(prima parte)
Ha dichiarato lo storico del Medio Oriente George Corm: «Il territorio libanese e la sua popolazione hanno il ruolo di uno spazio simbolico, arena gladiatoria o ring di pugilato in cui si affrontano i principali attori dei conflitti mediorientali, sovietici, americani, siriani, palestinesi e israeliani, iraniani e iracheni e così via. Il Libano è, dunque, diventato uno spazio conflittuale con una funzione geopolitica molto importante, giacché permette di evitare delle vere guerre regionali che potrebbero provocare uno scontro su scala internazionale. Non ci sono più state delle guerre tra arabi e israeliani dall'inizio del conflitto libanese».
La storica alleanza tra maroniti e drusi, la loro convivenza per molto tempo pacifica è all'origine della specificità libanese.
I maroniti, seguaci un tempo dell’eresia monotelita, fecero la loro comparsa nel Quinto secolo allorché si schierarono contro l'ortodossia bizantina. Perseguitati da Bisanzio così come dagli Ommayadi, furono loro i primi a trovare rifugio sulle montagne del Libano.
Vi imposero allora la loro autonomia, vantandosi di non essersi mai sottomessi alla jizya, l'imposta musulmana sui popoli del Libro.
Malgrado la loro integrazione nel seno della Chiesa cattolica intorno al Dodicesimo secolo, i maroniti conservarono un proprio rituale. Sempre sulla difensiva, fieramente legati al loro Particolarismo comunitario, questa popolazione di contadini e proprietari ha spesso cercato, di fronte alle minacce esterne, i propri alleati nell'Occidente cristiano, soprattutto presso la Francia.
La setta esoterica dei drusi è invece considerata eretica dai musulmani di stretta osservanza sunnita. Sarebbe stata fondata nel Decimo secolo sul culto del califfo Al Hakim, che aveva proclamato, oltre all’impostura di Maometto e di Gesù, la propria natura divina. I suoi sostenitori, reclutati fra la plebe del Cairo, perseguitati, trovarono anch'essi rifugio sulla montagna libanese.
La dottrina drusa, caratterizzata da elementi gnostici, è piuttosto complessa; si caratterizza soprattutto per la fede in un principio di ragione universale presente in ogni essere.
Il segreto del dogma è custodito da una comunità che non ammette la conversione.
Come per gli sciiti, le persecuzioni hanno ingigantito il fenomeno della tagiya: la dissimulazione della propria fede interiore che è divenuta una virtù.
Il conte di Volney, il più celebre viaggiatore del Diciassettesimo secolo, scrisse: «Quando si recano presso i turchi ostentano modi ottomani, entrano nelle moschee, praticano le abluzioni rituali e la preghiera. Poi vanno dai maroniti e lì seguono in chiesa e si segnano con l'acqua benedetta. E finiscono per morire senza essere né cristiani né musulmani».
Ancor più che per gli altri Stati della regione, il problema della “legittimità storica” del Libano va letto alla luce delle spartizioni territoriali seguite alla prima guerra mondiale. Nel 1920 la Francia, che nella logica degli accordi Sykes-Picot aveva ottenuto il mandato sulla Siria, proclamò la creazione di un Grande Libano, al fine di assicurare la stabilità e la sopravvivenza economica del piccolo Stato libanese e la protezione delle popolazioni maronite che lo avevano costituito in seno all'impero ottomano.
Contestata dalla Siria (che avrebbe riconosciuto il Libano solo nel 1991) la legittimità del nuovo Stato era ugualmente osteggiata da parte della popolazione musulmana, che accettava di malavoglia di essere integrata in un insieme territoriale ritagliato su misura per la peraltro debole maggioranza cristiana.
Eppure, esisteva un'entità libanese che si era formata in tempi lontani sulle montagne, ideale rifugio delle comunità eterodosse. Nel Sedicesimo secolo la montagna libanese formava infatti un emirato indipendente sotto la guida del capo druso Fakhr al Din, che sviluppò relazioni economiche e diplomatiche con i sovrani europei, come i Medici a Firenze. Beirut divenne allora una capitale. Il potere di Fakhr al Din poggiava sull’alleanza tra i drusi, dalle solide tradizioni guerriere, e i maroniti, contadini e proprietari terrieri. Per gli storici libanesi quel regno prospero rappresentò la prima manifestazione di un'entità statale libanese, fondata sulla simbiosi di gruppi minoritari. I legami tribali e settari, senza esser interrotti o sciolti, si distesero allora a profitto dell’emirato.
