di Andrea Bernabale

LO SCISMA JUGOSLAVO-SOVIETICO


«Studiamo e prendiamo ad esempio il sistema Sovietico, ma stiamo sviluppando il socialismo nel nostro paese in forme in qualche modo differenti.»

(J. B. Tito, 1948)


Durante tutta la durata della guerra fredda, il mondo sovietico - e più in generale quello comunista - non fu certamente estraneo a crisi interne. La prima grande crisi trasnazionale, alla quale ne seguiranno altre che porteranno progressivamente alla disgregazione dell’URSS e alla caduta dei regimi comunisti, è rappresentata dal conflitto tra il Partito Comunista dell’Unione Sovietica (PCUS) e il Partito Comunista Jugoslavo (PCJ) nel 1948, un conflitto che rappresentò un vero e proprio scisma.

La ragione di questo scisma jugoslavo-sovietico risiede principalmente nella scarsa tolleranza dei sovietici e di Stalin, che ne rappresentava all’epoca la leadership, nei confronti dell’insubordinazione della Jugoslavia di Tito. Quest’ultimo, seppure fosse un fermo sostenitore del socialismo, non era certo un leader facilmente addomesticabile e, sin dai primi anni del dopoguerra, iniziava a rivendicare una certa autonomia da Mosca.

Il totalitarismo stalinista, che esercitava la propria autorità anche al di fuori dei confini geografici russi - in virtù del carattere internazionalista della dottrina che lo teneva in piedi - tuttavia non ammetteva forme alternative di socialismo, ma soprattutto non tollerava le aspirazioni egemoniche jugoslave nei Balcani che delineavano una politica estera divergente da quella di Mosca. Insomma, seppure jugoslavi e sovietici sostenevano entrambi la causa del socialismo, i due sistemi cozzavano nelle differenti finalità dettate dai rispettivi interessi. Questo scisma rappresentò una frattura nel mondo bipolare dell’Europa meridionale, favorendo l’emergere della Jugoslavia come Paese non allineato.

In realtà, nell’immediato dopoguerra, la fedeltà del PCJ a Mosca era pressoché indiscussa, tanto che il partito jugoslavo era ritenuto tra i più stalinisti presenti in tutta Europa e un fermo alleato dei sovietici, tant’è che i delegati jugoslavi ebbero un ruolo preminente nella sessione inaugurale del Cominform del settembre 1947.

Tuttavia, nei primi mesi del 1948 i rapporti si incrinarono e le prime divergenze emersero palesemente, venendosi a delineare le ambizioni jugoslave sull’Albania e sulla Grecia. Stalin non esitò ad accusare pubblicamente le aspirazioni espansionistiche jugoslave nei Balcani, decisamente mal digerite da Mosca, sebbene le accuse nascondessero, a loro volta, le ambizioni di incontrastata leadership da parte dei sovietici.

Un grande terreno di scontro tra Tito e Stalin fu proprio la guerra civile in Grecia, durante la quale emersero le divergenze tra le due leadership: mentre Tito foraggiava il fronte comunista greco, Stalin si asteneva per non ledere un precedente patto stipulato con Churchill, i cosiddetti “accordi percentuali”. Churchill, infatti, per evitare che l’URSS ottenesse il controllo sul Mediterraneo - da sempre prerogativa britannica - intendeva far disinteressare i sovietici da Grecia e Italia, in cambio di concessioni riguardo Bulgaria e Romania, già occupate dai sovietici. Allo stesso tempo, Tito nutriva forti aspirazioni circa il territorio greco e la creazione di una federazione balcanica.

Sebbene la guerra civile greca si concluse con la disfatta dei comunisti e la vittoria dei monarchici, la rottura tra Jugoslavia e URSS fu acclarata, tanto che i sovietici ruppero le relazioni diplomatiche e richiamarono i propri consiglieri militari dal territorio jugoslavo. Ne seguirono uno scambio di lettere tra i ministri degli Esteri e un attacco pubblico nel quale i sovietici accusavano i vertici jugoslavi di revisionismo ai principi socialisti. Nel giugno 1948, Tito rifiutò anche di prendere parte alla consueta sessione del Cominform che, connotandosi sempre più in posizioni filo-sovietiche, divenne in realtà una sorta di tribunale di accuse rivolte alla Jugoslavia. Per Mosca, la Jugoslavia era ora uno “Stato canaglia”. Stalin provò anche, ma senza successo, a far leva sugli “elementi buoni” all’interno del PCJ affinché rovesciassero la leadership titina e lo stesso Tito rischiò più volte di essere ucciso per mano di sicari. In una lettera a Stalin, Tito scrisse: «Smettila di mandare persone ad uccidermi. Ne abbiamo già catturati cinque, di cui uno con una bomba e uno con un fucile. Se non la smetti di mandarmi sicari, ne manderò io uno a Mosca e non avrò bisogno di mandarne un secondo

Quegli stessi jugoslavi stalinisti non furono certo risparmiati da Tito, che decise di combattere lo stalinismo sovietico con metodi stalinisti: i cosiddetti “cominformisti” subirono infatti sorti crudeli. Circa 55mila furono processati, altri 15mila furono spediti con biglietto di sola andata nel noto campo di concentramento di Goli Otok, anche conosciuta come “isola Calva” per via del suo aspetto roccioso e privo di vegetazione. Gli internati trovavano spesso la morte per tortura o per sfinimento.

Le relazioni tra i due sistemi socialisti deteriorarono sempre più, fino a che la propaganda sovietica arrivò a definire il PCJ un “covo di spie e assassini” e un “partito fascista”.

Dal canto suo, la Jugoslavia potè intraprendere più liberamente una politica autonoma e un socialismo alternativo, liberalizzando in parte la propria economia e riavvicinandosi diplomaticamente all’Occidente, ma pur sempre perseguendo una politica di non-allineamento ai due blocchi. Con la morte di Stalin, nel 1953, finalmente le due leadership ripresero a dialogare e i rapporti tra Jugoslavia e URSS furono definitivamente normalizzati durante l’epoca Chruscëv, che visitò Belgrado nel giugno 1955.

Tuttavia, fino al 1991, anno di dissoluzione dell’URSS, la Jugoslavia mantenne sempre una politica di distanza da Mosca.


LETTURE E APPROFONDIMENTI:


  • R. Service, “Compagni. Storia globale del comunismo nel XX secolo”, Laterza, 2011

  • J. Pirjevec, “Tito e i suoi compagni”, Einaudi, 2015