18 giugno 2021

Perchè non abbiamo bisogno di artisti

Il mio falegname con 30.000 lire la fa meglio, non c'ha manco le unghie

(un uomo stupito a proposito di un Garpez originale)


La frase che si sente mormorare più spesso alle mostre di arte contemporanea, o una qualunque manifestazioni di queste eterogenee espressioni artistiche è “potevo farlo anch’io”. È chiaramente espressione di disgusto e disprezzo, e alle volte di un pungente imbarazzo. Voglio con queste poche riflessioni provare ad indagarne le ragioni.

Qual è il problema se un qualunque spettatore, ascoltatore, lettore ecc. può realizzare l’opera che fruisce? Perchè ci destabilizza così tanto la semplicità (è davvero tale?) di certa arte? Per capirlo bisogna tornare indietro, non tanto, basteranno 200 anni. Perchè bisogna accettare il fatto che pur essendo passati i due secoli più rivoluzionari della storia dell'umanità, la nostra percezione, come società occidentale, in molti aspetti, ma in particolare dell’arte è in grandissima parte figlia di quell’epoca a cavallo tra il ‘700 e l’800. In un parola, ancora siamo romantici.

Definire che cosa è romantico è quanto di più difficile esista in ambito storiografico. Lo sapeva anche una delle figure più importanti del tempo, Friedrich von Schlegel, che cercando una definizione di romanticismo non li riuscì che di cinquecentoventicinque pagine. La cosa può anche non sorprendere a chi un po’ se ne intende. Infatti, oltre ad accusare in certe sue espressioni un sesquipedale prolissità, il romanticismo è intrinsecamente non definibile in quanto professa una visione del reale frammentaria, multiforme, paradossale e costituita nella sua intima essenza dal mistero, un mistero insolubile. In questo sistema di pensiero l’arte ha un posto più che centrale, oserei dire totalizzante. I termini più impiegati sono “poesia” e “poetico” in senso molto ampio per indicare un’attività creatrice in generale. Questa attività creatrice è l’anima stessa della natura delle cose che l’artista recupera e fa vibrare per simpatia. Ed ecco un’altro aspetto fondamentale del romanticismo: l’individualità, l’artista, il genio. L’unico modo per attingere al mistero diveniente della realtà sta nell’atto creativo del singolo. L’individuale si fa universale.

È bene qui riprendere la famosa distinzioni di Winckelmann tra classico e romantico. Il mondo classico (idilliaca visione romantica) era il mondo del finito, del soddisfatto-nel-mondo, del razionale, della regola eterna che determina il reale; e così nell’arte. Il romanticismo, come si detto poc’anzi, ne è l’opposto: slancio verso l’infinito, Sehnsucht (afflato, desiderio insolubile), irrazionalità, mistero e paradosso. Questa distinzione è molto feconda nel nostro discorso se traslata nel campo religioso. Infatti se la religione classica, quella olimpica, è la religione “sensuale”, che “non prometteva che beni esteriori e temporali. L’immortalità, se pur vi credevano, non era da essi che appena scorta in lontananza, come un’ombra, come un legger sogno che altro non presentava se non una languida immagine della vita, e spariva dinanzi alla sua immagine folgoreggiante” (A.W. Schlegel). La religione per eccellenza romantica è il cristianesimo, secondo cui, come dice Schlegel, “tutto è precisamente l’opposto”. Questa infatti incarna perfettamente la visione del reale che abbiamo attribuito al romanticismo. Centrale in questo senso gli attributi di Dio: ineffabile, trascendentale, misterioso, irrazionale.

Dopo queste lunghe ma indispensabili precisazioni torniamo al discorso iniziale attraverso Novalis (tra i più geniali poeti romantici), che scrive “Poeta e sacerdote erano in principio una cosa sola. il vero poeta è sempre rimasto sacerdote, così come il vero sacerdote è sempre rimasto poeta.” Ci avviciniamo ora a capire che cosa sia il disgusto che ci dà molta arte contemporanea. Questa si prefigura come il simulacro della fine di ogni trascendenza, di ogni speranza dell’ineffabile. È l’abbandono dell’afflato romantico senza il piacevole ritorno al (idealizzato) mondo classico. Che fine ha fatto il nostro sacerdote che ci prometteva l’aldilà estetico? Svanito il trascendentale, l’estasi, il sublime artistico, viene meno l’artista-mediatore tra due mondi. Il gesto creativo del genio non ha più la sacralità del rito magico o religioso. Non siamo troppo lontani da Gott ist tot! Gott bleibt tot! (Dio è morto! Dio rimane morto!) profetizzata da Nietzsche, attuale più che mai nella nostra quotidianità sradicata da ogni valore e da orizzonte di senso.

Ma forse erano tutte illusioni, costrutti umani (troppo umani) anche per i romantici, tra l’altro non poi così tanto innocenti, scriveva infatti ancora Novalis, che bisognasse conferire: "a ciò che è comune un senso più alto, al quotidiano un aspetto misterioso, al noto la dignità nell'ignoto, al finito l'apparenza dell'infinito". L’arte contemporanea non è più questa sovrumana sensibilità di trasfigurazione. È divenuta, figlia della sua epoca, la ricerca dell’espressione più immediata, più semplice, la più universale possibile. Per citare ancora Nietzsche l’arte è arrivata alla terza ed ultima metamorfosi: quella del fanciullo. Basti pensare alla semplicità, ma estremamente espressiva, con cui i bambini disegnano ancora prima di imparare a leggere e a scrivere.

Che fine ha fatto il talento? Chi scrive non può negare il fascino che il romanticismo emana e l’incredibile suggestività; ma abbiamo davvero bisogno di grandi anime che ci traghettino nelle alte sfere? Parafrasando Brecht:


“Sventurata la terra che non ha Artisti

“Sventurata la terra che ha bisogno di Artisti"


Opere citate e spunti:

Aldo, Giovanni e Giacomo, Tre uomini e una gamba

Novalis, Frammenti

B. Brecht, Vita di Galileo

A. Carnevale, https://youtu.be/XOOO1_S712c

F. Nietzsche, la Gaia scienza; Così parlò Zarathustra

A. W. Schlegel, Corso di letteratura romantica


Marco Gatti

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