Nel corso dell'Ottocento il commercio con l'Europa, quello della seta in particolare, inaugurò in Libano un'era di prosperità economica e culturale. Si diffuse allora l’uso della lingua francese. Ma i diversi tassi di crescita fra le varie comunità (già allora) giocavano in favore dei maroniti e l'equilibrio tra drusi e maroniti si ruppe.
Una data simbolo, che fu anche una svolta: nel 1834 l’emiro Shihab si dichiarò maronita contro il suo antico alleato Jumblatt. Sotto l'influenza della lotta concorrenziale tra Francia e Inghilterra, la lotta tra i clan rivali finì per interrompere i rapporti tra le diverse comunità. Se infatti l'Impero britannico, alleato dell’Impero ottomano, giocava la carta drusa, la Francia sosteneva i maroniti.
A partire dal 1840 i massacri si susseguirono. La divisione dell’emirato in due province, l’una cristiana e l’altra drusa non fece che riattizzare una lotta che si sarebbe ben presto riproposta anche nelle forme di un conflitto sociale. Una rivolta di contadini maroniti contro i grandi proprietari, drusi e cristiani insieme, fu all'origine della carneficina del 1860, ancora viva nella memoria dei libanesi: più di trecento villaggi cristiani furono distrutti dai drusi e dai loro alleati ottomani. La Francia intervenne. Per risolvere i problemi dei duecentomila cristiani rifugiati nella piccola città di Beirut le potenze raggiunsero un compromesso.
Nacque così il Piccolo Libano a maggioranza maronita. Il suo governatore era un cristiano; nominato da Istanbul con il consenso di Francia e Inghilterra, era assistito da un consiglio. In quella occasione fu istituito anche un sistema di rappresentanza proporzionale: quattro maroniti, tre drusi, due greci ortodossi, un greco cattolico, un sunnita e uno sciita. Sensibili al principio della nazionalità, i libanesi entrarono però ben presto in rotta di collisione con l'Impero ottomano. Furono dei libanesi, spesso cristiani, a essere i primi sostenitori contro i turchi della Nahda, il Rinascimento arabo. E già allora c'erano delle divergenze: un Libano indipendente o un Regno arabo?
La logica degli accordi Sykes-Picot risolse il problema. Il primo settembre 1920, un mese dopo la sconfitta di Faisal a Maysalun, il generale Gouraud proclamava lo Stato del Grande Libano. Da un giorno all’altro la superficie del Libano raddoppiò.
L'aggiunta dei nuovi territori era destinata a sorreggere l’economia libanese, ma in tal modo la maggioranza cristiana del Piccolo Libano (oltre i tre quarti della popolazione) era fortemente ridimensionata.
Subito dopo la proclamazione, il Grande Libano a vocazione cristiana era già un'entità obsoleta, dal momento che i maroniti, una volta rimescolate le tendenze e le confessioni, rischiavano di diventare una minoranza entro breve tempo. L'antico asse druso-maronita degli scismatici del Libano divenne infatti minoritario (trentotto per cento) di fronte alle ortodossie bizantine e musulmane (cristiani di rito greco e sunniti) che insieme superavano il quarantadue per cento della popolazione.
Inoltre, il nuovo assetto territoriale fece emergere una comunità fino ad allora quasi assente dal panorama politico libanese: gli sciiti. .
Si trattava di un gruppo composto da emarginati. Contadini poveri scacciati dai drusi dalle montagne, gli sciiti si erano ritirati nelle regioni decentrate della Bekaa e del Sud, dominate da alcuni grandi feudatari. Il loro peso demografico, tuttavia, li imponeva ormai come la terza comunità del Paese.
All'esterno, il Libano era ugualmente minacciato dall’irredentismo siriano, per il quale il 1920 era l’anno della catastrofe, e la sconfitta di Faisal era strettamente collegata alla creazione del Libano.
La Siria mal digeriva di vedere il suo accesso al mare bloccato dalle nuove divisioni territoriali: a nord il golfo di Alessandretta, lo sbocco naturale di Aleppo, seconda città della Siria, venne ceduto dai francesi alla Turchia nel 1939. Soprattutto, di fronte a Damasco, distante da Beirut appena centoventi chilometri, il Libano dirottava i traffici commerciali a proprio vantaggio, ma sembrava incapace di chiudere i suoi porti a un Israele super armato, che occupava le alture siriane del Golan, chiave della piana di Hauran.
