Su Caos Calmo di Sandro Veronesi
di
Gabriele Lastrucci
Pubblicato sul sito web della redazione pratese del quotidiano QN La Nazione
il 18 Ottobre 2017
Veronesi V/S Dostoevskij
Che cos'è un capolavoro? Da dove viene, come nasce, come si costruisce?
E' più che ovvio che a queste domande non si possa rispondere con certezza, ma è anche altrettanto serio e necessario che si possa fruire di quegl'improvvisi lampi di senso che ci illuminano nella lettura di certe opere letterarie. Occorre rischiare una impossibile forzatura che ci permetta di guardare dallo strettissimo spiraglio della ragione critica senza che esso, lo spiraglio, laceri irrimediabilmente l'insondabile e oscuramente lampante velo di Mistero che ogni opera, soprattutto quella importante e necessaria, ci sbarra opportunamente davanti, come a sfidarci. Mentre leggevo Caos Calmo di Sandro Veronesi sono stato più volte aggredito da un'oscura forza lunare che quel testo inesorabilmente emanava ed emana, sono stato più volte a un passo da abbandonarla, quella lettura, che mi faceva così misteriosamente male, sono stato più volte...
L'unica cosa che potevo fare per difendermi da questo sublime-nero attacco era tentare di organizzare un muro critico-culturale che impedisse a quella forza di violentarmi con la sua oscura luce. E così ho fatto, ma non mi sono salvato, grazie a Dio...
Il primo lampo interpretativo che mi si è parato davanti è stato Dostoevskij e, per la precisione: I fratelli Karamazov.
C'è qualcosa di archetipico nel romanzo di Veronesi che lo imparenta strettamente a quel colosso russo dell'Ottocento:
Pietro Paladini ha in sé tutte le caratteristiche dei tre fratelli dostoevskijani: la bestiale, nonché in fondo innocente, brutalità di Mitja, il profondo, e per questo colpevole, intelletto di Ivan, la dolcezza e la bontà del piccolo Alesa;
c'è anche, ad accomunare i due libri, come un fatale amuleto: la Morte che, anche se naturale, rende colpevole chi non soffre, o chi non soffre abbastanza;
che dire, poi, di: Thierry-Smerdjakov-Boesson, e del Grande Inquisitore: Isaac Steiner?;
ci sono, ancora, innumerevoli elementi mistici che avvicinano strettamente le due Opere: dall'Oracolo dei Radiohead al biblico Enoch, e soprattutto, il fatto che l'unico vero portatore di Verità e, forse, di Salvezza, sarà un bambino o, nel caso di Veronesi, la piccola Claudia...
L'aspetto Mistico-Spirituale, ovvero l'Estasi del Dolore
Un altro fulmine interpretativo può essere, ed è, la funzione estatico/salvifica del Dolore. Nel romanzo di Veronesi, come in fondo nella vita, il momento di dolore (anche nella sua innaturale assenza) ci avvicina molto di più a noi stessi e agli altri che non la gioia o la semplice e noiosa routine della mondanità. Esso (il Dolore) appare come una necessaria apertura verso il mondo, quello nostro (interiore-affettivo) e quello esterno: come l'unico varco possibile per penetrare la ferrea cortina di gelo quotidiano che ci separa da noi stessi e dai nostri affetti. Il momento stesso del dolore-verità è un feroce, bellissimo angelo, più che un paralizzante, oscuro demone.
Non è un caso che Pietro decida che d'ora in poi sarà il “mondo” a cercarlo e a confessargli le proprie colpe, le proprie sofferenze. E' lui, forse, l'Oracolo a cui gli altri vanno a chiedere ed è il suo muto e freddo dolore (benché apparentemente assente) che lo pianta come una “pietra” sacra nel terreno spirituale della verità, della fecondità, dell'ascolto.
C'è poi, come potente sottostrato narrativo, la visione mistica della struttura aziendale di cui Pietro e molti personaggi fanno parte (il Videogioco, come lo chiama Pietro), una struttura metafisica che rimanda alle creature-stato orwelliane, non meno che alle loro realizzazioni cinematografiche fatte da Terry Gilliam (Brazil), oltre che da Fritz Lang nel suo capolavoro Metropolis del 1927.
Caos Calmo, dunque, oltre che un libro umanamente tragico, è un libro profondamente-materialmente mistico.
