Mi chiamo Liliana Segre, sono nata a Milano nel 1930 e a Milano ho sempre vissuto. La mia famiglia era ebraica agnostica ed io ero una bambina amatissima.
Mi ricordo la sera di fine estate del 1938: avevo fatto la prima e la seconda elementare in una scuola pubblica del mio quartiere, quando mio padre cercò di spiegarmi che siccome eravamo ebrei, non sarei più potuta andare a scuola: a 8 anni ero diventata diversa; se qualcuno legge a fondo le leggi razziali fasciste una delle cose più crudeli è stato far sentire invisibili i bambini. Molti miei compagni non si accorsero che il mio banco era vuoto.
Gli anni di persecuzione si snodarono uno dopo l’altro, le leggi razziali fasciste erano così umilianti, perché avevano deciso che questa minoranza fosse declassata a cittadini di serie B. La solitudine si faceva tangibile vedendo coloro che finora erano stati amici allontanarsi da noi.
Nell’estate del 1943 alle leggi razziali fasciste severe si sovrapposero le leggi di Norimberga che avevano nel loro testo quelle due paroline “SOLUZIONE FINALE”, di cui ancora nessuno capiva il significato. Mi ricordo che mio padre decise che avremmo dovuto cambiare identità e comprò una carta d’identità falsa. E il 7 dicembre tentammo una fuga in Svizzera. Ma arrivati oltre confine fummo rimandati indietro e questa fu la nostra condanna.
Durante il viaggio in treno, insieme agli altri, vissi tre fasi: la fase del pianto; la seconda fase, quella surreale: gli uomini pii si riunivano al centro del vagone, pregavano e lodavano Dio; era un momento di tensione fortissima che ci teneva uniti, mentre altri uomini ci portavano a morire. La terza fase è quella del silenzio: persone coscienti che andavano a morire; noi lo sentivamo che sarebbe stato così. Non c’era più niente da dire.
Al nostro arrivo, scelsero circa 30 donne e 60 uomini che rimanessero nel lager come forza lavoro, tutti gli altri furono inviati direttamente al gas. Partii a piedi, con le altre donne, per la sezione femminile del campo di concentramento di Birkenau ad Auschwitz.
Poi il dramma nella prima baracca: fummo denudate, mentre i soldati passavano sghignazzando, guardandoci non come donne, perché per le leggi di Norimberga gli ariani puri non si dovevano accoppiare con donne di razze inferiori, ma come pezzi, persone schiave delle quali prendersi gioco. Fummo denudate, ci portarono via tutto, della nostra vita precedente non ci rimase nulla.
Avevo 13 anni, ero una ragazzina, e cominciai a capire che dovevo dimenticare il mio nome: mi venne tatuato un numero sul braccio e dopo tanti anni si legge ancora bene, 75190.
E questo numero che fa parte di noi sopravvissuti è più importante del nostro nome. In questo sono riusciti i nostri assassini, perché, mentre in quel momento con quel numero volevano sostituire la nostra identità di persone e farci diventare dei numeri, sono riusciti a far sì che questo numero sia così profondamente inciso nella nostra carne da essere diventato simbolo di noi stessi: noi siamo essenzialmente quel numero, perché chi ricorda Auschwitz perché c’è stato, non dimentica mai.
Testimonianza di Liliana Segre
Foto di prigionieri
Ogni prigioniero appena arrivato al campo veniva identificato e fotografato, subito dopo gli veniva fornito il numero identificativo. Un foglio con il loro vero nome, molti dopo del tempo se lo scordavano.
Una cosa da non dimenticare mai
“è avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire “
“E voi, imparate che occorre vedere e non guardare in aria; occorre agire e non parlare. Questo mostro stava, una volta, per governare il mondo! I popoli lo spensero, ma ora non cantiamo vittoria troppo presto: il grembo da cui nacque è ancora fecondo.“