I monasteri serbi
un approfondimento storico e culturale su una selezione
dei più importanti
scriptoria serbi del XIV secolo

Il monachesimo e lo sviluppo culturale del XIV secolo

Prima che lo stato serbo medievale nascesse nel XII secolo, ci furono diversi tentativi di riunificazione che partirono dalle province costiere. Nella prima metà del XI secolo, la debolezza dell'Impero aveva permesso al principe Stefano Vojislav di unire il principato di Zeta a quello di Travunia e Hum, ritrovandosi adesso a governare un regno con tre arcidiocesi, quali Spalato, Durazzo e Ocrida, senza una sede metropolita. Nel 1066 circa, quando venne istituita la diocesi metropolitana di Dioclea, con il suo centro a Bar, si posero le basi di una dipendenza ecclesiastica e culturale prettamente latina per questo nuovo agglomerato di principati. Quasi cento anni dopo, le subordinazioni religiose erano ancora altalenanti tra Roma e Costantinopoli: fu allora, il 29 dicembre del 1167, che Papa Alessandro III estinse la diocesi di Bar e pose tutte le sue circoscrizioni sotto la giurisdizione di quella di Ragusa. L'intera costa adriatica diveniva così sempre più latina, non abbandonando del tutto però la tradizione bizantina che vi si era impiantata negli anni.

Alla luce di questi contatti sempre più stretti con Roma, la Serbia, ancora formalmente dipendente da Costantinopoli, era alla ricerca di segnali di debolezza bizantina dei quali approfittare per affermare il proprio potere politico. Questi si fecero abbastanza evidenti nel 1166, quando l'imperatore Manuele I Comneno si trovò in difficoltà tali da esser costretto ad offrire al Papa un'unione ecclesiastica, una cosiddetta ‘corona romana riunificata’, in cambio di alleanze ed aiuto militare (Vlasto 1970: 210-213). Così, mentre il secolo volgeva al termine, alla morte di Manuele I, Stefan Nemanja fu libero di coordinare una progressiva invasione delle terre slave in mano bizantina, promuovendo una nuova indipendenza per lo stato serbo ed inaugurando il secolo della sua potente dinastia.

A partire dal 1180, il gran župan Nemanja riuscì ad unire la maggior parte delle terre serbe in un unico stato, allineandosi, quanto alla politica estera, nuovamente con Bisanzio. Questa unione intensificò sempre più quella forte influenza spirituale e culturale, sia sulla sua corte quanto sul suo apparato ecclesiastico, che per secoli aveva gradatamente condizionato i popoli serbi. Come abbiamo visto, tuttavia, una parte del regno era abitata da serbi, greci e slavi di cultura latina e fu per questo motivo che Stefan iniziò una politica di omologazione culturale e religiosa per tutta la popolazione in modo da far prevalere la cultura serba e la fede ortodossa.

La svolta avvenne quando, con il permesso del patriarca costantinopolitano Manuel Sarentenos, Ratsko Nemanijć, più noto con il nome monastico di Sava, divenne il primo arcivescovo della Serbia nel 1219. San Sava estese i confini dell'arcivescovado autocefalo ai quelli dello stato serbo e fondò sette nuove diocesi accanto alle tre diocesi greche esistenti (Ras, Prizran e Lipljan). Egli stabilì la cattedrale dell'arcivescovado nel monastero di Žiča dove rimase fino al 1257, quando a causa della minaccia rappresentata dai tartari e dai cumani fu trasferita nel monastero di Peč (cf. Čanak-Medić et al. 2014). Lo stretto legame che San Sava stabilì tra la Chiesa e lo Stato permise alla Chiesa serba di prosperare durante la crescita politica ed economica del nuovo Stato serbo medievale, che raggiunse il suo apice durante il regno del re Stefan Uros IV Dušan (Cvetković 2012: 131-132). Infatti, nel 1346, l'arcidiocesi serba fu elevata al rango di patriarcato in modo che il neoeletto patriarca Joanikije II potesse incoronare Dušan.