La lingua. Da Pasolini e Malaparte verso Raymond Carver
La lingua che usa l'autore, o da cui l'autore è usato (dato che la vera opera d'arte ha un'anima propria, un proprio destino) si è affilata come una splendente Katana attraverso una miriade di letture che Veronesi ha fatto nel corso della sua vita. Alcune note, tuttavia, sono più marcate di altre e danno un sapore vero e meravigliosamente animalesco al suo potente dettato. Lungi dall'avere la plasticamente rigida classicità di un Pavese o di un Moravia, la lingua dello scrittore pratese affonda le proprie radici in quello che è il nucleo magmatico dello sperimentalismo italiano (e non solo): essa pare sorgere, come un martello infuocato, dalle pagine più ispirate del miglior Pasolini, essa ha l'ampiezza e la strutturata complessità delle migliori prose buzzatiane, attraversa come un maglio le violenze verbali di Beppe Fenoglio e, non per ultimo, ha nel sangue la toscana, ruvida, dantesca incisività del suo grandioso conterraneo: Malaparte. Tuttavia è impossibile non riconoscere nella sua lingua un forte sapore nordamericano: che, partendo dalla ferrosità letteraria di London, attraversa tutto il novecento per approdare, come uscita dalla poderosa fucina di un fabbro del Nebraska: al suo amato Pynchon, a D. F. Wallace, e, soprattutto ai capolavori di Raymond Carver: Vuoi star zitta per favore? ne è l'esempio più lampante. Opera immortalata mirabilmente dal grande Robert Altman in America Oggi. Proprio come sarà fatto un memorabile film su Caos Calmo di Veronesi nel quale toccherà al grande Moretti interpretare la difficile parte di Pietro Paladini. (Lo stesso Moretti che riuscirà a fare, negli stessi anni, uno straordinario e profondissimo film su Berlusconi – Il Caimano – e sul berlusconismo in Italia, fatto che richiama la felicissima battuta di Paladini che pensa a Berlusconi per farsi passare una clamorosa, quanto inopportuna erezione). Sembra uscita da un racconto di Carver, inoltre, quello spettacolare personaggio che è la fidanzata del saturnino Piquet: che lo insulta senza poi rendersene conto, come se a offenderlo fosse il suo stesso inconscio finalmente e grandiosamente privo di veli o filtri. (Non si può dimenticare che di lì a pochi anni Veronesi avrebbe scritto uno dei più importanti e innovativi capitoli della letteratura italiana con il suo stupendo racconto Profezia, contenuto nella raccolta Baci Scagliati Altrove. Un racconto, appunto, genere che ha un'altissima e secolare tradizione nel mondo letterario – basti pensare a Cechov, a Kafka, a Borges, a Cortazar e, appunto, a Carver – e che sta avendo in Italia, purtroppo, una crisi di lettori, di editori, e di autori, pazzesca. Crisi grave quasi quanto quella che riguarda la quasi morte della poesia, in quanto a lettori, almeno).
E tuttavia nulla di tutto ciò influisce o determina in modo mimetico la nascita e la formazione linguistica di Veronesi e di Caos Calmo. Il grande scrittore sa che prima di ogni altra cosa, per diventare se stessi, occorre dimenticare. Liberarsi del beato fardello del prima, essere influenzati da tutto per poi rifiutare e superare questo tutto, e rimanere soli, nel deserto, come fecero i Padri, ad ascoltare il silenzio fecondo della propria voce.
Ecco da dove viene la lingua di Veronesi:
da sé e per sé, nella buia notte albina dell'Io:
nel fuoco, nel vuoto, nel vento...
La salvezza è solo dei pazzi e/o dei bambini
Un'altra prossimità, fratellanza con il capolavoro di Dostoevskij è data dal fatto che l'unica salvezza o redenzione o catarsi possibile per l'umanità possa arrivare soltanto dai pazzi o dai bambini. Ci sono entrambe le figure sia nell'uno che nell'altro libro ma, limitandosi a ricordare quelle del nostro scrittore, possiamo indicare, con una certa e voluta rarefazione e approssimazione che l'una, il Pazzo-Innocente è, in Veronesi, la sorella della moglie scomparsa, cioè la bellissima e purissima Marta, uno dei personaggi più straordinari del libro, e l'altra, naturalmente, è la figlia Claudia. Decisivo e memorabile angelo di salvezza sarà anche il geniale figlio di Piquet che, per ribellarsi all'insensatezza dei grandi (genitori compresi), ha deciso (e qui si aprono suggestivi scenari beckettiani: autore non a caso citato nell'incipit del libro) di contare all'infinito. Soltanto da loro Pietro, e con lui il Mondo, potrà essere salvato, forse...
Una certa critica progressista
Una certa critica superficialmente progressista potrebbe attaccare il libro di Veronesi dicendo che i suoi personaggi sono dei privilegiati, che la loro sofferenza è una sofferenza da ricchi, falsa, che le loro inutili lacrime neanche lambiscono le debordanti e sanguinose rive delle sofferenze umane, quelle materiali, quelle vere: la fame, la povertà, la malattia ecc. Queste critiche, purtroppo, sono toccate anche a tanti capolavori del nostro Novecento: a Carlo Levi, a Giuseppe Berto e in parte, allo stesso Calvino. E' quasi pleonastico ricordare le infinite e, spesso, deliberatamente faziose guerriglie che Curzio Malaparte ha dovuto (e, forse, anche, voluto) affrontare a causa dei suoi libri e, soprattutto, per via di quel grande e rivoluzionario romanzo che è La pelle. Anche il Partigiano Johnny non era abbastanza partigiano per alcuni instancabili censori della libertà espressiva e morale dell'epoca. Non voglio dilungarmi molto su questo punto, anche perché la stessa critica marxista che attaccava Cristo si è fermato a Eboli per mancanza di una seria indagine socio-materialista o Il male oscuro poiché frutto di uno scrittore politicamente disimpegnato (anarchico, per l'esattezza), o La pelle per il suo immenso furore espressivo (privo di inutili derive moralistiche), tentava di distruggere e polverizzare capolavori come il Viaggio al termine della notte celiniano per i motivi esattamente opposti.
