18 maggio 2018, ore 10.30
Aula Mario Baratto, Ca’ Foscari
Università Ca' Foscari, Venezia
(l'annuncio della lezione; Intervista di "Cafoscarinews").
Magnifico Rettore, chiarissimo professore, cari studenti.
E’ un onore e un piacere per me essere qui oggi all’Università Cà Foscari, e ringrazio per l’invito il rettore, professor Michele Bugliesi, e il professore Francesco Zirpoli, delegato del Rettore ai dottorati di ricerca. Come il Rettore ha ricordato nella sua introduzione, eccessivamente generosa nei miei confronti, le mie ricerche attuali vertono principalmente sui temi della corruzione e della governance pubblica, e ritengo che, in certe occasioni, le violazioni dei principi dell’etica della ricerca siano assimilabili a fenomeni corruttivi. Ragionando su cosa si possa fare concretamente per contrastare tali violazioni, certe lezioni apprese negli studi sulla lotta alla corruzione risultano utili.
Ma al tempo stesso, devo chiarire che nel corso del tempo sono stato coinvolto personalmente in alcune vicende per noi rilevanti, e nei confronti delle quali non sono un osservatore distaccato. Mi sforzerò affinché di volta in volta sia chiaro se vi sto proponendo ragionamenti che potranno essere giusti o sbagliati, ma che svolgo in quanto studioso, o invece punti di vista rispetto ai quali sbaglierei a sventolare le mie credenziali accademiche.
Anticipo, tra le conclusioni che trarrò, quelle che vi riguardano più direttamente. Sosterrò che i professori universitari, e quindi voi se è questo è il lavoro al quale ambite, inevitabilmente devono dare una risposta personale a due domande. La prima riguarda come condurre il lavoro di ricerca, è abbastanza semplice e penso che ci troveremo d’accordo su quale sia la risposta corretta. La seconda domanda, invece, è di quelle difficili. Ha a che fare con l’idea che abbiamo di noi come ricercatori, e anche del nostro ruolo sociale - nostro individualmente, e più in generale dell’università. Su come rispondere, io ho la mia idea e l’argomenterò, ma ammetto che si tratta di una questione complessa.
Per chi fa il nostro mestiere, queste due domande sono ineludibili. E nei confronti della seconda, quella difficile e che molti credono di poter evitare, al massimo si può pensare di nascondere la testa sotto alla sabbia. Ma anche in quel modo, si finisce per rispondere, e a mio avviso, nel modo sbagliato.
Dobbiamo però procedere per passi. Per primo, chiarirò brevemente che cosa intendiamo per “falsificazione e fabbricazione dei risultati” e per plagio. Poi argomenterò che la questione etica è davvero centrale nel nostro lavoro. La situazione dell’accademia italiana, per quanto riguarda l’etica della ricerca, rappresenta un caso di fallimento istituzionale. Per illustrarne le caratteristiche considererò due casi celebri ed esemplificativi. Poi discuteremo che cosa si possa fare concretamente per migliorare la situazione.
Ci attende un buon lavoro, per cui, iniziamo.
Fabbricazione, falsificazione, e plagio: le violazioni dell'etica della ricerca
Vogliamo discutere le pratiche di Falsification, Fabrication, and Plagiarism, o di “FFP” - acronimo che d’ora in poi utilizzerò per semplicità. Consideriamo questi concetti uno alla volta. Di essi esistono numerose definizioni molto simili tra loro; per i primi due concetti, faccio riferimento alla voce "scientific misconduct" di Wikipedia.
La “fabbricazione” consiste, in buona sostanza, nell’inventarsi i risultati – per esempio, di un esperimento. Si tratta di una definizione netta che non merita lunghi commenti, e quindi passiamo oltre.
La falsificazione consiste nel “manipolare materiale relativo alla ricerca, strumenti o processi, o modificare o omettere dei dati o risultati con la conseguenza che la ricerca realizzata non è correttamente rappresentata nel modo in cui viene registrata”
La definizione di falsificazione dei risultati apparentemente non presenta ambiguità. Parrebbe di dire, o che falisificazione, manipolazione, vi è stata, oppure non vi è stata. Nei fatti, il confine tra quel che è falsificazione e quel che non lo è non è così netto. Si tratta di una questione complessa che andrebbe considerata con attenzione, e che mi limito ad indicarvi per mezzo di un esempio concreto. Nelle discipline che utilizzano tecniche di analisi statistica – più precisamente, di statistica inferenziale - negli ultimi anni è montato il dibattito sul cosiddetto “p-hacking”. Il “p” sta per “p-value” che, come sa chi ha studiato un po' di statistica, ha a che fare con la confidenza con la quale, in seguito a un’analisi campionaria e utilizzando gli strumenti di quel che si usa chiamare la “teoria della verifica di ipotesi”, ci incliniamo a rifiutare una certa affermazione. Avere un “p-value” basso spesso corrisponde a trovare un effetto desiderato tra più fattori, nel senso che evidenzia un risultato che si reputa interessante, e quindi più facilmente pubblicabile. Perché più pubblicabile? Facciamo un esempio scherzoso: se si trovasse che le persone che hanno segno zodiacale sagittario, e ascendente in pesci, vivono più a lungo e sono significativamente più simpatiche rispetto alla media (p-value ridotto), si tratterebbe di una scoperta sensazionale e ottime riviste scientifiche farebbero a gare per pubblicarla. Viceversa, se risultasse che tale affermazione non è vera, il risultato sarebbe totalmente privo di interesse, e persino porterebbe a dubitare della sanità mentale del ricercatore occupato in simili facezie. Vi è, come si suol dire, un “publication bias” da parte delle riviste scientifiche, che preferiscono certi risultati ad altri.
