto dall’evoluzione per averci concesso la percezione visiva che ci contraddistingue.
Perciò sono affascinato da quelle sperimentazioni artistiche nelle quali vi è una simbiosi tra macchina ed essere vivente; tra artificiale e biologico: sperimentazioni figurative nelle quali entità naturali autonome prendono il sopravvento e creano immagini, dipingono o tracciano. È come se l’artista, invece di usare il proprio cervello per generare pattern, usasse direttamente l’input proveniente dalla natura.
L’artista Seung-Hwan OH fa appositamente invadere dalle muffe le fotografie, creando effetti e suggestioni che non riuscirebbe a riprodurre con pennelli e colori. I microscopici organismi pluricellulari processano la materia e “dipingono” in vece dell’uomo. Seung interviene imponendo confini, dosando le quantità, mescolando gli elementi e temporizzando i processi, come un Dio che gioca col proprio mondo, lasciando libero arbitrio ad ogni singolo individuo.
L’artista Harvey Moon ha usato il movimento di uno scarafaggio come input per guidare la mano di un robot. In questo modo, la traiettoria dell’insetto, la sua volontà, i movimenti rapidi o l’improvviso arrestarsi diventano elementi grafici. Il procedere dell’insetto viene rilevato da una telecamera e comunicato al robot. La macchina non fa altro che restituire alla tela il naturale movimento dell’entità biologica. La performance chiamata “Bugs draw” ha permesso di generare disegni con un’inaspettata carica espressiva. Sembra quasi di percepire la voglia di libertà dell’animale; sensazione fornita dall’insistenza con cui perlustra i contorni.
Mi è capitato di confrontarmi con qualche critico d’arte inerentemente a questi paradigmi creativi. Come per qualsiasi mezzo espressivo, i giudizi si dividono in maniera dicotomica. La critica principale riguarda l’inconsapevolezza dell’entità biologica: muffa e insetti non sanno quello che stano facendo, producono “disegnini” più o meno convincenti, e non caratterizzati da una vita di ricerca e indagine stilistica tipica dell’artista umano.
Per quanto mi riguarda, è proprio l’espropriazione dell’attività umana a riabilitare il paradigma. L’antropocentrismo viene spezzato, o limitato. Se un’artista investe una vita di sperimentazioni per accumulare il bagaglio della propria sintassi espressiva, la natura ha impiegato miglia d’anni di evoluzione per plasmare la dinamica delle sue mutazioni.