Il cristianesimo ortodosso medievale serbo raggiunse la sua espressione più originale nell'iconografia e negli stili architettonici, quali rispettivamente di Raška, di Vardar e di Morava, nei monasteri medievali costruiti dai sovrani serbi.Inizierà proprio con Stefan Nemanja la tradizione di realizzarli per sé stesso e per i propri discendenti: ne costruì molti, tra i quali il complesso monastico di Studenica, quello di Djurdjevi Stupovi a Ras e quello della Santa Vergine a Kuršumlija. Da quel momento in poi, ogni membro della dinastia ne fondò diversi, ponendovi un albero genealogico che riconduceva sempre la famiglia regnante di quel periodo alla santa discendenza di San Simeone e San Sava. A quelli di Stefan Nemanja, infatti, seguì una lunga serie di costruzioni, cominciando da Vladislav, il secondo figlio di Stefan Prvovenčani, che costruì il monastero di Mileševa. Uroš I, poi, costruì il monastero di Sopoćani con i suoi squisiti dipinti, sua moglie Helen costruì il monastero di Gradac dalla forte influenza gotica, e il loro figlio maggiore Dragutin migliorò il monastero di Djurdjevi Stupovi e completò il monastero di Arilje. Il figlio minore Milutin costruì il monastero di Banjska come suo mausoleo e il monastero di Gračanica come sede del vescovado mentre il suo successore, Stefano Uroš III fondò il famoso monastero di Visoki Dečani (Ćirković 2004: 58-63).

Inizialmente, questi monasteri dovevano essere privi di particolari funzioni culturali dato che nascevano come mausolei ad uso prettamente funerario. Le chiese, infatti, erano destinate a custodire la tomba del loro fondatore o dei suoi familiari, e la confraternita del monastero che si installava negli edifici circostanti, era tenuta ad occuparsi di quel piccolo complesso monastico, tenendo funzioni commemorative per l’anima del re fondatore. Gradualmente, però, a questi monasteri vennero affidati compiti sempre più importanti: sostituivano gli ospedali, venivano spesso usati come luoghi di rifugio dalle incursioni nemiche o come luoghi di pellegrinaggio per la venerazione delle reliquie dei re, diventavano laboratori per la produzione di icone e manoscritti miniati. Si svilupparono così molti scriptoria monastici, luoghi di produzione manoscritta che supportavano i monaci nella divulgazione dell’alfabetizzazione. La maggior parte di loro, in realtà, era semianalfabeta e faceva del proprio meglio per diffondere la fede tra la gente, coniugandola ad un minimo insegnamento scolastico (Radić 2007: 239-240).

Tali costanti attività scrittorie delle quali oggi abbiamo testimonianza elevavano il singolo complesso monastico a centro di diffusione culturale e spirituale che si ripercuoterà nei secoli successivi. È in questa ottica che, oggi, il XIV secolo riveste per gli studiosi un ruolo chiave nel lungo periodo serbo medievale. In questo secolo, si realizzarono grandi progressi per la Chiesa serba: ciò si espresse non soltanto nel suo innalzamento da arcivescovato a patriarcato nel 1346, ma soprattutto in quel fondamentale sviluppo della cultura medievale ortodossa ad opera di celebri personalità del clero serbo. Ne sono degni esempi Danilo II, un igumeno del monastero di Hilandar che divenne arcivescovo della chiesa serba dal 1324 al 1337 e vescovo di Hum nel 1317 e il patriarca Jefrem (1375-1379; 1389-1392), che era di origine bulgara (cf. Špadijer 2016: 159-160).

Fu il secolo in cui si strinsero forti legami anche con il monachesimo del Monte Athos. Non ci sono dati certi sulla presenza di monaci serbi prima della metà del XII secolo, anche se probabilmente si era già stabilito un piccolo numero di eremiti o membri di confraternite simili a quelle di Lavra, Vatopedi o Iviron, e certamente si può segnalare la presenza di alcuni pellegrini itineranti. L'esistenza della tradizione serba sulla Santa Montagna è inseparabilmente legata all'arrivo nel 1191 di San Sava, anche se la data ufficiale per gli studiosi risulta essere il 1198 quando la chiesa principale del monastero di Hilandar fu completata (Janković 2011: 79). Nel XIV, poi, i progressivi sviluppi dello stato serbo portarono a un accrescimento numerico dei monaci serbi nei monasteri della Montagna Santa (Gjuzelev 2008: 145). Testimonianza di ciò fu una fervente attività manoscritta, ricostruibile a partire dall’archivio del monastero di Hilandar ma anche nell’eremo di Karyes e nel monastero di Panteleimon. Approfondendo poi ulteriori connessioni bizantine, è possibile ritrovarle anche nel tetravangelo serbo Add. MSS. 39626 conservato presso il British Museum di Londra, originario della cattedrale dei Santi Teodoro a Serres. Si tratta di un testo trascritto dal ‘rasoder’ Kalist per ordine del metropolita Jakov di Serres, quest’ultimo autore di ulteriori manoscritti serbi (cf. Špadijer 2016, Davidović 2016).