Mani “esperte” sanno “facilitare” tale p-value ridotto, senza falsificare i risultati in senso stretto. Come ebbe a dire Ronald Coase (Nobel per l’economia) “if you torture the data long enough, it will confess”. Ma il confine tra p-hacking e falsificazione è spesso labile. Ecco allora un bel conflitto di interessi: “publish or perish” si dice, e quindi, c’è spazio non solo per la disonestà, ma anche per dosi crescenti di pragmatico opportunismo, e di scaltrezza, nel portare avanti il proprio lavoro. Penso che in tutti i campi della ricerca si possa dire che esistono delle “manipolazioni ambigue” che permettono al ricercatore di avvantaggiarsi nella gara per pubblicare, e al tempo stesso, di non passare come disonesto, o come chiaramente disonesto. Il tema senz’altro meriterebbe un’analisi più approfondita; vi segnalo l’indagine giornalistica, apparsa recentemente sul New York Times a firma Susan Dominus, su un caso celebre di p-hacking che coinvolse la ricercatrice Amy Cudding. Per lei andò a finire male, al punto che ha cambiato mestiere.
Su questo tema, il mio consiglio è innanzitutto di prendere atto della complessità della questione, del fatto insomma che tra “falsificazione” e “non falsificazione” non vi è un confine netto. E di essere prudenti. Pensate che, come si suol dire, la vita è lunga: la reputazione professionale è quanto abbiamo di più importante, e anche volendo prescindere da ogni considerazione di ordine etico – e, sottolineo, prescindere non possiamo - rischiare di barattarla per vantaggi di carriera immediati non è una buona idea.
Passiamo ora al tema del plagio, sul quale mi soffermerò maggiormente:
Il plagio è “la presentazione del lavoro altrui (dati, parole o teorie) come se si fosse l’autore e in assenza di un riconoscimento appropriato”. E’ la definizione (tra le tante, quasi identiche, dispobili) adottata da COPE – Committee on Publications Ethics. Il COPE raggruppa oltre 10.000 membri in tutto il mondo che coprono tutte le aree scientifiche, e tra di essi rientrano: Oxford University Press, Cambridge University Press, Elsevier, Springer, Wiley, e Royal Society. Segnalo questi numeri e queste “firme” prestigiose semplicemente per indicare come il divieto di plagio, e la definizione del fenomeno, siano comuni in tutto il mondo.
La mancanza del riconoscimento della paternità di un testo, o di una sua porzione, è l’aspetto cruciale che definisce un plagio. Si notino al riguardo le seguenti questioni:
1) Le citazioni vanno sempre virgolettate. Non è sufficiente che la fonte sia genericamente citata in bibliografia (si veda per esempio questo documento della Tufts University).
2) Anche le parafrasi costituiscono plagio: non basta modificare un testo altrui cambiando alcune parole, verbi, eccetera, per evitare un plagio. Così per esempio, secondo l’Università di Oxford, che include nel plagio la “parafrasi” ottenuta “cambiando alcune parole o il loro ordine” o anche solo il “seguire da vicino la struttura di una argomentazione”: “Parafrasare gli scritti altrui alterando alcune parole e cambiando il loro ordine, o seguendo da vicino la struttura dell’argomentazione, è plagio, se non si dà il riconoscimento dovuto all’autore del materiale che si sta utilizzando”. .
3) Il plagio “accidentale” è improbabile. Infatti, negli ambienti accademici sani, l’accusa di plagio è considerata infamante, e anche per questo i professionisti seri lavorano con attenzione e metodo per non pregiudicare la loro reputazione. E tale attenzione e metodo si imparano, quando non da studenti, nelle primissime fasi della carriera.
4). Anche il plagio accidentale – per esempio, la caduta delle virgolette in fase di revisione del testo – è comunque plagio. Si veda per esempio la definizione di plagio presso l’Università di Oxforddefinizione di plagio presso l’Università di Oxford, che in modo netto prevede provvedimenti disciplinari nei confronti dello studente anche nei casi di “plagio frutto di disattenzione”: “Il plagio può essere intenzionale, derivante da incuria (“reckless”), o accidentale. Il plagio intenzionale o derivante da incuria costituisce una violazione delle regole in vigore per gli esami.
5). Vi è plagio anche se il plagiato è d’accordo. Per esempio, la definizione in vigore all’Università di Oxford precisa che vi è plagio “con o senza il suo consenso”. Soffermiamoci brevemente su questo aspetto. Non molto tempo fa, in un caso celebre, il plagiato, legato al plagiario da una relazione di clientela, ha dichiarato che, in buona sostanza, era d’accordo. Insomma, ha tentato di “coprire” il suo dominus. Ma un plagio non è un semplice “furto di idee”, in cui il “crimine” si esaurisce nel momento in cui il derubato dichiara di non essere tale. Il plagio, come argomenterò tra poco, arreca un grave danno sociale. Il plagiato è senz’altro la vittima immediata del plagio, ma è anche una tra le tante. Ne parleremo.
6) Il modo in cui si pubblica un lavoro è del tutto irrilevante al riguardo. Ancora una volta citando le regole in vigore all’Università di Oxford, la definizione di plagio vale per “Qualunque materiale scritto, pubblicato o non pubblicato, sia in forma di manoscritto, stampato o in formato digitale”
7) E’ vietato plagiare anche se stessi. Si consideri che tali plagi permettono una impropria “moltiplicazione delle pubblicazioni” a partire da una singola, quando non in vere e proprie truffe – per esempio, quando si ripubblichino come ricerche accademiche, adattandoli, rapporti di ricerca commissionati da soggetti esterni all’università, spesso, in questi casi, con un conferimento dei diritti d’autore. Non appaia questo un esempio peregrino, in un mondo accademico che è segnato da molte commistioni di questo tipo, almeno all’interno di certe discipline.
Attenzione: non è certo vietato ripetersi, se lo si ritiene necessario. Quel che si richiede è trasparenza verso il lettore. Eccone un esempio, tratto da un saggio che stavo leggendo pochi giorni orsono, che è il testo pubblicato di una lezione pubblica. Iniziando una nuova sezione, l’autrice scrive in nota a pié di pagina. “The next few paragraphs are drawn from a speech I delivered at Georgia State Law School. See Heather Gerken, Keynote Address: Lobbying as the New Campaign Finance, 27 G A . S T . U. L. R EV . 1155 (2011).” (Gerken, Heather K. Boden Lecture: The Real Problem With Citizens United: Campaign Finance, Dark Money, and Shadow Parties. Marquette Law Review Volume 97, Issue 4 Summer 2014). E Legittimo e corretto: così si deve fare.