Un libro, come un'opera d'arte, ha il solo dovere di essere vero, alto, profondo, bello, potente, nuovo, universale ecc. e non, o non solo, moralmente o politicamente impegnato. Alla grande causa del dolore umano reca certamente più vantaggio una Tragedia greca qualsiasi che non tutti i libri di Gorky messi insieme...
Nessuno, oggi, si sognerebbe di attaccare Tolstoj perché i suoi personaggi sono Principi o Capi di Stato. Inoltre, se mai ce ne fosse bisogno, la classe borghese mondiale, e quella italiana in particolare, negli ultimi trenta anni è stata falcidiata e distrutta da governi alternativamente di destra e/o di sinistra in un modo quasi sistematico.
Così come nessuno potrebbe accusare Orson Welles perché il protagonista di Quarto Potere è un magnate delle comunicazioni. Senza nulla togliere a Ladri di biciclette dell'enorme De Sica.
Il dolore è dolore, sia che lo provi un principe sia che lo provi un povero barbone...
Il dolore, come l'amore e la morte, molto democraticamente, è di tutti.
Un grande libro, come quello di Veronesi, non ha bisogno di essere politicamente corretto... ammesso poi che questa espressione, oggi, abbia ancora un senso chiaro e distinto.
L'Oracolo Delfico dei Radiohead
Ad avvicinare l'opera di Veronesi alla grecità nella sua essenza più alta, c'è poi il geniale adattamento dell'Oracolo delfico (molto vicino, seppure in un modo assolutamente unico e originale, alla folle bellezza e saggezza della Pizia di Durrenmatt) che, attraverso le canzoni dei Radiohead, guida le azioni di Pietro in un modo oscuro e ipnotico, per quanto luminoso... Ma l'Oracolo, seppur con tutte le imperfezioni del caso, diviene piano piano Pietro stesso che, moralmente temprato dal proprio dolore (che, si badi bene, non c'è e non dà alcun segno di una sua improvvisa rivelazione) raccoglie le sparute confessioni dei mortali che lo avvicinano entrando nel suo privato e primitivo e lucente ventre di balena (si veda Giona, ancora un riferimento biblico e Pinocchio, naturalmente): dove Pietro si è isolato per trovare quel senso vitale che a tutti noi, compreso a lui, sfugge. Ancora una volta, tuttavia, l'Oracolo ha bisogno dei pazzi e dei bambini per essere salvato (il Cd dei Radiohead glielo ha masterizzato Marta e sarà infine Claudia a liberarlo...).
Enoch, Giobbe e la sofferenza del giusto
Un altro esplicito riferimento biblico è dato dalla bellissima figura del suo collega di lavoro Enoch (responsabile delle risorse umane) che, dopo una lunga e sofferta meditazione sulla fusione finanziaria in atto nell'azienda dove i due lavorano, scrive un lungo e criptico documento sulla questione (un documento che ricorda in qualche modo la simbolica percezione kafkiana del Mondo: intesa nella sua incomprensibilità) il quale termina con una violenta bestemmia. Lui, dotato di una spiritualità marcata e osservante. Lui, che ha come unico desiderio quello di essere una persona perbene. Lui, la cui bontà raggiunge il più alto livello possibile per un essere umano. Proprio Lui...
Ecco che la visione di Veronesi si fa via via più ampia, si complica e si approfondisce... Enoch, attraverso il violento rovesciamento di se stesso, si libera dalla catena della volgare ambizione e trova l'estasi. La sua Bestemmia, come quelle del Giobbe biblico, ha più fede dei discorsi razionali e ragionevoli di chi lo circonda... E' lui l'eroe, non io, dirà Pietro alla fine del libro...
Così come sarà di Enoch la scintillante visione mistica che metterà a nudo tutta l'inutile e machiavellica corsa al Potere fatta dai personaggi più negativi, anche se profondamente umani nella loro vanità: ovvero alcuni dei superiori di Pietro stesso...
Anche Veronesi, come fece coraggiosamente e superbamente Dostoevskij nei Karamazov, non si identifica e non identifica il suo personaggio con il Santo, il Puro della storia (in questo caso Enoch) ma sceglie per sé e per il suo alter-ego uno spazio misto, colpevole e profondamente, dannatamente umano. Così come Dostoevskij non fu il buon Alesa né tantomeno lo Starec Zosima, ma il colpevole (almeno moralmente) Ivan, Veronesi è Pietro Paladini e non Enoch. La possibilità della svolta, dell'estasi, della purezza e della bontà esiste, ma non è per tutti.