Dopo il 1967 la frontiera “attiva” dei due protagonisti della regione si spostò dunque dal Golan (militarmente ormai perduto) verso il cuore del territorio libanese, dove la Siria non ha mai cessato di voler tornare, sostenendo che siriani e libanesi non erano che «un popolo in due Stati».
Malgrado ciò, stretto tra la Francia e il mondo arabo, tra l’isolazionismo dei cristiani e la solidarietà degli arabi, il Libano riuscì a emergere sulla base di un compromesso storico tra il maronita Bishara al Khuri e il sunnita Riyad al Suhi, rappresentanti delle due più importanti minoranze etniche.
Il Patto nazionale del 1943 affermava, infatti, che il Libano era un Paese «a fisionomia araba». Questa strana formula illustrava la duplice rinuncia che era alla base di quel patto: i cristiani si sforzavano di rinunciare alla protezione della Francia, i musulmani alle loro prospettive siriane o arabe.
A partire dal 1950 il Libano ruppe la sua unione doganale con la Siria e sviluppò, in una atmosfera liberale, quell’economia di servizi che fu all'origine della sua prosperità: importazioni dall'Europa, esportazioni verso il mondo arabo.
Ma il Libano era diventato per questo una nazione? Come ha fatto notare il giornalista libanese Naman Tarcha: «Due negazioni non fanno una unione».
Il patto infatti stabiliva anche una spartizione dei poteri tra le comunità: ai maroniti toccava la presidenza della Repubblica, ai sunniti quella del Consiglio, agli sciiti quella della Camera dei deputati, ai greci ortodossi il ministero degli Affari esteri e così via. A dispetto del loro ruolo nella storia libanese, i drusi erano relegati al sesto posto tra le comunità del Paese.
E nel 1975, escluso dalla lotta per la presidenza della Repubblica, Kemal Jumblatt si sarebbe posto alla guida della rivolta.
(Seconda parte)
La guerra del 1956 e, di conseguenza, l'influenza di Nasser furono all'origine della prima crisi libanese.
La guerra del 1967 e la nascita della resistenza palestinese finirono poi per dividere il Paese del cedro.
Il mondo arabo sconfitto impose infatti al Libano di accettare oltre che il peso dei nuovi senzatetto che vennero a ingrossare le fila dei centocinquantamila profughi del 1949, anche lo sforzo della guerra di resistenza palestinese. Il territorio libanese divenne così una base armata per le organizzazioni di guerriglieri palestinesi.
Questo Stato nello Stato venne riconosciuto dagli accordi del Cairo del 1969.
E poi, dopo l'espulsione dalla Giordania nel settembre 1970 (Settembre nero), l’Olp rafforzò inoltre le sue basi nel Libano meridionale. Di fatto l’intera regione passò sotto il controllo dell’Olp.
Nella terra di al Fatah, i palestinesi facevano le loro leggi e subordinavano ai loro obiettivi nazionali la sovranità del tutto teorica dello Stato libanese. Questa brutale intrusione in un Paese dai precari equilibri fece precipitare lo scoppio delle tensioni.
Come i Paesi arabi, anche Israele scaricò il peso della resistenza palestinese sulle fragili spalle libanesi, dichiarando che avrebbe considerato responsabile qualunque Stato il cui territorio fosse servito da base per i terroristi. Nel 1968, come rappresaglia contro le incursioni palestinesi che partivano dal Libano meridionale, lo Tsahal distrusse l’intera aviazione commerciale libanese all'aeroporto di Beirut.
Come impedire a Israele, che aveva sconfitto Nasser, di violare la sovranità libanese? E come impedire alla resistenza palestinese di condurre la sua lotta di liberazione? Anello debole del sistema regionale, il Libano (non meno dei palestinesi) era stretto nella morsa di Israele e dei Paesi arabi.
L'intrusione dei palestinesi inasprì anche i contrasti etnici. Il piccolo popolo maronita, segnato dal ricordo delle persecuzioni, rifiutò, infatti, di integrarsi in uno spazio territoriale dove si sentiva sottomesso. Trasformò l’esser maronita in un dogma: il Libano era maronita, non arabo.