Nel tentativo di ricostruire parte dell’attività scrittoria del XIV secolo, qui di seguito sono riportate le informazioni dei maggiori centri monastici serbi che hanno contribuito all’importante progresso della cultura e della religione medievale ortodossa attraverso la produzione di manoscritti.

Il monastero di Hilandar
Monte Athos
, Grecia

Situato nella parte settentrionale del Monte Athos in Grecia, il monastero di Hilandar si trova nella stessa posizione di un primo insediamento monastico fondato dal monaco Georgije Helandarios nel X secolo circa. Secondo i resoconti, il monaco era una personalità molto conosciuta e rispettata sulla Santa Montagna e il suo nome suggerisce qualche connessione con le navi da carico, conosciute con il termine greco chelandion, riconducibile alla ‘galea’ tipica bizantina. Per questo motivo, dunque, è possibile tradurre il suo nome come Georgije il Navigatore e la vicinanza del monastero al mare stesso ne spiega la denominazione (Janković 2011: 80).

Nel corso dei decenni, il monastero cadde in rovina, insieme a molti altri di Mileja, nome con il quale veniva chiamata quella zona del Monte Athos nel medioevo. A causa dei costanti attacchi e saccheggi da parte di banditi, venne abbandonato per lungo tempo e soltanto grazie all’intervento di ristrutturazione del re Stefan Nemanja (Simeon) e di suo figlio, il principe Rastko (Sava), Hilandar divenne uno dei monasteri serbi ortodossi più importanti (Bogdanović et al.1978: 36).

La questione relativa la giurisdizione serba e, quindi, l’effettiva indipendenza del monastero di Hilandar nel Monte Athos necessita di essere approfondita poiché il monastero, dall'inizio del XII secolo, godette dello speciale status di lavra imperiale, ovvero di un monastero sotto la protezione dell'imperatore, esente da ogni tassa e indipendente dalle autorità ecclesiastiche in tutte le questioni amministrative, sebbene non in materia di giurisdizione ecclesiastica (Ferjančić 1998: 51).

Alla fine del 1197 o all'inizio dell'anno successivo, infatti, Simeon e Sava, che allora era monaco presso il monastero di Vatopedi, decisero di ricostruire il monastero derelitto e i santuari circostanti in accordo con l'abate di Vatopedi. La richiesta di intervento fu portata fino a Costantinopoli dal monaco Sava in persona all'imperatore Alessio III Angelo che la accettò, revocando la giurisdizione del Protos su quegli edifici e sottomettendoli dunque a Vatopedi. All'inizio della primavera del 1198, però, ci fu un completo ribaltamento della situazione. Il Consiglio degli abati del Monte Athos e l'arcivescovo Gerasim contestarono il potere riconosciuto a Vatopedi su Hilandar, e chiesero a Simeon e Sava di occuparsene in prima persona, senza alcuna mediazione con altri monasteri. Nel giugno nel 1198, Alessio III ottemperò alla richiesta del Consiglio di Karyes, del Proto e dei monaci serbi, emanando una nuova crisobolla per annullare la precedente decisione ed assegnare gli edifici da ricostruire sotto il totale controllo di padre e figlio. Immediatamente, così, il monaco Simeon si trasferì da Vatopedi al suo monastero, continuando i lavori di costruzione già intrapresi (Todić 2015: 3-10).

Inoltre, insieme a quanto stabilito dalla crisobolla, Hilandar ricevette dal re Stefan II Prvovenčani anche nove villaggi nei dintorni di Prizren, nell'attuale Kosovo, una montagna, due vigneti, quattro fattorie dedite all’allevamento di api e centosettanta contadini. Venne, così, assicurato un certo benessere dal punto di vista economico del monastero, ma non è certo da sottovalutare l’importanza della prima confraternita che vi si stabilì, composta da uomini di altissimo livello culturale. Il suo nucleo, costituito da importanti nobili devoti al re Stefan Nemanja, che lo avevano seguito dalla Serbia, diede un'impronta aristocratica al monastero, cosicché la ricchezza e una certa eleganza rimasero una caratteristica del luogo, anche nel periodo dell'occupazione ottomana (Janković 2011: 83).