8) I regolamenti interni delle università sanzionano esplicitamente il plagio da parte degli studenti, e a fortiori dei docenti, che anzi sono chiamati a far rispettare tali regole, sia per mezzo di un adeguato controllo degli elaborati che valutano, sia con l’esempio. Se quanto deve esser noto e praticato dagli studenti potesse sfuggire all’attenzione di professori “disattenti”, i professori tradirebbero il loro ruolo e magistero.
Tutto questo è plagio. E ora, una precisazione che dovrebbe essere ovvia: tutti i casi di plagio sono ugualmente gravi? Ovviamente no! Un citazione dimenticata è estremamemente meno grave rispetto, per esempio, al furto di numerose pagine. E' anche per l'esigenza imprescindibile di graduare le colpe che l'accertamento dei casi non può rimanere segreto, un tema molto importante e sul quale tornerò.
La rilevanza della questione etica
Vi sono due ragioni per cui la questione etica è al centro del nostro lavoro. La prima di esse è riassumibile per mezzo di uno slogan: “noi siamo quel che pubblichiamo”. Nel senso che dalle pubblicazioni dipende la nostra reputazione, che è un elemento centrale nel funzionamento del sistema della ricerca scientifica. Le pratiche di FFP costituiscono un “furto di reputazione” e minano alla base il nostro sistema.
La reputazione dei ricercatori è un elemento essenziale di ordinamento del sistema della ricerca. Per un verso, la reputazione permette di pesare le opinioni: diamo più credito all’opinione professionale di un esperto riconosciuto, rispetto a chi tale reputazione non ha. E secondo, la reputazione è parte essenziale di un sistema di allocazione delle risorse. Al di là delle storture che ogni sistema accademico ha, e che possono essere più o meno accentuate, la reputazione dei ricercatori gioca un ruolo molto importante nelle decisioni di assunzione, di avanzamento di carriera, e nell’allocazione dei fondi di ricerca.
E nel nostro mondo, la reputazione individuale dipende in buona misura dalle pubblicazioni, che pesiamo in base alla reputazione delle riviste in cui appaiono, o delle case editrici che pubblicano le monografie. E dipende dalla reputazione del datore di lavoro: il segnale riguardo alla qualità professione che conferisce l’essere professore ad Harvard è ben diverso rispetto a un qualche “community college”. Si tratta di un “sistema reputazionale” articolato e molto sofisticato, anche se, in un certo senso vivendoci in mezzo, tendiamo a non prestarvi molta attenzione.
Un autore latino non molto conosciuto, un tale Publilius Syrus, affermò che “Bona opinio hominum tutior pecunia est”, ovvero “Una buona reputazione ha più valore del denaro”. L’idea di denaro ci porta nel campo di gioco degli economisti. Per gli economisti, il sistema dei prezzi ha un ruolo informativo cruciale per permettere ai mercati di funzionare. Può sembrare ovvio, ma come minimo è un’ovvietà dalle numerose ripercussioni. I prezzi sintetizzano mirabilmente una quantità enorme di informazione, e ci permettono di prendere decisioni – di acquisto o di vendita – in buona sostanza ignorandole.
E così, nel sistema accademico, un analogo ruolo di “sintetizzatore di informazioni complesse” è giocato dalla reputazioni dei diversi attori: gli individui, le pubblicazioni, le riviste, gli editori, e le istituzioni di ricerca. Ed è un sistema che, al pari dei prezzi nei mercati, riassume una quantità enorme di informazione, permettendoci di risolvere – almeno in via approssimativa – un problema cognitivo che altrimenti sarebbe intrattabile, molto più oggi rispetto al passato. Perché è aumentato il numero dei ricercatori e delle pubblicazioni rilevanti, che non potremo mai leggere tutte. Abbiamo bisogno di “euristiche” per orientarci, e le informazioni reputazionali ne costituiscono l’ingrediente essenziale.
Chi fabbrica o falsifica risultati, o plagia, e pubblica in modo fraudolento, è un ladro di reputazione. E dato il valore essenziale della reputazione come meccanismo ordinante del sistema della ricerca scientifica, chi ruba reputazione, mina il nostro sistema nelle sue basi. Per questo, non riesco a pensare ad azioni più distruttive nel confronto dell’accademia. Per questo, quando le università non reagiscono adeguatamente nei confronti dei casi di FFP, assistiamo a un caso di grave fallimento istituzionale.
Passiamo alla seconda ragione per cui l’etica della ricerca è al centro del nostro lavoro. Anche in questo caso, la riassumo con una specie di slogan: le nostre società sono innervate da sistemi sociotecnici complessi.
Viviamo in società complesse, molto più oggi rispetto al passato. Una modo in cui tale complessità si manifesta è nella presenza di sistemi sociotecnici (un concetto che prendo a prestito dal sociologo britannico Erik Trist) articolati e di difficile decifrazione.
Prendiamo il caso della medicina moderna e del dibattito che si è avuto sui vaccini. Desidero tranquillizzarvi: non ho alcuna intenzione di entrare nel merito di quel dibattito, anzi, credo con spirito ecumenico di poter proporre un’affermazione che trovarebbe d’accordo sia i “vaccinisti”, sia gli “antivaccinisti”: “il dibattito è stato molto rumoroso”. Su questo credo che siamo tutti d’accordo. E aggiungo che lo è stato anche perché ha toccato un nervo scoperto nella nostra società: il difficile problema della fiducia verso un sistema sociotecnico complesso.
E a questo proposito, considero volutamente qualcosa di cui mi ritengo ignorante, nel senso che non sono un medico e ho un'idea molto vaga di come funzioni un vaccino. Non rivendico la mia ignoranza – anzi, sarei felice di saperne di più – ma la difendo. Per citare il titolo di un bel libro di qualche anno orsono (di John R. Hibbing e Elizabeth Theiss-Morse), viviamo in delle “stealth democracy”: per essere buoni cittadini abbiamo certo il dovere di informarci, ma le domande aperte sulle quali in linea di principio dovremmo farci un’opinione sono molto numerose, e di un livello di complessità che è cresciuto nel tempo. Per questo, è indispensabile disporre di scorciatoie per orientarci in fretta. Abbiamo bisogno di euristiche. E la scorciatoia principale la troviamo nella fiducia verso qualcuno, o qualche istituzione, che riteniamo competente in una certa materia e onesta. Per esempio, nel dirci se è sicuro vaccinare i nostri figli.