Non a caso Virgilio non poté accompagnare Dante in Paradiso.
Eppoi, sarà l'ebraico Leviatano Isaac Steiner ad inghiottire tutto e tutti...
La Verità come Regressum ad Originem: l'atto sessuale come primitiva forma di conoscenza
Ecco che la verità in Caos Calmo si configura come un continuo regressum ad originem, come un primitivo ritorno allo stato naturale (alla bestialità animale, verrebbe da dire) e questo regressum è rappresentato in maniera folgorante dall'atto del sesso, prima fisicamente metaforizzato nel caso del salvataggio della sconosciuta assieme al fratello Carlo, poi messo brutalmente in atto (seppur con un tenace senso di colpa da parte di tutti e due) verso la fine del libro, con la stessa persona, ormai non più sconosciuta. Ecco che nel primordiale atto conoscitivo le distanze si annullano e le persone, anche nella loro palese diversità, diventano un Uno (così come accade nella potentissima scena che vede Pietro fumare col fratello Carlo, vero elemento caotico e prodigiosamente positivo dell'intreccio, dell'oppio, con la piccola Claudia che dorme a pochi metri di distanza). Stessa primordiale conoscenza, stessa primitiva, quasi prometeica unità, stesso senso di colpa. (E' da notare che anche l'intero processo narrativo de I fratelli Karamazov, e la sua conseguente potenza filosofico-morale, sono tenuti insieme dall'atavico concetto della rifrazione della Colpa che accomuna tutti i protagonisti e, insieme a loro, tutti gli uomini rendendoli ugualmente colpevoli. Tranne, come si è detto: i Pazzi e i Bambini).
La psicoanalisi nell'opera letteraria: Veronesi tra Svevo e Berto
Un ruolo trasversale ma ubiquo è rappresentato in Caos Calmo dalla presunta funzione salvifica, rasserenante, ancorché spesso inutile, della psicoanalisi. Poco importa di quale tipo si tratti. La diffidenza che Pietro-Sandro prova per tale pratica, che per buona parte del nostro secolo (il Novecento) è stata presentata quasi come una panacea-religione, è la stessa dei due grandi scrittori italiani che più degli altri hanno costruito sul freudianesimo un anti-sistema letterario. Nell'opera di Veronesi, come accadde sia per Svevo che per Berto, essa non è altro che un filtro e un contrasto comico su cui far vibrare le necessarie corde dell'irrimediabilità del dolore e della morte.
Miller, Céline, Melville: la Bestemmia o Dioniso che danza
Un aspetto che lega Veronesi alla più grande tradizione tragico-epica occidentale è la visione dionisiaca che si manifesta improvvisa nel suo romanzo come una violenta e dolorosa ed ebbra epifania: Dioniso appare, si svela, in modo evidente in Caos Calmo in svariati punti cruciali, come a dare una profonda scossa elettrica al lettore che crede di sapere dove andrà a parare l'autore. Alcuni dei casi pù manifesti, ma non ne mancano altri più sottesi e nascosti, sono: la mail che Pietro scopre nel PC di Lara dopo la sua morte (che pare scritta da Dioniso stesso in preda ad un'allucinazione), la bestemmia salvifica di Enoch (come non ricordare le ripetute bestemmie di Achab nell'estasi dionisiaca mentre assoggetta l'equipaggio a sé) e l'esplicito riferimento allo sterco nell'atto sessuale che chiuderà l'anello sacro-sacrificale della storia intera (a tale riguardo si possono assolutamente citare le straordinarie pagine del Tropico del Cancro di Miller dove lo sterco e il sublime si fondono in un unico amplesso estatico scritturale).
Non è trascurabile, per la percezione estetico-linguistica dell'opera, come il linguaggio di Veronesi sia crudo, mai edulcorato o manieristico, ma lavico e matericamente violento ed espressivo come lo furono, e lo sono tuttora, quelli di un Céline o di un Alfred Doblin.
Il Capolavoro sfugge anche al controllo del suo autore: Michelangelo, Nietszche, Joyce
Si potrebbe continuare a lungo ad osservare le straordinarie scintille di senso che Caos Calmo lascia, dopo un'attenta lettura, dietro di sé: come fosse una miracolosa ed incendiaria cometa nella notte. Si potrebbero elencare, come fa Pietro Paladini nelle sue curative e favolose liste, le luccicanti citazioni che l'autore lascia nel suo dettato come pepite notturne e lucenti: dal grande Caetano Veloso che intarsia velatamente un dialogo di assoluta bellezza, alle ripetute citazioni di Dostoevskij, spesso gettato in modo improvviso nel testo come un fulmine-sasso che irrompe in modo cruciale negli occhi del lettore, alle sorprendenti citazioni cinematografiche (tra cui spicca l'intenso accenno al Grande Lebowski dei fratelli Coen), agli elegantissimi elementi pop che percorrono tutta l'opera, al felliniano e superbo uomo della pommarola, ai grandi eroi sportivi dei cui nomi e gesta è disseminata l'intera storia letterale di quel testo così grande, feroce, così profondamente umano.