Il complesso monastico si presentava con una fortificazione protettiva a forma di anello, costruita appositamente per difendersi dai frequenti saccheggi e, soprattutto, per aumentare l’isolamento sociale tipico della vita monastica. All'interno della cinta muraria, fu costruito il katholikon, dedicato alla Presentazione della Madre di Dio e probabilmente allo stesso periodo risalgono le rispettive torri di San Sava e di San Georgije e la cella di San Simeon. Il rinnovamento di Hilandar non era ancora finito quando, il 13 febbraio 1199, Simeon Nemanja morì. La chiesa principale doveva essere già stata completata perché le fonti confermano che il re monaco morì nel nartece e venne sepolto nella chiesa stessa (Bogdanović et al. 1978: 36-38). Il resto dei lavori deve essere stato completato nei mesi successivi perché, nel giugno del 1199, Sava era ritornato a Costantinopoli per ricevere da Alessio III la conferma di tutti i diritti e privilegi che erano stati concessi a Hilandar nel 1198 (Todić 2015: 5).

Grazie a questi frequenti viaggi nella capitale bizantina e, in particolare, ai suoi frequenti soggiorni al monastero della Theotokos Evergetis, Sava aveva acquisito gran parte della sua conoscenza della vita monastica e nell'estate del 1199, riuscì ad ottenere una copia del typikon di quel monastero. Dopo averlo fatto tradurre in serbo, lo adottò con alcune leggere modifiche come statuto per Hilandar. Con le sue regole dettagliate sul comportamento in chiesa e nel refettorio, il digiuno, l'abito monastico, la confessione, la liturgia, la comunione, la nomina degli abati e degli altri ufficiali, e l'indipendenza del monastero, già garantita dalla crisobolla del 1198, esso improntava Hilandar come una fondazione completamente cenobitica e imperiale. Con ulteriori piccole modifiche, Sava introdusse poi lo stesso statuto nel monastero di Studenica e da lì fu adottato come modello per tutti gli altri monasteri della Serbia medievale, in particolare quelli di Žiča, Sopoćani, Mileševa, Gračanica e Dečani (Speake 2018: 82-83).

Inizierà in questo periodo la produzione di manoscritti nello scriptorium di Hilandar e i monaci, fin dalla sua fondazione, si occuperanno di procurare i libri destinati al culto, alla preghiera e alla riflessione per la copiatura e traduzione in serbo. Il contesto di tradizione prettamente greca nel quale era inserito favorì tale scambio, così come il bilinguismo della biblioteca monastica, riscontrabile nella moltitudine di testi sia greci che slavi presenti (Bogdanović et al. 1978: 48). Fu durante il corso del XIV secolo che il monastero di Hilandar raggiunse il suo apice di produzione manoscritta in cirillico. Oggi, si contano ventiquattro manoscritti risalenti a quel periodo di attribuzione certa allo scriptorium, la maggior parte dei quali sono tutt’ora conservati nell’archivio del monastero, e di questi, ben quindici presentano una sottoscrizione che riporta il nome del copista. Seguendo l’ordine cronologico della datazione del manoscritto, è necessario nominare lo ieromonaco Gervasije del codice Hil. 47 [№16], il monaco Roman (I) dell’Hil. 9 [№4], Hil. 160 [№26] e Wuk. 49 [№2], il monaco Teodosije (I) dell’Hil. 297 [№3], il monaco Teoktist dell’Hil. 14 [№21], il dijak Stanko dell’Hil. 53 [№23], il copista Roman (II) dell’Hil. 79 [№24], il copista Damijan (II) del Cod. Slav. 24 [№33], Hil. 126 [№25], Hil. 390 [№29], il monaco Jov dell’Hil. 258 [№7], Hil. 381 [№31], Hil. 392 [№10], Cod. Slav. 45 [№33], Cod. Slav. 131 [№9] e Deč. 62 [№35], il monaco Dionisije dell’Hil. 10 [№6], lo ieromonaco Timotej dell’Hil. 48 [№36], il monaco Marko dell’Hil. 298 [№7], il monaco Atanasije dell’Hil. 46 [№8], il monaco Grigorije (I) dell’Hil 11 [№34], l’igumeno Grigorije (II) e lo ieromonaco Josif dell’Hil. 392 [№10] ed, infine, i monaci Teodosije (II) e Gerasim dell’Hil. 375 [№49].

L’unica informazione che abbiamo di molti di questi copisti è la loro esistenza e si deduce che prestassero servizio al monastero di Hilandar in uno specifico lasso di tempo calcolato sull’unica documentazione alla quale possiamo rifarci, ovvero il manoscritto che hanno prodotto. Nel tentativo di ricostruire l’attività scrittoria del monastero, verranno di seguito riportate le informazioni che oggi i maggiori studiosi sono riusciti a ricavare dallo studio condotto sui testi pervenuti.