Nel caso dei vaccini e di quel che in prima battuta potremmo chiamare il “sistema sociotecnico della medicina”, registriamo la presenza dei seguenti attori: le case farmaceutiche, che producono vaccini, e hanno i loro laboratori di R&D, che producono ricerca certamente non indipendente. I governi, che autorizzano o non autorizzano tali vaccini, in base a certe regole e procedure. Abbiamo gli ospedali e i medici, che hanno un ruolo non trascurabile nella scelta delle medicine, che in più occasioni si è rivelato “problematico” - per usare un eufemismo - a causa di rapporti “inopportuni” con le aziende farmaceutiche. Ci siamo poi noi: l’università ed altri centri di ricerca che producono ricerca che si definisce indipendente, ma che ha legami con le imprese, che in misura variabile finanziano centri di ricerca accademici.
E per ultimo, registriamo la possibilità – sottolineo, la possibilità - che i ricercatori accademici siano in conflitto di interessi, quando non addirittura corrotti dalle case farmaceutiche. Che siano disonesti, insomma, e facciano ricerca prezzolata, o falsifichino i risultati delle loro ricerche. E abbiamo i sistemi di controllo dell’accademia per gestire tali conflitti di interesse e la possibilità che i risultati vengano falsificati, o per così dire addomesticati. Da una parte, il “controllo dei pari” - se tizio si inventa i risultati e pubblica, speriamo che caio e sempronio prima o poi replichino l’esperimento e lo sbugiardino. Speriamo. Dall’altra, i controlli delle università verso i casi di FFP. E questi meccanismi, evidentemente, all’interno del quadro che ho tratteggiato, occupano una posizione centrale e di snodo.
Ora, qui è giusto che scopra le mie carte: personalmente, io mi fido e mi vaccino. Ma l’aspetto problematico della fiducia nel confronto dei sistemi sociotecnici contemporanei è innegabile. Il numero di decibel del dibattito che si è avuto testimonia in maniera palmare la mancanza di fiducia nei loro confronti, e reagire accusando l’interlocutore più o meno di imbecillità non è per nulla utile. Perché, e la frase che segue sia un esempio di plagio che per motivi anagrafici solo in pochi in questa sala sapranno identificare, “la fiducia è una cosa seria”.
E l’università, la ricerca indipendente, si trova allo snodo di qualunque costruzione di fiducia nel confronto di tali sistemi sociotecnici complessi. Il nostro ruolo sociale è fondamentale e insostituibile. Siamo noi che possiamo dire alla società “sul tal tema, vi è il tal consenso scientifico” - qualora vi sia – o “vi sono le tali incertezze”. Se salta la fiducia nei confronti dell’imparzialità e correttezza del nostro lavoro, salta tutto. Si apre il campo a qualsiasi teoria del complotto, a qualsiasi opinione.
Ecco perché le questioni che attengono a FFP sono centrali. Ecco perché il tema etico non è un orpello da trattarsi, qua dentro, quando abbiamo esaurito le questioni importanti: la distribuzione dei punti organico, poi la distribuzione dei punti organico e, infine, la distribuzione dei punti organico.
Perché noi, che siamo l’università, occupiamo, o dovremmo occupare, una posizione chiave all’interno di sistemi sociotecnici complessi sui quali si giocherà il futuro dell’umanità. E se quest’ultima vi pare un’esagerazione, andate a studiarvi il dibattito sul riscaldamento globale, non tanto qua da noi, ma negli Stati Uniti, dove forze antiscientifiche, e influenzate da interessi commerciali, sono riuscite a smontare un consenso sociale, basato sul quello scientifico, che si era faticosamente costruito nel tempo.
E in Italia? Due casi famosi
Consideriamo la situazione nell’università italiana, per il tramite di due casi emblematici, che si sono avuti all’Università di Bologna e che hanno ottenuto ampia eco sulla stampa. Uno è di molti anni fa, prima che venisse approvata la pletora di regolamenti universitari attuali. Il secondo è recente, e con tutti i regolamenti del caso perfettamente in vigore. Non ho analizzato i regolamenti di tutte le università italiane, ma suppongo che in tutte le università italiane le pratiche di “FFP” siano esplicitamente vietate, sia per i professori, sia per gli studenti, come nel caso dell’università di Bologna. Purtroppo, non basta avere tante leggi per avere una “città del sole”, per così dire. Anzi, a volere essere un po' cinici, sono gli stati molto corrotti ad essere pieni di leggi – così scrisse Tacito – in latino, corruptissima re publica plurimae leges.
Farò riferimento per quanto possibile a fonti giornalistiche, tutte disponibili su Internet, anche nel tentativo di proporvi un racconto il più possibile freddo – come è mio dovere, considerato che sono stato coinvolto in entrambi i casi.
Il caso Zamagni
Il 31 marzo del 1996, la rivista Belfagor pubblicò uno scritto di Federico Varese, allora studente di dottorato presso l’Università di Oxford, e oggi, professore nella stessa università e tra i massimi esperti mondiali sul crimine organizzato. In tale articolo, dal titolo “Economia di idee presso il professor Stefano Zamagni”, si evidenziava un certo numero di casi, appunto, di “furto di idee” da parte di un noto professore ordinario di economia politica all’Università di Bologna, oltre che mio collega di Dipartimento, dove in quegli anni ero ricercatore. Vi leggo una sintesi giornalistica di alcuni dei fatti segnalati da Federico Varese:
“[Varese] ha messo a confronto un articolo - saggio di 29 pagine del professor Zamagni sui Fondamenti Metodologici della scuola austriaca pubblicato nel 1982, con un articolo di 39 pagine di un famoso filosofo americano, Robert Nozick, pubblicato nel 1977 sulla rivista internazionale Synthese con il titolo On Austrian Methodology. Per farla breve Zamagni ha incorporato sette pagine di Nozick, e dunque lo ha plagiato. [Citando Varese:] "La fortuna di Zamagni ha assunto forme quasi surreali nel caso del professor Raimondo Cubeddu. Costui cita lo stesso brano due volte: una volta attribuendolo a Nozick e una volta a Zamagni, senza accorgersi dell'identità dei due brani".”