Negando l'evidenza culturale, molti rifiutarono la propria condizione di arabi per dichiararsi “fenici” o “discendenti di Creso”. Si manifestava così la tentazione sionista di tornare a un Piccolo Libano, esclusivamente cristiano. _
I falangisti di Pierre Gemayel, che erano comunque ben lontani dal rappresentare l'insieme della parte cristiana (alle elezioni legislative del 1972 la Falange ebbe solo nove deputati eletti) cominciarono a reclutare adepti in massa nella periferia orientale di Beirut. Con la guerra, la Falange sarebbe arrivata ad arrogarsi la rappresentanza della quasi totalità dei cristiani.
Nell'aprile del 1973 un commando israeliano assassinò a Beirut tre dirigenti palestinesi. La tensione crebbe ancora finché nel 1975 esplose in seguito a uno scontro a fuoco tra palestinesi e falangisti.
Le guerre del Libano cominciarono nei quartieri popolari di Ain Romaneh (cristiano) e Shiah (sciita e palestinese). Tra il 1975 e il 1990 avrebbero lasciato un saldo di quarantacinquemila morti, diciottomila dispersi e circa duecentomila feriti.
La lotta per il potere si sviluppò anche all’interno delle comunità. Così l'egemonia dei falangisti nel campo cristiano fu ottenuta con il sangue: nel 1978 furono massacrati Tony Frangieh, i suoi partigiani e la sua famiglia. Da allora il patriarca del Libano settentrionale, Suleiman Frangieh, divenne il maggiore alleato della Siria contro le Forze libanesi maronite.
Venne poi la volta di Chamoun, le cui “Tigri” furono sconfitte in una serie di combattimenti violenti.
In seno alla comunità sciita, poi, i gruppi Amal e Hezbollah sì sarebbero disputati l'egemonia in nome di concezioni politiche antagoniste. Mentre il movimento di Nabih Berri, che aveva espulso la sinistra marxista, lottava per un maggiore peso politico degli sciiti all’interno del sistema libanese (cioè per la costruzione di un nuovo polo maronito-sciita), il gruppo Hezbollah, sostenuto e inquadrato dagli iraniani, pretendeva di instaurare una repubblica islamica sul modello della rivoluzione khomeinista.
Ben presto le milizie diventarono dei veri e propri eserciti, dotati di artiglierie e mezzi corazzati sofisticati. Gli effimeri accordi del 1985 tra Forze libanesi (maroniti), Amal (sciti) e Partito socialista progressista (drusi) consacrarono in modo inequivocabile il loro ruolo preponderante: erano le milizie, e non il governo né le stesse forze politiche tradizionali, a detenere il potere locale. E, per converso, impossibilitati a disporre di un potente braccio armato, la voce dei sunniti e dei cristiani di rito greco sembrò soffocata durante tutto il periodo della guerra.
Eppure, la logica confessionale non corrispondeva completamente alla realtà: tra la gioventù cristiana, infatti, molti si unirono ai ranghi dei “progressisti islamici”, mentre si trovavano dei musulmani in seno alla destra cristiana. Al principio della guerra ci si batteva ancora per una certa idea di nazione, per un ideale di giustizia. Furono gli stessi combattenti che a poco a poco imposero una linea confessionale. Fatta eccezione per alcuni estremisti (l'Ordine dei guardiani del cedro tra i maroniti o il “partito di Dio” Hezbollah, uscito dalle fila degli sciiti) le guerre del Libano non sono mai state delle guerre di religione. Esse nacquero dalla congiuntura dei conflitti sociopolitici e internazionali in un Paese in cui lo Stato, istituzionalmente diviso in caste, si rivela incapace, di fronte a una crisi sempre più grave, di assolvere alla sua funzione di arbitro.
Fu Suleiman Frangieh, presidente della repubblica dal 1970 al 1976, a fare per primo appello alla Siria. Il campo nazionalista rischiava, infatti, di essere battuto dalle milizie druso-palestinesi, più avvezze al mestiere delle armi. Per quanto la Saika, una formazione palestinese filosiriana, fosse impegnata dalla parte dei progressisti, l'occasione di un intervento in Libano sotto la copertura di una forza araba di pace era troppo ghiotta per essere rifiutata da Assad.
Il regime di Damasco paventava, infatti, una vittoria della contestazione a sinistra e, soprattutto, di Yasser Arafat. Il nazionalismo palestinese mal si conciliava con il sogno di una Grande Siria. Soprattutto, nell’appello di Frangieh, la Siria vide la possibilità di recuperare l'egemonia perduta.