Ma più s'indaga un'opera d'arte, come diceva Rilke, e più ci si allontana da essa.
E se la scrittura di Veronesi per certi versi affronta (e vince) le impossibili e bellissime strozzature Joyciane, a me piace pensare Sandro mentre scrive il suo capolavoro, come al vecchio e pazzo Nietszche che, passeggiando solitario per la casa, si mette a piangere come un bambino non appena scorge, su un tavolo malconcio, oppure nella sua ormai morente libreria, il suo Zarathustra...
E ancora di più penso a lui come al povero, grandissimo e testardo Michelangelo (citato magnificamente nel libro) che diventa cieco mentre affronta per quattro, fulmineamente infiniti anni, la sua tremante Sistina...
E, in fondo, ogni grande opera non è soltanto di chi la crea, ma anche e soprattutto, di chi ne può godere appartato nel miracoloso ventre della propria solitudine...
Di chi, come noi, non aspetta altro che un libro,
quell'ingiallito, potente e fragilissimo libro:
possa cambiargli per sempre la vita.
Gabriele Lastrucci,
Prato, 2017.
A proposito di due libri di Emiliano Gucci
ovvero
La Primitiva Forza del Vento
di Gabriele Lastrucci
Pubblicato sul sito web della redazione pratese del quotidiano QN La Nazione
il 26 Settembre 2017
Per molto tempo ho cercato di decifrare l'oscura forza di un testo letterario, di un'opera d'arte, attraverso il solo strumento della ragione culturale. Per molto tempo ho ingenuamente pensato che lo scrittore dovesse essere prima di tutto un rigido e infallibile letterato, un intellettuale colto e raffinato che non dovesse quasi mai cedere all'istinto, all'errore, al giusto e sovrumano caos delle cose. Per molto tempo ho dubitato che la sola e primitiva potenza dell'intuizione e del lavoro cieco e instancabile potessero costituire il pernio e la scintilla spirituale per un grande atto creativo.
Per molto tempo mi sono sbagliato... naturalmente.
D'altronde, come recita inesorabilmente un antico versetto del Talmud: Tutto è Diverso.
E tutto è stato veramente, ferocemente diverso quando ho iniziato, ricolmo di dubbi e insopportabili reticenze intellettualistiche, la lettura dell'ultimo romanzo di Emiliano Gucci: Voi due senza di me. Le prime cinquanta pagine del suo lavoro recavano nella lettura qualcosa di troppo classico, di troppo controllato, e avevo il timore che lo scrittore fiorentino avesse avuto quasi una sorta di pudore nello sviscerare le insondabili sofferenze e bestialità dell'animo umano. Temevo che Gucci fosse inciampato in un'aiuola di fiori troppo regolari, del tipo che tanto rattristava il grande Pessoa (che pena mi fanno i fiori dei giardini regolari, sembra che abbiano paura della polizia, così si espresse Fernando nel suo capolavoro: Il Libro dell'Inquietudine).
Nulla, in quelle pagine, mi aveva preparato alla travolgente corrente scritturale del seguito, una corrente che mi avrebbe poi trascinato in un gorgo infuocato fino allo straordinario esito dell'opera.
La storia d'amore narrata, superate le tranquille acque dell'incipit, s'infiamma e si trasforma inesorabilmente in uno scenario potentemente tragico. Attraverso alcuni perfetti ordigni narrativi (il più drammatico e dantescamente infernale di tutti è sicuramente la spietata lotta tra due cani inferociti a cui il protagonista maschile (Michele), e assieme a lui tutta una Firenze immortalata da Gucci in un immenso azzurro ancestrale, che tanto contrasta con il nereo biancore della vicenda umana narrata, assiste impietrito) sembrano rimandare ad un quadro di Caravaggio selvaggiamente squarciato da un film di Tarantino, più che a un pacifico e rasserenante dipinto romantico.
Nella seconda parte del libro, dove i due protagonisti s'incontrano a dieci anni di distanza come raggelati da un fatale lampo temporale, la follia si esprime in tutta la sua dolorosa bellezza nello scenario nevoso che incornicia la protagonista (Marta) facendole incontrare, su una gelida panchina oracolare, una vecchia e follemente veggente Circe che sembra gettare un improvviso fuoco di verità nel suo sperduto cuore (e anche nel nostro: così buio, ormai lacerato cuore) quasi a illuminare di senso una storia, un profondo mistero, che incatena come dannati i due amanti.
E tuttavia, ancora una volta, l'autore non è lì dove crediamo di trovarlo, egli, come un oscuro angelo ubriaco, ci fa sbandare nell'irrimediabilità e nell'insolubilità delle cose umane, della vita stessa.
(Gli avvenimenti importanti della vita si compiono in uno spazio che mai la parola ha varcato. La verità è indicibile. Così ci ammonisce Rilke nella celebre Lettera ad un giovane Poeta).