Quanto appena letto è a firma Francesco Merlo, in un articolo apparso su Il Corriere della Sera del 14 luglio 1996, dal titolo significativo “Un caso di plagio e forse di omertà. Il padre emiliano dell’economia rap”. Non mi interessa infierire sul responsabile dei diversi casi segnalati da Varese, quanto occuparmi su cosa avvenne, o non avvenne, in seguito a quelle segnalazioni. Su due versanti: all’interno della professione degli economisti, e poi da parte del datore di lavoro del Professor Zamagni, l’Università di Bologna.
Per il primo, facciamo nuovamente parlare Merlo, dal medesimo articolo di giornale, che ha gioco facile nell’ironizzare sull’economia rap, genere musicale “costruito con musica rubata”. E si interroga Merlo (e si presti attenzione perché iniziamo ad affrontare una questione chiave, e ad adocchiare la seconda delle domande ineludibili, e che ci attende – quella “difficile”: ricordate?)
“Sono tutti rap gli economisti italiani? Ecco che si indignano (contro Zamagni) ben sedici professori, tutti illustri e di sinistra (come Zamagni). E scrivono al presidente della Società Italiana degli Economisti: "Poiché questo scambio si riferisce a fatti che se provati apparirebbero di notevole gravità chiediamo che, così come accade in analoghe istituzioni straniere, venga nominato una commissione che, a tutela della reputazione della Società Italiana degli Economisti, dei suoi membri e dello stesso Zamagni, accerti i fondamenti delle accuse rivolte al collega e fornisca un chiaro orientamento per tutti coloro che svolgono attività di ricerca, in particolare per coloro che stanno per intraprenderla". Firmato: Lorenzo Bianchi, Carluccio Bianchi, Sebastiano Brusca, Fabio Canova, Alberto Chilosi, Nicolo' De Vecchi (che materialmente scrive la lettera), Giovanni Dosi, Giorgio Gilibert, Carlo Giannini, Andrea Ginzburg, Marco Lippi, Paolo Mariti, Enzo Pesciarelli, Pietro Reichlin, Giuseppe Tattara, Ferdinando Vianello.
Comincia a questo punto un lavoro di diplomazie sotterranee, carteggi privati e confronti all'americana. Il consiglio di presidenza dell'Associazione si riunisce due volte e sempre perde tempo per prendere tempo. Finché i professori Alberto Quadrio Curzio, Mario Arcelli, Carlo D'Adda, Piero Alessandrini, Terenzio Cozzi, Marcello De Cecco, Luigi Frey e Piero Tani emettono la meno (o forse la più) coraggiosa sentenza del secolo: "Il consiglio di presidenza non può esprimere nel presente regime statutario il proprio parere sul caso in questione né può investire commissioni a questo proposito". La sentenza mette fine all'istruttoria, e - udite udite - taglia le lingue degli economisti che si chiudono a riccio nella corporazione. Persino i sedici denuncianti non ricordano più, non hanno nulla da dire, non vogliono esporsi neppure per raccontare l'accaduto.
Parte invece una campagna di bisbigli, risolini e lettere anonime (dai giornali alla Banca d'Italia). E il caso del professor Zamagni sembra dunque finire in maldicenze e in omertà.“
Questo per quanto riguarda la reazione della professione.
E l’Università di Bologna? Tanti pettegolezzi per i corridoi, ma il più assoluto silenzio istituzionale. Circa tre anni dopo, nel settembre del 1999, scrissi una lettera ai colleghi del mio dipartimento, in cui mi dissociavo dal silenzio dell’istituzione, denunciandolo. Risulta non soltanto che il professor Zamagni non abbia mai ricevuto alcuna sanzione formale. Questione particolarmente importante dal mio punto di vista, l’Università di Bologna non ha neppure mai dichiarato pubblicamente se il professor Zamagni abbia o non abbia commesso i plagi segnalati da Varese.
Il 1 marzo del 2011 inviai al nostro Rettore di allora, il professor Ivano Dionigi, una richiesta formale di chiarimenti su questo e su altri presunti casi di FFP avvenuti all’interno del mio dipartimento. Il Rettore decise di non chiarire nulla. La lettera fu inviata per conoscenza anche al Ministro, che allora era Mariastella Gelmini. Anche su quel fronte, non si ebbe nessun segno di vita.
E’ il silenzio istituzionale la cifra del "Caso Zamagni" e di tutti i casi di FFP che si sono avuti in Italia. Potremmo sospettare che in quel caso esso fosse derivato da un’inadeguatezza normativa, dato che l’università di allora era ancora immune dall’ondata regolamentativa che si è avuta in seguito. Non è così: anche allora c’erano gli strumenti per intervenire, e vi risparmio i dettagli. Ma per smentire quest’ipotesi, consideriamo un caso molto più recente, avvenuto quando i regolamenti – tanti, pletorici, spesso scritti male – erano tutti in vigore.
Il caso Lorenzini
L’1 giugno 2016, Fabrizio Gatti firmò su l’Espresso un articolo dal titolo eloquente: “Il professore copia, l’Università lo premia”. Il professore è Enrico Lorenzini, già ordinario di ingegneria nucleare da poco in pensione, e l’Università, quella di Bologna, che pochi giorni dopo, nel corso di una cerimonia presieduta dal nostro rettore, gli avrebbe conferito il titolo di Professore emerito.
In quell’articolo, l’Espresso pubblicò una vecchia lettera dell’allora Rettore Prof. Fabio Roversi-Monaco, in cui si attribuivano al Prof. Lorenzini gravi casi di plagio. In particolare, in essa si legge che “Il Senato Accademico […] aveva dato l’incarico di esaminare la questione a due Presidi [..]” e l’indagine si era conclusa “con il riscontro dell’identità assoluta del volume “Ebollizione” [a firma Lorenzini] con due capitoli – integralmente tradotti: senza aggiunte, senza note, senza commenti, e senza citazione alcuna dell’autore – del volume scritto da M.M. El Wakil, dal titolo Nuclear heat transport”. In un altro caso (relativo al volume “Traccia delle lezioni di termotecnica del reattore”, per un errore materiale indicato nella lettera come “Traccia delle esercitazioni di termodinamica del reattore”), “la commissione ha riscontrato invece strette analogie con l’edizione italiana curata da Giona e Passino del volume “I principi delle operazioni unitarie” di Alan S. Foust.”