Il primo copista è il famoso Teodosije di Hilandar (I), nato nel 1246. La portata del lavoro del suo lavoro superò di gran lunga quella del suo insegnante e predecessore, il monaco Domentijan (1210-1264 ca.). Scrisse ad Hilandar il testo Žitije sa Službom Petru Koriškom, ovvero ‘Vita con servizio liturgico di Petar di Koriša’, un eremita della città di Prizren. Per produrre un documento che fosse quanto più accurato possibile, riportando solo la verità storica con testimonianze credibili sulla vita di questo venerabile eremita, Teodosije decise di recarsi in Serbia e il lavoro che scrisse in seguito viene considerato uno dei primi esempi di narrazione poetica di una storia drammatica. Certamente, Teodosije (I) è oggi meglio conosciuto per il manoscritto Trascrizione della Vita di San Sava del 1336, ovvero l’Hil. 297 [№3], un'accurata rielaborazione dell'opera di Domentijan che riporta anche interessanti particolari dell'ambiente, dello stile e delle esperienze di vita degli asceti sul Monte Athos (Bogdanović et al. 1978: 52-54). Nel 1896, tuttavia, il manoscritto in questione venne prestato all’Accademia delle Scienze e delle Arti della Serbia, a Belgrado, e non è mai più stato restituito alla bibliteca monastica di Hilandar, risultando attualmente scomparso (Bogdanović 1978: 128). L'opera letteraria di Teodosije, inoltre, non solo incrementò lo sviluppo di testi agiografici dediti al culto dei fondatori di Hilandar ma caratterizzò anche le norme liturgiche del typicon di Gerusalemme nella forma in uso dalla chiesa serba, sebbene usato sul Monte Athos già in precedenza. Infatti, per ordine dell'abate Gervasije, il monaco Roman (I) darà a Hilandar una nuova traduzione dello statuto ecclesiastico del tipo di Gerusalemme in un manoscritto del 1331, ovvero il Wuk. 49 [№2], oggi nella Biblioteca di Stato di Berlino (Bogdanović et al. 1978: 52-54).

Durante il regno del re Milutin, Hilandar mantenne stretti legami sia con la patria serba che con Costantinopoli, così che i migliori scrittori, traduttori e copisti, come gli igumeni Nikodim e Danilo, furono inviati sul Monte Athos in veste di ambasciatori del re (Špadijer 1998: 116). Quando il copista Nikodim di Hilandar divenne arcivescovo nel 1316 fino al 1324, decise di scrivere un documento (Hil. Svt. 5) alla fine del 1321 che rinnovava alcune indennità annuali dovute alla cella di Karyes, secondo quanto stabilito dalla carta, ormai perduta, del primo arcivescovo serbo, Sava. Nel documento, scritto e oggi conservato ad Hilandar, si denunciava anche la noncuranza dei suoi arcivescovi predecessori che non avevano adempiuto ai loro obblighi nel corso del tempo. Dopo tali ammonimenti, stabilite le sanzioni, l’arcivescovo firmò la pergamena, accanto al sigillo oggi mancante (Živojinović 2005: 23-25). Inoltre, come riporta la sottoscrizione del manoscritto Hil. 47 [№16], durante il suo arcivescovado, venne commissionata la copiatura di un lezionario dell’Apostolo al monaco Gervasije, portata a termine nel 1312/1316.

L'epoca dell'arte letteraria monumentale del XIII secolo con Domentijan e Teodosije come suoi migliori rappresentanti stava gradualmente avvicinandosi alla sua fine, aprendo la strada a una nuova era culturale portatrice di importanti lavori di ordinamento riguardanti la pratica liturgica serba e la fioritura dello stato serbo con la dinastia Nemanjić nel XIV secolo. Le più complete realizzazioni letterarie di quell'epoca furono scritte dall'arcivescovo Danilo II di Peć che raggiunse la sua maturità spirituale e letteraria proprio presso il monastero di Hilandar. Nel 1307 circa ne divenne igumeno e guidò la difesa del monastero contro l'attacco di una banda di mercenari catalani che a quel tempo devastarono il Monte Athos e la costa circostante. Decise poi di ritirarsi presso l'eremo di Karyes, ma già nel 1311 fu ordinato vescovo. Nel 1315 circa, ritornò a Hilandar dove si dedicò a scrivere le vite e i servizi liturgici dei sovrani serbi, mantenendo sempre attivo lo scriptorium.