Nell'aprile del 1976 l'intervento siriano segnò una svolta nella guerra. Quell’ingerenza sarebbe servita come un pretesto per il moltiplicarsi dei raid israeliani, che nel 1978 portarono a una prima invasione del Libano.
Da allora ciascun occupante avrebbe addotto a pretesto la presenza dell'altro per giustificare il proprio intervento.
Di fatto le guerre civili in Libano sono state alimentate dal sostegno economico e militare degli altri Paesi della regione, a loro volta sostenuti dalle grandi potenze (Unione Sovietica e poi Russia, Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Israele e Turchia).
Abdoul Salam Mohamed, ex soldato delle Forze Unite, delle milizie che raggrupparono durante la guerra civile libanese il movimento nazionale libanese e tutte le formazioni palestinesi: «Eravamo addestrati a portare le armi con i palestinesi, perché avevamo un obiettivo comune, difendere il sud, perché sono del sud Libano. Sono stato preparato per difenderci da Israele e, invece, all'improvviso è scoppiata una guerra civile all’interno del Libano, e questo non l’aspettavamo. Avevo diciotto anni. Non ho avuto altra scelta che combattere. L'ho fatto fino al 1982. Poi ho capito. Non ci battevamo per degli ideali. Eravamo divenuti strumento di qualcun altro, che di sicuro non voleva il nostro bene. Oggi mi vergogno a essere stato strumentalizzato. Di essere stato la mano che ha sparato a molti miei connazionali. Purtroppo, la nostra storia, la storia del Medio Oriente è così. Quando capiremo che dobbiamo iniziare a liberarci dalle catene imposteci perfino da coloro che dovrebbero essere i nostri condottieri allora state tutti certi che il Medio Oriente diventerà un'oasi di pace».
L'alleanza momentanea tra la Siria e le Forze libanesi non poteva durare. Il viaggio del Presidente egiziano Anwar al Sadat a Gerusalemme nel 1977 riavvicinò siriani e palestinesi. Un anno dopo l'intervento di Damasco, gli alleati di un tempo si stavano già combattendo fra loro. Mentre la superiorità dell'esercito siriano s'imponeva sulla maggior parte del Libano, si formava a Beirut Est una roccaforte cristiana, tenuta dalle forze falangiste.
In alcuni cristiani la tentazione di ricorrere a Israele, in lotta contro le basi dell’Olp nel Libano meridionale, divenne forte. Il maggiore Saad Haddad formò una propria milizia antipalestinese, l'Esercito del Libano meridionale (Als) e si appellò a Israele.
Nel marzo del 1978 Israele invase il Libano meridionale fino al fiume Litani. Era il “giusto confine” rivendicato nel 1919 dai rappresentanti sionisti al Congresso di Versailles.
Conseguente agli accordi di Camp David tra Israele e l’Egitto, il ritiro israeliano dal Sinai, compiuto il 28 aprile 1982, spostò poi il centro di gravità del conflitto verso nord, dove Tel Aviv poteva ormai opporre maggiori mezzi alla minaccia siriana e palestinese. Al tempo stesso lo Stato ebraico rafforzava la propria morsa sui Territori Occupati.
Nel maggio del 1980, dopo la rottura dei negoziati sull’autonomia dei palestinesi, il governo Begin rilanciò la politica degli insediamenti. Nel dicembre 1981 fu annesso il Golan siriano. Il confronto si ripropose allora in Libano, dove erano ancora attive le basi di Arafat.
II 6 giugno 1982 Ariel Sharon, ministro della Difesa del governo Begin, lanciò l'operazione “Pace in Galilea”. Se l’obiettivo militare dichiarato era quello di respingere la guerriglia che minacciava il nord d'Israele almeno a quaranta chilometri oltre la frontiera, il governo israeliano riconobbe ben presto che si trattava in realtà di eliminare «ogni presenza fisica o simbolica, sotto forma militare o amministrativa» dei palestinesi in Libano.
Alla fine del 1982 Beirut fu sconvolta da un terribile assedio di due mesi nel corso del quale la popolazione civile subì decine di migliaia di morti. E così centoquarantamila palestinesi (i due terzi di quanti vivevano nei campi profughi del Libano) dovettero fuggire verso il nord e la valle della Bekaa, sotto il controllo siriano.