Successivamente a queste rivelazioni, scrissi una lettera al nostro rettore, il professor Francesco Ubertini, chiedendo chiarimenti. Chiedendo chi si fosse sbagliato: se l’Università di Bologna, nel 2016, rendendo professore emerito un plagiario – violando in modo netto un paio di nostri regolamenti, sia detto e sottolineato – oppure l’Università di Bologna di allora, gravemente ingiuriando un collega innocente. La lettera, che fu firmata anche da uno sparuto gruppo di colleghi (e che è pubblica su Internet), non ricevette risposta, e il Rettore Ubertini si è rifiutato di chiarire i fatti: ad oggi non conosciamo l’opinione della più antica università del mondo – così ci piace presentarci – riguardo al Prof. Emerito Enrico Lorenzini: plagiario, che addirittura avrebbe dedicato un suo libro plagiato “al fratello prematuramente scomparso – nella seconda pagina di copertina, con evidenza e in latino” (nuovamente cito dalla lettera firmata dall’allora Rettore Roversi Monaco e pubblicata da l’Espresso), o vittima di calunnie?
Il silenzio del nostro rettore Ubertini non passò inosservato. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera (28 settembre 2016), commentando con tono ironico il silenzio dell’Università di Bologna, chiosò “il rettore pronuncia la parola magica: privacy”. E in nome della privacy, in Italia molto raramente le Università chiariscono i fatti. Così per esempio il recente caso del professore e onorevole Francesco Boccia: né l’Università del Molise, né il Ministero né, ad oggi, la Procura della Repubblica di Campobasso (in seguito ad esposto presentato dal Prof. Alberto Vannucci dell’Università di Pisa, e da me), hanno chiarito se abbia vinto un concorso universitario presentando anche opere plagiate, come si evincerebbe da articoli pubblicati in “Il Fatto Quotidiano”. Sappiamo solo che l’Università LIUC di Castellanza ha ufficialmente “ritirato” un suo working paper, senza precisarne il motivo.
E unicamente per motivi di tempo non mi soffermo sull’incredibile vicenda della tesi di dottorato del Ministro Marianna Madia, che si presterebbe ad ulteriori considerazioni interessanti, ma amare. I due casi che ho considerato possono bastare per mostrare la cifra, della reazione ai casi FFP in Italia: il silenzio. Il silenzio dei colleghi, che voltano la testa dall’altra parte, e il silenzio istituzionale: l’uno si riflette nell’altro.
Che fare?
Per la parte conclusiva del mio racconto odierno, ho scelto un titolo non a caso. Ca’ Foscari è luogo di eccellenza per lo studio delle lingue orientali, e tra queste il russo, e io credo che la domanda “che fare?” si dovrebbe sempre pronunciare in russo, “Sto delat?" (Что делать?): è il titolo di un importante pamphlet di Lenin.
Ma se il “che fare?” è la domanda per antonomasia del rivoluzionario, anche per tranquillizzare il vostro Rettore che mi ascolta, preciso subito che le mie proposte avranno piuttosto il tono del riformista. Concretamente, che cosa potremmo fare per migliorare la situazione attuale?
Che fare, dunque? Che cosa dovrebbero fare le università, ad iniziare dai loro rettori, e che cosa dovreste fare eventualmente voi?
La risposta istituzionale
E’ necessario raggiungere un obiettivo chiaro: i giudizi sui casi di presunto FFP devono essere resi pubblici. Le università devono imparare a rendere note le loro decisioni circa le presunte violazioni.
Per due motivi. Il primo meno importante, ma non irrilevante: abbiamo il diritto di commettere errori in buona fede, senza venire scambiati coi disonesti. Se un ricercatore pubblica un teorema la cui dimostrazione è sbagliata, e se ne accorge, ha diritto a che l’editore ritiri la pubblicazione chiarendo che lo fa su richiesta dell’autore, in seguito a un errore in buona fede, e non in seguito a caso di FFP. E infatti, le linee guida della COPE, che già ho citato, stabiliscono che le “ritrattazioni” delle pubblicazioni debbano “dichiarare il motivo (o i motivi) per la ritrattazione (per distinguere comportamenti dolosi da errori in buona fede)”.
Ma c’è un motivo più cogente per cui deve aversi pubblicità degli esiti delle indagini: nessun sistema di giustizia privata e segreta, tanto più quando in presenza di pesanti conflitti di interessi, può funzionare ed impartire “giustizia”. La giustizia per essere tale non può essere segreta.
Dietro la segretezza può nascondersi la scelta di giudici ben disposti e non indipendenti; la selezione strumentale delle accuse da considerare, e di quelle da ignorare; l'insabbiamento. Posso aggiungere che questi elementi, spesso tra loro miscelati, mi pare che si riscontrino in tutti i casi di FFP che nel corso degli anni ho avuto modo di considerare in qualche dettaglio.
Le università italiane devono smettere di trincerarsi dietro la normativa sulla privacy. Essa - o l'interpretazione che se ne dà - rappresenta un serio problema, e un utile alibi per i settori più retrivi dell’amministrazione pubblica, che grazie ad essa difendono l'opacità del loro agire, quando non peggio. Valga una raccomandazione sintetica: un’università seriamente intenzionata a cambiare la situazione attuale, a tentare di correggere il fallimento istituzionale che ho descritto, a mio avviso dovrebbe porre pubblicamente una domanda al Garante della privacy, argomentando la presenza di un evidente interesse pubblico prevalente che gioca a favore della trasparenza. E chiedendo una risposta pubblica dal Garante. Da questo si partirebbe: da una assunzione di responsabilità chiara e netta, che diraderebbe le nebbie e permetterebbe, forse, un dibattito pubblico costruttivo e consapevole di che cosa sia in gioco.