Danilo costruì tutta la sua produzione e, nello specifico, il racconto dei suoi eroi letterari, quali i re e le regine, sulla base dell’'insegnamento esicasta che, nella prima metà del XIV secolo, partì dall'Athos in una sua marcia vittoriosa contro la variante razionalistica e umanistica dell'ortodossia di Barlaam di Seminara. Durante questo periodo, infatti, fu uno stretto consigliere e diplomatico dei re Milutin e Stefan Dečanski e questi rapporti si riflettono alla perfezione nella selezione delle informazioni nelle sue Vite. Riporterà, infatti, notizie di questi sovrani, così come del re Dragutin o della regina Elena, con lo scopo di evidenziare non solo le insuperabili doti ma soprattutto la loro fervida vita spirituale dedita al culto ortodosso. Infine, è da ricordare che, nel corso della sua vita, Danilo di Peć si distinse per il costante lavoro di costruzione dei monasteri di Banjska e di Visoki Dečani ma anche di edificazione di diverse chiese a Peć (Špadijer 2015: 172-175).

Il terzo quarto del XIV secolo fu sicuramente uno per periodi più produttivi per il monastero di Hilandar e non è un caso che la maggior parte dei copisti che conosciamo abbia lavorato nello scriptorium in questo periodo. Tra i precedentemente citati, spicca però la figura del monaco Jov. Il copista operò presso il monastero di Hilandar presumibilmente dal sesto al decimo decennio del XIV secolo. Le sue sottoscrizioni sono spesso lunghe ma non sempre menzionano l’anno e il luogo di produzione del manoscritto. Ciò è giustificabile perché il monaco non sempre si occupava in prima persona della copiatura di un testo, ma spesso completava o finiva il lavoro iniziato da altri copisti dello scriptorium[1]. È il caso del manoscritto Hil. 392 [№10], iniziato insieme all’igumeno Grigorije (II) e terminato con il monaco Josif (Cernić 1990: 129-130).

La produzione originale di testi al confine tra letteratura e storiografia che è stato possibile illustrare non è certamente l’unica del periodo. Nella seconda metà del XIV secolo, il monastero di Hilandar fu soprattutto il centro di una vivace attività di traduzione. Le opere di scrittori e pensatori bizantini, quali ad esempio Gregorio Palamas e Filoteo Cocchino, furono tradotte e pubblicate qui. La miscellanea in papiro, catalogata dal monastero di Dečani come Deč. 88, che contiene i discorsi e i dibattiti del notevole esicasta bizantino Gregorio Palamas e del suo avversario Barlaam, è stata probabilmente scritta presso lo scriptorium di Hilandar (Cernić et al. 2012: 353-356, cf. Scarpa 2012). Questo manoscritto è significativo non solo perché riflette le tendenze spirituali di Bisanzio dell’epoca, ma anche perché comprende alcuni passaggi che non sono sopravvissuti nella lingua greca dell’opera originale, rappresentandone una fonte importante per lo studio dell'esicasmo in generale (Špadijer 1998: 117).

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[1] Sulla base di questa affermazione, molti altri manoscritti sono stati attribuiti al monaco Jov. Non presentano una esplicita sottoscrizione che rimanda al copista ma per un maggior approfondimento, si veda la ricerca condotta in Cernić 1990.

L'eremo di Karyes
Monte Athos,
Grecia

Alla fine del XIII secolo, Sava era diventato una figura di spicco sulla Montagna Sacra, in quanto non solo aveva fondato una nuova grande casa spirituale per i serbi, ma era anche stato nominato ktitor, ovvero ‘finanziatore, di diversi altri monasteri athoniti, tra cui quello di Grande Lavra, di Iviron, di Karakalou, di Xeropotamou e di Philotheou, così come la chiesa principale a Karyes e la dipendenza di Vatopedi a Prosphori, ora Uranopoli. Aveva anche assicurato a Hilandar una strategica dipendenza a Karyes, la sede del Protos, per facilitare i contatti con l'amministrazione centrale, e un kellion, ovvero una ‘cella monastica’, che il suo biografo Domentijan definisce un hesychasterion, un ‘rifugio ascetico’ (Speake 2018: 83). Questo eremo, in cui egli stesso si ritirava per periodi di riflessione e di preghiera solitaria, era dedicato a San Saba di Palestina. Il suo typikon sopravvive come un'iscrizione in marmo sul muro della cella e include un'interessante apologia del suo autore:

Ho fondato una santa laura e un monastero nel nome della santissima Madre di Dio, e vi ho posto solide basi per una comunità religiosa. Allo stesso modo sono riuscito ad ottenere un certo numero di celle a Karyes in modo che i monaci che vengono dal monastero per qualche servizio abbiano un posto per riposare. Inoltre, lì a Karyes ho istituito una forma particolare di vita solitaria. Ho costruito un kellion e una chiesa nel nome del nostro santo, divino e santificato padre Sabbas, come dimora per due o tre fratelli, come dice il Signore. Pertanto, sia noto a tutti che io emetto questo ordine che nessuno, né il protos, né il superiore, né alcun altro dei fratelli del nostro monastero abbia alcuna autorità su questo kellion di san Sabbas. Non possono disturbare le persone che vi risiedono, né possono appropriarsi delle spezie che vi si trovano, né dei paramenti sacri della chiesa, né dei libri, né di altre cose del genere. Né possono alienare alcuna di queste cose o portarle via al monastero, né il superiore del monastero può disporre di alcuna di esse. Il monastero deve invece dare candele, olio e incenso a quel kellion per le funzioni commemorative[1].

