INCIPIT
In paese si sapeva poco di lui.
Indiscrezioni.
Chiacchiere delle impiegate del Comune.
Forse fantasie, bisognose di storie che il suo aspetto confermava.
La ragazza andava spesso a trovarlo. Si sedeva su una pietra appena fuori dal cortile. Da lì, dove si spalancava il mare. E il cagnolino correva a filo della scogliera per cercarlo. La ragazza lo lasciava fare, come se fosse un messaggero. E così, sempre a quell’ora, ne sentiva l’affanno che precedeva lo sbattere delle foglie.
Coltivava in quel suo campo improvvisato più di quanto gli servisse. Era il piacere di veder crescere. Strappava a quello spazio fra terra e pietra sempre nuovi confini.
Uno straniero.
L’italiano.
Un esule tardivo.
Quasi un ritorno.
La famiglia era vissuta in quella zona prima della sua nascita. Famiglia di profughi dall’avvento di Tito. Da quei paesi della Dalmazia, da sempre lontani da ogni traffico e così ostili agli approdi. Lì le origini slave si mescolavano appena appena ai colori della storia. E per questo da secoli erano patria di profughi. Vite che volevano farsi dimenticare.
La ragazza studiava in città, ma appena la corriera risaliva sino all’ingresso del paese il cane la trascinava verso quell’ultima altura, così isolata. Come se il vento continuo, ben più che la fitta corona di pini, la rendesse invisibile. Una segreta radura prima che la macchia scendesse in volo verso il mare. E lei sola. Sempre sola, con una vecchia zia che appena la sopportava. Sua madre era sparita nelle violenze della guerra. Cancellata. E se lei avesse solo visto, o ne fosse stata la protagonista più ambita, nessuno lo sapeva.
Un suo contatto del paese, eredità del passato, la conosceva per i loschi figuri con cui si accompagnava. “Te ne vai a scuola per andare in giro e fare la puttana!” sembrava dirle la zia. Forse era vero, sembrava ripeterle il coro. Tutto sembrava... Voci della sua mente nello scendere davanti agli uomini. L’osteria che la zia teneva in piedi per avere appena di che vivere. Ripetere l’ultimo anno e poi cercarsi un lavoro. Perché non quello allora, prima o poi... Ma intanto sedeva su quella pietra a scrivere equazioni. Protetta da libri impossibili, fitti di formule e teoremi.
L’aveva scoperta così, guidato dal suo cucciolo. Stagliata nel tramonto. Una corona di segni nel ritmo lento dei suoi capelli. Tutto un bianco tappeto di fogli e pietre nere. Pensieri sulla carta e nel vento. L’aveva visto senza neppure guardarlo. E gli occhi, così oscuri che il nero dei capelli sembrava vivere di quella luce, gli erano apparsi come laghi di pietra.
Continuava così da mesi. E lui le si era seduto a distanza, giorno dopo giorno, tramonto dopo tramonto. Presenza silenziosa. Prima che la sua voce gutturale, nell’italiano dal forte accento slavo, gli ingiungesse di non accarezzare il cucciolo. “Che poi si lega e tu no. Non è bene!”
E lei era stata il suo primo incontro, nel ritorno a quella terra.
Il ritorno...
In quel luogo in particolare. Soltanto un episodio nel suo passato. Un fotogramma fra i tanti, di luoghi sconvolti e senza pace. Neppure fra i peggiori.