E ora veniamo ai regolamenti e ai codici etici. Essi sono necessari, ma abbiamo visto che da soli non bastano. Anzi, possono essere usati come un alibi: la risposta del rettore di Bologna sui casi segnalati, all’incirca, è stata: abbiamo seguito tutte le procedure previste. I regolamenti, purtroppo, spesso servono soltanto per pararsi le spalle. C’è una lezione importante che abbiamo appreso nella lotta contro la corruzione. Oggi le amministrazioni pubbliche sono tenute ad avere dei "piani anticorruzione", ma gran parte di questi sono stati redatti con il copia e incolla e senza una reale consapevolezza. Siamo vittime di una "cultura dell'adempimento", e in un contesto di irresponsabilità diffusa non c’è legge che tenga. Se nessuno o pochi alzano la mano per dire “così non va”, i regolamenti sono solo un utile alibi, che anzi finiscono per deresponsabilizzarci ulteriormente. E su questo fronte, penso che tutti noi professori, almeno noi professori ordinari, dovremmo almeno fare un esame di coscienza. Il mio è un invito che può forse suonare scomodo e sgradevole, in un paese dove lo sport nazionale pare essere il puntare un dito accusatore, per quella “grande crisi italiana” che è sotto gli occhi di tutti, verso pezzi di classe dirigente sempre esterni al nostro perimetro d’azione.
Perché i regolamenti assolvano al loro scopo, una condizione necessaria è che ci sia coerenza di messaggi e di azione, ai diversi livelli. In particolare, se all’interno di un’organizzazione si percepisce che il vertice è tiepido nei confronti di un certo problema, i membri di quell’organizzazione traggono delle implicazioni pratiche. Chiamiamola leadership, “tone from the top”, o, semplicemente e all’italiana, “carattere”: è importante. Un messaggio chiaro, deciso e coerente dal vertice non renderà magicamente coraggiosi tutti gli ignavi, ma sarà d'aiuto almeno per gli indecisi.
E ora, veniamo a voi, e alle due domande che vi riguardano.
La domanda semplice La domanda semplice è da che parte stare riguardo alle pratiche di FFP. Se dalla parte del rigore e dell’onestà, o dalla parte della truffa. E ho pochi dubbi circa come, nelle vostre teste, vorrete rispondere. Abbiamo però visto che il confine tra onestà e truffa non è netto, e che la questione è più complessa di come possa apparire di primo acchitto. Noi ricercatori forse amiamo cullarci in un’immagine asettica e tranquillizzante della “scienza”. Un filosofo della scienza sarebbe molto più adatto di me per approfondire la questione. Mi limito ad osservare che non c’è solo un Popper – metodo scientifico da una parte, e tutto il resto dall’altra – ma anche un Feyerabend col suo “anarchismo”. E noi non ricerchiamo nel vuoto, e neppure scegliamo i nostri interessi scientifici in seguito a casuali incontri di neuroni nella nostra testa, ma rispondiamo a stimoli esterni: stimoli di ordine sociale ed anche economico. Manteniamo allora uno spirito non solo critico, ma anche, autocritico, e una mente aperta. O almeno, proviamoci, possibilmente, con un sorriso, di fronte all’incredibile ed irriducibile complessità del mondo.
La domanda difficile E ora veniamo alla domanda difficile. Quali sono i doveri degli accademici che osservano casi di FFP? Spero di avervi convinto del fatto che essi minano le fondamenta dell’accademia e del suo ruolo sociale. Mettiamola così: se un professore osserva, fatemi usare un’espressione un po’ forte, ma per capirci, un “terrorista accademico”, ha il diritto di far finta di nulla, di non pronunciarsi, di non alzare la mano per dire “no!” Credo che la risposta dipenda dall’opinione che abbiamo del nostro lavoro, tra due possibili.
Da una parte, c’è l’accademico come ricercatore e come produttore di ricerca - di articoli e di libri. E una volta che si è pubblicato bene – in buone riviste e con case editrici prestigiose - e onestamente (senza FFP, insomma), e fatte con criterio le altre cose per le quali a fine mese ci pagano – insegnare, eccetera – la mattina ci si può guardare allo specchio con soddisfazione. E discorso chiuso. É un punto di vista legittimo del nostro lavoro e del nostro ruolo nella società.
L’altro punto di vista è che, come professori e intellettuali, abbiamo anche altri doveri. Che dobbiamo essere, almeno un po’, dei “parresiasti”, un concetto trattato da Michel Foucault nelle sue ultime lezioni a U.C. Berkeley nel 1983. La parresia è un oscuro termine greco, e il parresiasta è colui che dice apertamente la verità – la sua verità: “nella parresia, chi parla rende chiaro e ovvio che quel che afferma è la sua opinione personale. E lo fa evitando ogni forma retorica che potrebbe mettere un velo al suo pensiero. Al contrario, il parresiasta usa le parole e le forma espressive più espressive che riesca a trovare".
L’intellettuale che dice la verità che vede, e che ha il coraggio di dire al re che è nudo.
Quale delle due idee del nostro lavoro è corretta? Lo deciderete voi, nella vostra testa, e io non sono qui per dare lezioni di morale.
Però invito a riflettere sul VI comma dell’articolo 33 della Costituzione Italiana, e soprattutto su come e perché vi si arrivò. Esso afferma che “Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”. Nel dibattito che si ebbe in Costituente, rientrò l’emendamento Leone/Bettiol, che intendeva sancire in Costituzione l’inamovibilità dei professori, e che però si ritiene “assorbito” nel testo attuale (si veda il commento di Umberto Izzo). E così nel Decreto Presidente Repubblica 11 luglio 1980, n. 382, si legge all’Art. 7.: “Ai professori universitari è garantita libertà di insegnamento e di ricerca scientifica”, all’Art. 8, “I professori ordinari sono inamovibili e non sono tenuti a prestare giuramento”. Perché non siamo tenuti a prestare giuramento? Perché come accademici italiani, già giurammo, purtroppo. Fedeltà al fascismo, nel 1931. Su 1250 professori universitari di allora, solo dodici si rifiutarono, e persero il posto. E poi cacciammo i professori ebrei, nell’autunno del ‘38, in seguito alle leggi razziali. E tacemmo. Tacemmo, a Bologna, anche quando nel discorso inaugurale di quell’anno accademico il Rettore, professor Alessandro Ghigi, parlò di "Politica della razza", e affermò che quello della razza è "il problema di politica interna che maggiormente interessa il Regime in questo momento" e l'obiettivo dell'azione di governo è "salvaguardare l'integrità della stirpe […] dalle deprecabili mescolanze che potrebbero e non debbono verificarsi colle razze inferiori, distribuite nelle terre dell’impero che noi dobbiamo colonizzare", aggiungendo che "I recenti provvedimenti a tutela della razza rendono vacanti altre 11 cattedre, alle quali sarà provveduto entro breve termine".