Anche se non ospitava un gran numero di monaci, il prestigio di questo eremo serbo deve aver giustificato un certo privilegio ‘principesco’ ribadito frequentemente nel typicon, sopra riportato in parte. Le numerose dipendenze serbe sotto forma di celle, skite ed eremi, che ospitavano comunità monastiche più o meno grandi, acquisivano per la maggior parte il diritto e privilegio ad un aiuto regale diretto. Ciò, venne frequentemente ribadito nei documenti successivi, nei quali vengono menzionati i santi prìncipi fondatori e i typicon scritti da loro, insieme al desiderio di seguire le orme dei loro predecessori, anche nel campo della pratica liturgica (Bojović 2007: 82-83). Da ricordare, in tal senso, il documento del 1321 (Hil. Svt. 5) dell’arcivescovo Nikodim.

Fin dalle sue origini, Hilandar, dunque, coltivò la spiritualità e l'ascetismo ortodossi in vari gradi: dall'umile vita comunitaria accessibile a tutti e raggiungibile da molti del monastero, all’eremitismo e all'isolazionismo elitario, dove due o tre monaci si ritiravano per scopi di profonda contemplazione spirituale, preghiera esicasta e anche, molto spesso, lavoro letterario. Questa cella di Karyes, tuttavia, non era che una delle molteplici proprietà di Hilandar dedite alla vita da eremiti. Diverse chiese, fortezze e celle erano sparse su tutta la Santa Montagna quali, ad esempio, la pittoresca chiesa di San Basilio, costruita dal re Milutin verso la fine del XIII secolo, o il pyrgos, ovvero la ‘torre’, della Trasfigurazione che si trova sulle colline a un'ora di cammino dal monastero di Hilandar. Tutti questi edifici furono costruiti in luoghi strategicamente importanti per la loro sicurezza ma anche, incidentalmente, in ambienti piacevoli da un punto di vista estetico. Ad esempio, dall'eremo di Karyes si apre un magnifico panorama sulla catena montuosa dell'Athos e sul mare aperto che guarda verso l’isola greca di Taso (Janković 2011: 84).

Per quanto riguarda l’attività scrittoria, è bene precisare che non è possibile parlare di un vero e proprio scriptorium della cella di Karyes, ma ciò non esclude la produzione di manoscritti nel XIV secolo. Tra quelli presenti oggi nell’archivio monastico di Hilandar, ci sono, in ordine cronologico, Hil. 384 [№15] del 1301-1310, Hil. 1 [№1] del 1316, Hil. 453 [№18] del 1320/1330, Hil. 31 [№19] del 1326-1350, Cod. Slav. 45 [№33] del 1351-1375, Hil. 60 [№43] del 1391-1400, Hil. 255 [№44] del 1390/1400, Hil. 270 [№45] del 1391-1400 e di questi, soltanto due manoscritti presentano la sottoscrizione, ovvero il manoscritto Hil. 1 [№1] che riporta il nome di Radoslav (I) e il Hil. 453 [№18] con il copista Teofil.

All'inizio del XIV secolo, il custode dell'eremo di Karyes era il vescovo Danilo, ma quest’ultimo non vi rimase a lungo poiché già nell'agosto del 1312 venne nominato lo ieromonaco Teodul come suo protettore, su richiesta dell’igumeno Nikodim (Subotić et al. 2019: 121-126). Teodul viene, infatti, menzionato nel manoscritto Hil. 1 [№1], scritto nel 1316, del quale abbiamo la sottoscrizione del dijak Radoslav (I) che copiò il tetravangelo per ordine del re Milutin. Secondo le fonti, tra il 1322 e il 1324, il custode della cella di San Sava divenne lo ieromonaco Teofil, del quale ritroviamo la firma nella prima carta del manoscritto Hil. 453 [№18], databile nel 1320/1330 circa (Subotić et al. 2019: 123).