A quel punto il confronto tra la Siria e Israele sembrò inevitabile. In realtà esistevano tra i due avversari delle convergenze oggettive, a cominciare dalla rivalità tra la Siria, decisa ad affermare la sua presenza sul Libano, e l’Olp, che intendeva conservare nel Paese le proprie basi.
Come le altre potenze occidentali, Israele si impantanò in Libano. Nonostante il sostegno statunitense, Tel Aviv non riuscì a imporre un accordo di pace sul modello di quello di Camp David. Inoltre, il suo intervento contribuì a ingigantire la minaccia del terrorismo sciita.
Dopo aver combattuto i palestinesi prima del 1982, gli sciiti opposero una resistenza durissima all'ordine imposto da Israele. Una guerriglia cruenta che si legò alla crisi degli ostaggi occidentali e contribuì al ritiro dello Tsahal.
Il massacro dei civili palestinesi nei campi di Sabra e Chatila, perpetrato da forze miliziane in una zona controllata dall’esercito israeliano, divenne il simbolo di quella “sporca guerra”, contestata anche all’interno di Israele (quattrocentomila israeliani, il dieci per cento della popolazione totale di allora, manifestarono contro Sharon e l'impresa libanese). Dopo aver ottenuto l’allontanamento dei guerriglieri palestinesi, Israele si ritirò a sua volta, non senza aver organizzato delle nuove zone di sicurezza.
Con la sua improvvisa ritirata, Tel Aviv provocò un riassetto etnico del territorio. Nel settembre 1983 la battaglia dello Chouf mise di fronte le milizie druse e quelle maronite. La sconfitta di queste ultime provocò un esodo dei cristiani verso il Libano meridionale. E la concentrazione dei villaggi cristiani in quella regione permise non solo di raddoppiare la presenza dell’Als contro le infiltrazioni di terroristi in territorio israeliano, ma anche di rafforzare un cuneo tra le zone sciite e druse, potenzialmente ostili.
Migrazioni sembrano, peraltro, corrispondenti alla strategia a lungo termine di Israele.
Nel febbraio del 1982 un funzionario israeliano al ministero degli Esteri dichiarò: «La decomposizione del Libano in cinque province è ormai un fatto compiuto. I drusi formeranno il loro Stato, che forse si estenderà sul nostro Golan e in ogni caso sull’Hauran (la regione a sud-ovest della Siria, nda), uno Stato che a lungo termine garantirà la pace e la sicurezza della regione. È un obiettivo che è già alla nostra portata».
Il ritiro parziale di Israele, le guerre tra le milizie e, soprattutto, il fallimento della presidenza Gemayel aumentarono l’ingerenza siriana negli affari del Libano. Nel 1990, giunto alla fine del suo mandato, Amin Gemayel si trovò nell’incapacità di procedere alla designazione del suo successore e affidò le redini del potere al generale cristiano Aoun. Questa decisione, contraria al patto del 1943 finì per dividere il Paese e indebolire la fazione cristiana. Michel Aoun, infatti, aveva proclamato la volontà di scacciare l’esercito siriano e di eliminare il potere delle milizie. Questi, quindi, si appoggiò ai falangisti.
Gli accordi di Taéf, ratificati dal parlamento libanese, segnarono la sconfitta del generale cristiano, che nel settembre del 1990 dovette rifugiarsi nell’ambasciata francese. Gli accordi trovarono la loro consacrazione con l'elezione di un nuovo presidente e con l'accordo siro-libanese del maggio 1991, che legò il destino dei due Paesi.
La “pax syriana” sembrava essersi imposta e il Libano si schierò sulle posizioni della Siria nel quadro del processo di pace con Israele. Essa permise la ricostruzione di una Grande Beirut, libera dalle milizie.
Ma le guerre non erano finite. Nell'aprile 1996, in risposta ai nuovi attacchi di razzi Katiuscia nel Nord della Galilea, l'allora governo Netanyahu lanciò l'operazione “Uva della collera” contro Hezbollah. Nuovo esodo, questa volta in quattrocentomila fuggirono dal sud. Anche perché l'Esercito israeliano bombardò un campo profughi a Cana: novantuno morti, in gran parte donne e bambini, certificati da un rapporto dell'Onu, condannerà «il cannoneggiamento deliberato da parte dell’artiglieria di Isahal». (continua)
fonte: Franco Fracassi - Guerra alla pace