LA PROTESTA DI PIAZZA TIENANMEN


di Luca Mattei

Era la notte del 3 giugno 1989, a Pechino; da diverse settimane la Cina era attraversata da proteste e tumulti e, da ormai quasi un mese, operai e studenti presidiavano il cuore della capitale, l’imponente piazza Tienanmen. Le proteste erano nate dal forte movimento di critica al sistema di potere del Partito Comunista Cinese, ritenuto corrotto e fazioso dai dimostranti, i quali premevano per la cosiddetta "Quinta Modernizzazione", proposta nel 1978 dall'attivista Wei Jingsheng, ovvero la democratizzazione della Repubblica Popolare Cinse. Insomma, su Pechino soffiava lo stesso vento che in quegli anni stava risvegliando i sentimenti democratici nell'Est europeo e che presto avrebbe portato alla fine dell’Unione Sovietica. Tuttavia, la notte del 3 giugno non sarebbe stata una notte come le precedenti, ma la vigilia di un terribile massacro, considerato ancora oggi come una degli episodi di repressione più cruenti del ventesimo secolo.

Nonostante la tensione tra i conservatori - specialmente i sostenitori degli Otto Immortali - e i riformisti (più o meno) liberali all'interno del Partito Comunista Cinese era palpabile da diverso tempo e procedeva con i lentissimi tempi della burocrazia con botta e risposta tra chi desiderava un'apertura verso gli studenti e chi invece li vedeva come un nemico da annientare, la situazione in piazza Tienanmen precipitò molto in fretta da contestazione pacifica a mattanza gratuita.

Ma facciamo un passo indietro: tutto cominciò circa due mesi prima, il 15 aprile 1989, quando l'ex Presidente della Repubblica Popolare Cinese Hu Yaobang, fautore di un cauto riformismo fino alla sua deposizione imposta da Deng Xiaoping, morì per arresto cardiaco. Nonostante le riforme proposte da Yaobang avessero una portata limitata, queste furono sufficienti per trasformarlo in un eroe popolare, simbolo della contestazione al potere autocratico del PCC. La sua morte quindi suscitò grande commozione nel popolo cinese e portò moltissimi a riversarsi in piazza Tienanmen, dove fu affissa una sua grande effige a manifestazione del cordoglio nazionale. In seno a questo primo nucleo di manifestanti la rabbia verso il regime cominciò a svilupparsi in maniera più articolata, focalizzandosi sull'allontanamento di Hu Yaobang dalla politica, causato - secondo i manifestanti - dal suo disprezzo della corruzione e del nepotismo imperanti nel partito. In questa prima fase i giornali di partito e i grandi gerarchi cinesi non diedero troppo peso alle manifestazioni, convinti che si sarebbero dissolte naturalmente entro breve tempo. Contro ogni previsione, però, ciò non accade.

Poi il 26 aprile 1989 il Quotidiano del Popolo pubblicò un articolo in cui Deng Xiaoping, capo del comitato militare e leader de-facto della Repubblica Popolare Cinese, accusava aspramente i manifestanti di Tienanmen di complottare ai danni dello Stato. Le pesanti accuse, mosse sul più importante quotidiano cinese, scaldarono una situazione che pareva essere piuttosto controllata fino a quel momento e causarono una forte polarizzazione anche tra la popolazione. I manifestanti passarono quindi a chiedere pubblicamente tavoli di confronto con le autorità, sognando di poter dare inizio a un nuovo corso democratico per la Cina. Tuttavia, con loro grande frustrazione, vennero semplicemente e sistematicamente ignorati dal governo centrale e contenuti dalla violenza delle forze armate. Quando finalmente riuscirono ad instaurare un dialogo con alcune autorità del partito, queste si dimostrano sorde e prevenute nei confronti dei contestatori: c’è poco reale interesse ad ascoltare le richieste della piazza. Ma questo non demotivò i manifestanti, anzi, non fece altro che fomentare la loro rabbia e dare ancora più slancio alle iniziative.