Per certi aspetti, il libro di Gucci rimanda, seppur con il carattere e la forza di un'opera unica, al Gattopardo del Lampedusa. Ha la sua stessa sanguigna classicità, la sua stessa pessimistica ma profondamente vitale visione del mondo, la sua stessa forza espressiva ed esistenziale.
Ma si potrebbero affiancare all'opera di Gucci anche altri classici contemporanei: da Le Braci di S. Marai a Una questione privata di Fenoglio.
Una particolarità nella sua personalissima cifra stilistica è rappresentata sicuramente dall'uso meta-empirico dei colori. Se nel primo incontro fiorentino tutto è pervaso da un'immane e incendiaria Azzurrità, la seconda scena narrativa viene inquadrata splendidamente attraverso un Biancore sporco e lancinante (come non ricordare a tale proposito la straordinaria trilogia filmica dei colori dell'immenso regista polacco Krzysztof Kieslowski).
Potrei anche finire qui il mio discorso sull'opera dello scrittore toscano e affermare che egli s'inserisce come un poderoso faro nello scenario, spesso deprimente, della letteratura italiana contemporanea. Ma tutto questo, che per Voi due senza di me può avere un qualche, anche se limitato, valore interpretativo, viene violentemente contraddetto (almeno in parte) dalla lettura del suo precedente libro: Nel Vento.
Nel Vento è un romanzo breve, come lo scatto sulla pista che deve affrontare il suo protagonista, ma infinitamente più ardito e sperimentale.
Nelle poche, densissime e magmatiche pagine di questo piccolo gioiello letterario, si assiste al disfacimento narrativo e linguistico tipico di una certa letteratura del Novecento, una letteratura di razza, s'intende (Cortazar, Joyce, Bernhard). Attraverso la scarna intelaiatura dell'intreccio, quasi supremamente sintetica come una statua di Giacometti, si viene intrappolati in una vera e propria tragedia contemporanea. Dietro la realistica metafora di una corsa podistica si assiste al crollo definitvo e implacabile di tutte le speranze e i sogni umani: dell'inutilità ed infinita vanità di tutte le cose, direbbe Leopardi. La difficilissima architettura dei vari, brevi e folgoranti capitoli, è legata da un fittissimo labirinto di intarsi simbolici, da incessanti glaciazioni ed esplosioni di attimi che polverizzano il racconto in una miriade di simultanee percezioni. Il passato, il presente e il futuro sono fusi tra loro come un incandescente nucleo di tempo che riaffiora dal testo in modo inatteso e straordinario: come un violento sasso scagliato negl'occhi del lettore. Poco conta se il dramma iniziale (manifesto elemento noir che rappresenta l'unico vero contatto con il romanzo successivo) non si risolve in una luccicante, ancorché artificiosa, panacea conclusiva. La circolarità forzata, in questo caso, sarebbe stata una sicura facilitazione per il lettore, ma avrebbe terribilimente impoverito la genialità e l'originalità dell'opera stessa. Esso (l'omicidio del fratello operato dal padre) funge come un cosmico Big-Bang che non smette mai di eruttare nella mente del protagonista eterni fulmini di vissuto, portandolo necessariamente (e con lui l'intero mondo) verso l'inevitabile, eppure eroico, dissolvimento.
Dunque, infine (anche se la fine, forse, non c'è, e Tutto è maledettamente sempre Diverso), questi due libri di Emiliano Gucci, non sono soltanto il frutto di un incessante (e sommamente inutile) accumulo culturale-letterario. Forse, ancora una volta e definitivamente, occorre avere un profondo senso di umiltà verso lo stesso atto creativo. Un'umiltà che urla che lungi dal guardare fuori, verso l'esterno - nei titoli degli altri, nei libri degli altri, nelle vite degli altri - bisogna soprattutto chiudere i nostri polverosi occhi e guardarsi dentro. Forse è la nudità che va cercata con forza e abbandono e non, o non solo, l'abbondanza (anche se solo culturale). Forse scrivere, come giustamente osservava Michelangelo, è più un togliere che non un insensato e affannoso aggiungere ed accumulare senza sosta. Forse, dopo sterminate ore e giorni e anni di lettura (quelli che sicuramente ha fatto, e che continua a fare, Emiliano) l'artista, l'uomo, deve prima dimenticare tutto per trovare la propria voce. Forse, ancora, egli deve dolorosamente dimenticare quella stessa voce che aveva trovato in principio e abbandonarla per sempre, per andare a cercarne un'altra nuova altrove, nel buio, insondabile e colossale abisso della propria anima.
Per poi, come un monaco ferito e illuminato, dimenticare anche se stesso...
E perdutamente, Trovarsi...
Gabriele Lastrucci,
2017.