Ecco perché i padri costituenti ci han dato queste libertà e questi privilegi. Per renderci liberi di dire "no". E io non sono tanto presuntuoso da poter prevedere come mi sarei comportato allora, quando dire “no” significava perdere il posto, e peggio. Ma quando ragionerete su quella difficile seconda domanda, io penso che sia vostro dovere dedicare almeno un pensiero a quell’articolo 33, comma VI, della nostra Costituzione, da dove provenga, e da quali aspettative verso di noi, da parte della giovane Repubblica italiana, sia scaturito.
Conclusione
L’Italia è un paese fantastico – e lo dico senza alcuna ironia o sarcasmo - anche perché così ricco di tradizioni non soltanto culturali, ma civili, tra loro diverse e apparentemente incompatibili. Abbiamo il manzoniano “troncare, sopire”, che io ravvedo tradotto nei placidi silenzi dell’istituzione che vi ho raccontato. Abbiamo l’Italia cinica e opportuninsta descritta genialmente da Ennio Flaiano, l’Italia che non soltanto non si mette mai di traverso, ma anzi, è “sempre disposta ad accorrere in soccorso del vincitore”. Abbiamo anche un’altra tradizione civile, dalla genealogia millenaria, che talvolta è una traccia come sommersa, e talvolta è in evidenza e quasi urla. Mi piace chiamarla, la “tradizione dell’invettiva dantesca”: il Dante indignato dell’Inferno, per intenderci. E concludo la nostra chiacchierata con un esempio che in quest’ultima tradizione ci sta a pennello. E’ il commento che, di uno dei casi discussi, ha voluto offrire Maurizio Viroli, già professore all’Università di Princeton, nel suo “La libertà dei servi” (Laterza, 2011; p. 135).
"[…] “L’analfabetismo morale ha raggiunto proporzioni allarmanti, forse più di quello letterario. Evidenti errori di ragionamento – “ma come, lo fanno tutti, perché non dovrei farlo anch’io?”; “ha violato le leggi, ma ha fatto anche del bene”; “è corrotto, ma è anche simpatico”; “non ha alcuna integrità, ma è intelligente”, e via di questo passo – sono diventati oggi luoghi comuni. In un bel saggio Diego Gambetta e Gloria Origgi hanno documentato i commenti elaborati da accademici, giornalisti e politici a difesa di un caso di plagio che ha coinvolto un noto economista, Stefano Zamagni, consulente del papa. Merita leggerli con attenzione: 1) Non c’è nulla di originale, tutti plagiano, perché preoccuparsi?; 2) Quelli che denunciano sono sempre peggio dei loro bersagli; 3) Che senso ha prendersela con Zamagni? Tanto non lo puniranno mai; 4) Che senso ha denunciare quando sarai tu a pagarne le conseguenze?; 5) E’ un buon barone, molto meglio di tanti altri, perché attaccare proprio lui? 6) Zamagni è di sinistra, e non bisogna indebolire la sinistra in un periodo di campagna elettorale; 7) Zamagni mostra di avere ottimi gusti intellettuali dato che ha plagiato ottimi autori, e dunque non merita di essere attaccato; 8) Dato che molti plagiano, attaccare uno in particolare dimostra che chi denuncia ha ignobili motivi per farlo; 9) Un economista, infine, ha suggerito che il vero autore del plagio era probabilmente uno studente di Zamagni. Il professore non è dunque colpevole di plagio, ma ha soltanto firmato un saggio che non ha scritto di cui è autore un altro che l’ha copiato.
[…] Sarebbe facile dimostrare quanti e quali perversi effetti la mentalità assolutoria ha in tutti gli ambiti della vita sociale […]. Qui importa solo rilevare che tale mentalità è perfetta in un contesto cortigiano, dove una persona integra è una minaccia per il signore e per gli altri cortigiani. Sia detto una volta per tutte: persone che sragionano nel modo che ho descritto possono vivere soltanto da servi."
Essere parresiasti, ho detto, non è obbligatorio. Ma con voi, cari studenti, penso che sia tenuto a dire non la Verità, ma almeno la mia verità, senza veli, e quindi a non nascondere la mia opinione.
Ritengo che Maurizio Viroli abbia ragione.
Note
Il documento contiene alcune modifiche di tipo stilistico rispetto alla lezione tenuta all'Università Ca' Foscari il 18 maggio 2018.
Sul dibattito pubblico negli Stati Uniti riguardo alle cause del riscaldamento globale, e su come esso sia stato influenzato da interessi economici, si consideri il capitolo 8 in "Dark Money: The Hidden History of the Billionaires Behind the Rise of the Radical Right", di Jane Mayer. Scribe Publications, 2016.
Le lezioni di Foucault a Berkeley sono state pubblicate anche in Italiano ("Discorso e verità nella Grecia antica", a cura di A. Galeotti e J. Pearson. Donzelli, 2015).
L'episodio del giuramento di fedeltà al regime fascista da parte dei professori universitari italiani, e la storia dei pochissimi che si rifiutarono, è raccontato in un bel libro di Giorgio Boatti, dal titolo "Prefrire di no. Le storie dei dodici professori che si opposero a Mussolini". Einaudi, 2001.
Fotografie: 2a dall'alto, da sinistra a destra: Lucio Picci, Michele Bugliesi, Francesco Zirpoli. 4a dall'alto, a sinistra, Michele Bugliesi, a destra, Lucio Picci.
Ringrazio Raimondello Orsini, Mauro Sylos Labini, e Alberto Vannucci, per i commenti ricevuti a una versione preliminare di questo testo.