Per una strana congiunzione del destino, proprio in quel periodo era prevista la visita a Pechino del Presidente dell’Unione Sovietica, Mikhail Gorbacev, la cui politica della "Glasnost” era stata fra i principi ispiratori delle contestazioni di Tienanmen. La visita era molto attesa e aveva una grandissima importanza politica, poiché da più di un decennio che le relazioni diplomatiche tra la Russia e la Cina erano a dir poco tese. L’occhio della comunità internazionale era rivolto verso la Cina: le strade di Pechino si erano riempite in poco tempo di giornalisti provenienti da tutto il mondo, interessati alla storica visita del leader sovietico. Di conseguenza i manifestanti di Tienanmen cercarono di sfruttare l’improvvisa visibilità internazionale per mettere pressione sul governo e spingerlo ad ascoltare le loro richieste. Le manifestazioni si intensificarono, così come gli scioperi della fame di molti studenti. Quest'ultime in particolare sensibilizzarono e molti cittadini della capitale, rendendoli solidali alla causa della manifestazione. Invece, le voci degli studenti continuarono a restare del tutto inascoltate dal Partito, sebbene un’ala del Partito, guidata dal Segretario Zhao Ziyang, non fosse così ostile a quanto richiesto dalla piazza. Ma la corrente conservatrice e paranoica che vedeva nella sommossa lo zampino di potenze estere prevalse nettamente. A capo di questa seconda fazione vi era il Primo Ministro Li Peng, che riuscì a convincere Deng Xiaoping della minaccia rappresentata dai manifestanti, capaci di mettere a rischio i principi e l’integrità della nazione. Un tale pericolo non andava assecondato, ma semplicemente spazzato via.

Il cappio intorno a Piazza Tienanmen cominciò a stringersi il 19 maggio, quando le autorità cinesi - con il preciso scopo di disperdere la protesta - promulgarono la legge marziale. L’unico a opporsi a questa misura drastica e a tendere una mano verso la decine di migliaia di studenti, operai e intellettuali è sempre Zhao Zyang, il quale si premurò persino di avvertire loro del pericolo che stavano correndo. Più tardi, il Segretario del Partito Comunista Cinese pagherà cara questa insubordinazione: prima con la destituzione e successivamente con gli arresti domiciliari a vita.

I dodici giorni seguenti rappresentarono un momento di stallo durante il quale l’esercito, a fronte della tenace resistenza dei manifestanti e della popolazione che li appoggia, resta indeciso sul da farsi. Fu Deng Xiaoping, il vecchio leader, a far muovere le acque, decretando l’uscita dalla stasi nel più violento dei modi possibili. La mattina del 4 giugno 1989, le vie del centro di Pechino si inondarono di sangue. L’esercito cinese avanzò risoluto nel cuore della Repubblica Popolare, abbattendo le fragili barricate innalzate dai manifestanti e dai cittadini. Verso le 10.30 del mattino cominciarono a udirsi le raffiche di mitragliatore e il lancio dei gas lacrimogeni. Molti civili rimasero uccisi, presi di sorpresa dall’assalto. Nella piazza si instaurò una strenua ma debole resistenza: nell'avanzata dell'esercito, neanche i manifestanti più pacifici furono risparmiati. Testimonianze raccontano che diversi mezzi corrazzati sfondarono le barricate e la resistenza del manifestanti, investendoli a decine. Moltissimi furono anche gli arresti, i pestaggi e le torture, così come le esecuzioni sommarie, dedicate soprattutto agli operai. Non vennero risparmiati neanche i familiari delle vittime, accorsi per soccorrere i propri cari o riportare indietro le loro salme: come raccontò l’allora inviato in Cina della BBC Katie Adie, si trattò di “fuoco indiscriminato”. Le stime sull’effettivo numero di decessi di quel giorno di giugno 1989 sono ancora incerte, ma, contando le purghe e le rappresaglie del governo seguite alla repressione, si contano probabilmente più di 10.000 vittime.

Dal 5 giugno il tempo tornò lentamente a scorrere a Tienanmen. Il Partito aveva riaffermato la sua egemonia autocratica sulla nazione e la primavera democratica cinese era stata definitivamente soffocata.