Quando parlo con i ragazzi c'è una precisa affermazione che puntualmente mi ripetono: "mi sento fuori luogo", "sento di non star bene in nessun posto" "sento che non ho punti di riferimento". Due gli elementi che si sentono perdere "i luoghi" e il "luogo della relazione con l'altro". Mi chiedo quanto questo sia effetto della pandemia, ovvero di quanto la forzata distanza sociale abbia innescato la sensazione di doversi abituare alla dimensione della solitudine e dunque abituati a non stare e di conseguenza a "poter sentire di essere".
Per quanto molto spesso si voglia fare credere che la "solitudine serve" la solitudine "fa crescere" in realtà la troppa distanza/solitudine genera una distanza anche da se stessi. L'altro è essenziale alla nostra crescita. L'altro ci porta a sentire di esistere. L'incontro è generativo per tutti di confusione, domande,dubbi ed è proprio nel sentirsi "mossi" che ci si accorge di cosa abbiamo bisogno, di cosa vogliamo e di chi siamo. Ognuno di noi difatti è stato generato "dall'incontro di due persone", da uno sguardo materno ricambiato e dall'essere stato tenuto fisicamente tra le braccia.
Per fortuna, nonostante il social distancing, i ragazzi, per quanto non ritrovano "il luogo", riescono ancora a ricercare il contatto.
Difatti al termine di un incontro con una classe, dove si sono percepiti per l'intero anno scolastico come estranei, li saluto ritrovandoli nel luogo dell'abbraccio!
Stamattina dopo diversi anni sono ritornata alla mia vecchia università a Napoli per seguire un corso di formazione.
Tra le diverse esperienze e relazioni fatte in quegli anni ricordo che una cosa avevo imparato a fare frequentando Napoli: quella di correre!
Correre all'Università, alla stazione, ai corsi, agli esami, al tirocinio. Anche quando rientravo a Pagani avevo questo passo veloce e mi veniva fatto spesso notare: "perché cammini così veloce?".
Effettivamente ho corso e rincorso tanto e a volte non ne capivo nemmeno il senso.
Ieri proprio mentre salivo per dei sentieri di montagna con degli amici e raccontavo loro del mio desiderio di fare il cammino di Santiago o di fare un viaggio in India, riflettevo come ora sia diventata per me una priorità camminare e non correre.
Camminare comporta darsi un diverso obiettivo verso se stessi, che non è partecipare a nessuna gara ad ostacoli o a tempo, ma è sapere intimamente dove si sta andando con consapevolezza, paura e coraggio.
Camminare comporta capire di chi e di cosa hai bisogno.
Camminare ti dà l'opportunità di ponderare i pericoli e sapere se sia giusto o meno cambiare strada
Camminare ti offre la possibilità di incontrare luoghi e persone e apprendere da loro.
Camminare ti consente di renderti conto della strada percorsa e di sentire pienamente la fatica e la gioia dei tratti percorsi.
Correre serve a sfuggirsi, camminare serve ad incontrarsi.
Stamattina parlando con un ragazzo a scuola del tempo e della durata della sua terapia personale mi è venuta in mente questa frase del Piccolo Principe. La cosa che ripensavo insieme con lui è come il vero tempo di terapia non sia nell'ora passata in quello specifico spazio. Ma prima e dopo quell'ora, dove non è solo il paziente a dialogare con sé e a ripensare a cosa portare del dialogo con sé nello spazio di terapia, ma anche il terapeuta ripensa e prepara dentro lo spazio e la riflessione per il proprio paziente prima e dopo quell'ora.
Molto spesso dunque ci si muove nel mondo mai soli, ma ripensando e sentendosi accompagnati da quel legame, e dall'insieme dei nostri autentici legami.
Ogni volta che entro in classe e ogni volta che progetto, imbastisco una attività per i ragazzi mi attraversano diverse emozioni e sensazioni: ansia, adrenalina, paura, ma anche tanta tanta curiosità di conoscere, incontrare e allo stesso tempo voglia di ripercorrere i tempi, gli spazi del passato.
Del passato tra i banchi di scuola, dove ognuno ha potuto sentire/vivere la parte di sé meno costruita, definita, forse per quanto negata o bistrattata quella più autentica e vitale, dove paura e sogni sono accesi alla stessa intensità e viaggiano alla stessa velocità. Oggi non ho solo incontrato i "giovani", definiti troppo ed esclusivamente fragili/strani/enigmatici, ma ho incontrato tanti ragazzi che, tra le "lacrime" che spesso impauriscono insegnanti e genitori, sognano e desiderano. Desiderano soprattutto sentirsi liberi.
Vedere e sentire i loro desideri mi ha fatto toccare con mano la loro bellezza, la loro linfa vitale che, per quanto si nasconde tra i loro vestiti scuri, alternativi e i loro visi intimiditi, c'è. E meno male.
Esco dall'aula con una frase di Marina, 16 anni,
"Il mondo mi ha deluso, ma credo che non devo smettere di cercare la bellezza, perché solo la bellezza ci tiene e mi tiene in vita"
Grazie a voi per la bellezza del mondo incontrata attraverso di voi.
Prima di guardarla al Festival di Sanremo, ho avuto modo di conoscere Drusilla Foer attraverso diverse interviste e spezzoni di suoi video. Quello che mi ha rimandato sempre è la potenza con cui Drusilla riesce ad affermarsi, far sorridere ed esprimersi.
Non lo fa con la prepotenza, né con la provocazione, ma a mio dire con la fierezza di indossare uno "sguardo sempre commosso, empatico,umano e fragile". Tutto questo la rende affascinante, perché nulla è mascherato o offuscato, ma fortemente portato fuori,espresso e comunicato.
Grazie Drusilla per la coerenza con cui porti fuori,come detto anche ieri, tutte quelle parti che ti abitano
Qualche tempo fa una mia amica mi chiese: "Come fai ad ascoltare tutti i problemi della gente?".
Questa domanda, che negli anni, mi sono sentita ripetere spesso, non ha mai avuto da parte mia la stessa risposta. A volte rispondevo, "questione di formazione", altre volte "questione di pratica". In quest ultimo caso mi è venuta alla mente qualcosa di più preciso nel rimandare l'aspetto "più faticoso/meraviglioso" del mio lavoro: La metafora dell'andare in bicicletta. E le rispondo "Per me sono importanti/faticosi due momenti nel rapporto con i pazienti: aiutarli a salire sulla loro bicicletta e lasciargli il sellino consentendoli di pedalare da soli".
Fare psicoterapia è per certi versi "imparare a stare in equilibrio" proprio come accade sull'andare in bicicletta. E' un lavoro di "coordinazione" di pesi, gambe, braccia, cuore, testa, strade e mete. E' la possibilità di sentire il proprio corpo e la propria mente non come i "pesi" che ci fanno cadere dalla bicicletta, ma come gli unici che ci permettono di "pedalare e proseguire" lì dove vogliamo spingerci, correre e andare...
Ringrazio Francesca Sciarra per aver realizzato con questa foto quello che avevo immaginato.