A cosa servono gli occhi
di
Laura Del Lama
Una straziante, notturna rivelazione di Gabriele Lastrucci
Pubblicato sul sito web della redazione pratese del quotidiano QN La Nazione
il 29 Novenbre 2017
Dopo aver letto i primi tre racconti del Libro di Laura Del Lama mi sono accorto che qualcosa, in me, si era rotto. Ero spaventato da quel lucente imbrunire di bagliori che il testo di Laura sprigionava con una forza febbrile e selvaggia. Nel prosieguo non ho potuto fare altro che accogliere quel doloroso luccichìo come fosse il mattutino presagio di un'eclissi imminente: immane.
I racconti di Laura, le sue mirabili e brucianti short stories (termine che fu coniato per gl'improvvisi fuochi letterari dell'infero Carver, autore che è un prossimo, straordinario parente prosatore dell'autrice pratese) non sono racconti. Almeno nell'accezione classica che siamo usi attribuire a questa espressione. Se li paragoniamo a quelli di alcuni dei più importanti autori di questo venerabile genere (ancorché sofferente e vittima di una profonda e prolungata crisi) come Cechov, Kafka e Borges, essi sembrano distanti e saldamente unici ed originali: come delle altissime comete che ci raggiungono da un futuro quasi immortale.
Infatti questi racconti non sono racconti. O, almeno, non soltanto. Essi sono vere e proprie parabole contemporanee. Questi fiammanti organismi letterari possiedono una struttura, o meglio, un'anima, quasi perfettamente circolare. Ogni racconto rivela una sofferta e stratificata componente filosofico-morale che lo eleva a una funzione disperatamente sapienziale. Il finale degli stessi si apre come un sublime sovvertimento biblico quasi a sferrare un poderoso attacco al senso comune. (Si veda, ad esempio, il rovesciamento volutamente straziante del ruolo di madre sia in La cagna che in Come se niente fosse successo).
All'interno del volume, poi, come a scardinare un intero e volutamente roccioso procedimento creativo, si trova un vero piccolo capolavoro esistenziale: Ciò che veramente avvenne tra Dimitri Salina e la piccola zingarella. (Che rimanda ai più riusciti racconti di Hemingway e a quelli ancor più folgoranti di Alice Munro). In questo vigoroso apologo dello straniamento moderno la Del Lama ci scaraventa addosso tutta l'insana, insensata e febbrilmente umana follia dell'anti-eroe contemporaneo. In poche righe si toccano e sanguinano tutte le esplosive passioni dell'uomo (inteso nella sua Umanità): dall'amore per la prostituta Nina, all'inafferrabile fiume della vana corsa all'orologio metropolitano, al linciaggio pubblico e indifferente dei passanti (così come avvenne nella potente e illuminata scena finale di Arancia Meccanica di Kubrick, film tratto dal già notevole romanzo di Burgess), alla sorprendente (e ancora una volta parabolica) catarsi della zingarella-ladra che, insieme a se stessa, redime anche il malconcio e rassegnato Dimitri che pure l'aveva aggredita. Personalmente, e con una certa presuntuosa sicurezza (intendo la mia, naturalmente), accosterei questo stupendo racconto-parabola di Laura al bellissimo romanzo breve che Joseph Roth scrisse quattro giorni prima di morire alcolizzato e in povertà a Parigi: La leggenda del santo bevitore. (Anch'esso, come la storia di Dimitri, ambientato a Parigi. Testo da cui fu realizzato il grande film di Ermanno Olmi del 1988 interpretato dal non meno grande Rutger Hauer nei panni del Clochard).
Non c'è niente di femminile o femminista in questo libro, poiché non c'è niente di maschile o maschilista in esso. L'opera letteraria, grazie a Dio, non ha sesso, ma ha e deve avere un'anima, uno spirito, una carne: anche se ferocemente, umanamente bestiale come in questo caso.
E in questo libro si trova, in pochi scarnificati tratti d'Autore, tutto il tragico scenario dell'Umanità così follemente, gloriosamente ferita.
Gabriele Lastrucci,
2017.
Su L'Umanità
un libro di Emiliano Gucci
di Gabriele Lastrucci
Pubblicato il 21 gennaio 2018 su Retroguardia Letteraria 2.0
Vola alta, parola, cresci in profondità,
tocca Nadir e Zenit della tua significazione,
però non separarti da me,
ti prego,
sii Luce,
non disabitata trasparenza.
(Mario Luzi)
Non scriverti tra i Mondi,
Al margine della traccia di lacrime
Impara a vivere.
(Paul Celan)
Qual è l'Umanità di cui scrive Gucci in questo potente e necessario libro? O, meglio, quali sono le plurali e dolorose umanità protagoniste di questo testo meravigliosamente straziante e neramente luminoso di cui l'autore toscano è portatore e, insieme, tragico e appassionato demiurgo-spettatore? E, in fondo, chi siamo noi, smarriti cercatori di popolate e sanguinanti solitudini?
C'è un forte senso di fatalità che viene emanato da tutte le opere di Emiliano Gucci, un'estasi nera, che si conficca nella carne del lettore come un chiodo arrugginito che corrode inevitabilmente tutte le fatue certezze che possedeva: risvegliandolo. Ne L'Umanità la sua lingua si scarnifica e affonda nella pagina quasi a mostrare lo scheletro sbalordito e incrudito di una storia randagia, d'asfalto, ruvida come uno scoglio affilato: che rimanda furiosamente alle opere di Dostoevskij: da Memorie del sottosuolo a Povera gente a Delitto e Castigo. Alcuni tratti del suo lavoro sono ricorrenti nelle varie opere come fossero dei saldi ancoramenti narrativi che gli permettono di non affogare nella superfluità del dettato: la morte, il vibrante senso di colpa (di natura tragica), l'incontro, appunto, fatale, dove si tenta una possibile catarsi e liberazione dei protagonisti e si lascia intravedere un tenue spiraglio di luce. Si tenta... poiché nei suoi libri, come nella vita, il passato finisce sempre per inquinare le cristalline onde del futuro e, insieme, della felicità sperata.
La vita è sogno diceva lapidariamente Calderon de la Barca. Ma i sogni dell'uomo, invece di far librare l'individuo in un bianchissimo Paradiso artificiale, sono più spesso un lugubre meccanismo depressivo e inquietante dove s'incontrano le ombre serpeggianti della propria esistenza: i lutti, i demoni interiori, i folli distacchi d'amore. Nel romanzo di Gucci, i fantasmi che incontriamo hanno sembianze terribilmente e poeticamente umane. Il protagonista, lacerato da un tragico episodio che lo lega come un macigno al suo passato, è una figura profondamente viva e carnale. Attraverso le disperanti controversie lavorative (la fabbrica, la disintegrazione sistematica dell'individuo attraverso lo sporchissimo, disumano lavoro, la droga, l'immigrazione clandestina progettata per lo sfruttamento più bieco: dove un uomo può sparire come un verme schiacciato nella pressa) egli arriva a quella liberatoria saturazione che sola può scioglierlo da un nodo così enorme, devastante. Egli tenta di distruggere implacabilmente quel mondo e se stesso. Ma, come avviene nelle storie così tremendamente vere e profonde, anche l'annientamento non (o non sempre) è possibile percorrerlo fino alla sua più naturale conclusione. Per fortuna. C'è Valentina che lo trattiene in un salvifico miraggio di speranza e d'amore. E, soprattutto, c'è Gianluca, il vero involontario e vitale eroe del libro. Prorio il responsabile occulto della tragedia consumata in un passato così violentemente presente, solo lui potrà svelare uno spiraglio di luce dove il protagonista verrà trascinato quasi con una sicura e fanciullesca forza d'amore.
Un improvviso e squarciante lampo di mistero è, ancora una volta (come avverrà poi nel successivo Voi due senza di me), fornito dalla presenza lucifera di un elemento mistico (una zingara-veggente, in questo caso) che contrasta mirabilmente con il nerore incendiario di una storia giocata su precisi e potenti scenari realistico-esistenziali (e qui non può non venire in mente lo spettacolare viaggio mistico-magico di Margherita che sorvola una bellissima e lunare Mosca nel capolavoro di Bulgakov).
La lingua di Gucci, soprattutto in questo romanzo, è muscolosa e ferrea come un mantice: vera coprotagonista del libro. Il suo stile scabro e asciutto, ancorché febbrile, si configura come uno strumento perfetto per indagare gli oscuri meandri del nostro animo. Le visioni collaterali (la finestra che mostra il materno omicidio del vicino di casa, il lago nebbioso che, come un magico nido, si staglia per l'incontro con Loredana e Valentina, la nera pioggia – sporca di dolore e di petrolio – che tutto bagna ma che nulla, disperatamente, lava) sono vere e proprie epifanie che illuminano un testo per altri aspetti maestosamente buio e desolato.
Allora L'Umanità non è un moderno romanzo sul nulla vagamente flaubertiano ma il contenitore lavico di una tragedia immane e imminente che si snoda attraverso le feroci parole-mondo dello scrittore fiorentino che più di ogni altro suo collega contemporaneo riesce a scavare a mani nude l'insondabile e bestiale fiume delle passioni umane. Il suo occhio, la sua mano, insieme al suo universo letterario, non sono mai uno sparuto e distaccato spettatore che osserva l'incedere delle storie narrate con fredda matematicità. Egli, non solo partecipa con tutto se stesso al racconto che sta scrivendo: egli è inevitabilmente, fatalmente quel racconto. La fragilissima copertura e maschera narrativa che usa fa emergere, come un fiammante arcobaleno di dolore, la verità stessa del suo autore: Gucci non è soltanto nel libro come un deus ex machina che ordina e fa accadere le cose, ma è il libro stesso nelle sue pieghe più intime. Egli si mescola e si perde infinitamente nello stesso caos emotivo-scritturale che ha creato proprio perché nulla di quel doloroso caos è invenzione o astrazione: bensì ogni fibra di quel mondo tragico e bellissimo è uscita e ribolle come un immenso incendio dal suo cuore.
Gabriele Lastrucci,
2017.
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Gabriele Lastrucci
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