A partire dagli anni quaranta del XIV secolo, la produzione manoscritta dell’eremo subì un forte arresto e, ad oggi, non è possibile identificare alcun manoscritto che risalga a questo periodo. I monasteri del Monte Athos, infatti, iniziavano ad essere frequentemente colpiti da una serie di attacchi da parte di pirati provenienti dall'Asia Minore. Scoperti i piccoli eremi, i pirati pianificarono frequenti saccheggi sia perché erano scarsamente protetti, situati in aree difficilmente accessibili e ormai abbandonati dai monaci, sia per via delle consistenti ricchezze che vi trovavano. A tal proposito, dunque, l’eremo di San Sava a Karyes fu uno dei tanti coinvolti in tali razzie e venne presto ridotto ad un cumulo di macerie (Živojinović 1980: 508). Nella seconda metà del XIV secolo, l'imperatrice serba Elena venne così chiamata la ‘seconda fondatrice’ dell’eremo, in quanto ricostruì e mise in sicurezza l’intera cella. Una serie di crisobolle scritte a Prilep da Stefan Dušan nel 1348[2] non solo testimoniano tale nomina, chiarendo che, con il consenso degli anziani, l’imperatrice scelse nuovamente il proigumeno Teodul come capo dell'eremo, ma informano di cospicui doni alla cella di Karyes, quali un reddito annuo di cento perperi veneziani e alcuni possedimenti terrieri nel villaggio di Hvosno (Subotić et al. 2019: 123-124). Nonostante tale risistemazione della cella, la disintegrazione dell'Impero serbo dopo la morte di Stefan Dušan nel 1355 e, successivamente, le conquiste turche influirono molto nella vita dell'eremo quanto nel rispetto dei doni e del typicon, poiché non verranno riportate più notizie sugli sviluppi dell’eremo per almeno tutta la seconda metà del XIV secolo.

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[1] “I established a holy lavra and monastery in the name of the most holy Mother of God, and laid solid foundations for a religious community in it. In like manner I managed to acquire a number of cells in Karyes so the monks coming from the monastery on some service would have a place to rest. In addition, there in Karyes I have set up a distinctive form of the solitary life. I constructed a kellion and a church in the name of our holy, God-bearing and sanctified father Sabbas, as a dwelling for two or three brothers, as the Lord says. Therefore, let it be known to everyone that I issue this command that nobody, neither the protos, the superior, nor any other of the brothers of our monastery should have any authority over this kellion of Saint Sabbas. They may not trouble the persons residing in it, nor may they appropriate any of the spices found there, nor the sacred vestments of the church, or the books, or anything else of that sort. Nor may they alienate any of these things or take them off to the monastery, or may the superior of the monastery dispose of any of it. Instead, the monastery ought to give candles, oil, and incense to that kellion for the commemorative services” (Thomas et al. 2001: 1333-1334; traduzione mia M.R.). Questa è una traduzione inglese da un testo greco in Meyer 1894: 184-187. È possibile leggere il testo originale serbo in Mirković 1939: 29-35.

[2] Per un maggior approfondimento sui testi delle crisobolle, si veda Živojinović 2002: 69-78; Živojinović 2008: 59-70; Živojinović 2008: 71-90.

Il monastero di
San Panteleimon
Monte Athos, Grecia

Il monastero di San Panteleimon si trova sulla costa occidentale della Santa Montagna ed è l’ultimo di una serie di complessi monastici precedentemente costruiti. Il primo di questi, che è menzionato in alcuni documenti dell’XI secolo, sorgeva tra il monastero di Vatopedi e il monastero di Pantokrator e veniva chiamato il ‘monastero russo’, in greco rossikón. Si tratta dell’attuale piccolo skita di Ksilurgu o Bogoroditsa, ovvero ‘la madre di Dio’, che è il più antico insediamento monastico ortodosso russo. Un documento datato al 1169 ci informa che, nei decenni, il numero dei monaci russi era cresciuto al punto che le autorità del Monte Athos furono costrette a concedere un secondo monastero, ovvero il monastero ‘dei Tessalonicesi’. Quest’ultimo era situato nell’entroterra, più a nord rispetto al primo e circondato da una fitta foresta. I monaci vissero lì fino alla fine del XVIII secolo, quando poi l’attuale monastero di Panteleimon fu costruito (“Russkij Monastyr’” 1886: 3-12).

Il più antico riferimento alla produzione manoscritta di San Panteleimon risale al 1142 in un inventario stilato per registrare tutti i beni del monastero. Tra gli oggetti elencati, figurano ben quarantanove manoscritti di uso liturgico e questo testimonierebbe la presenza di uno scriptorium molto antico e attivo soprattutto per la traduzione di testi greci (Tachiaos 1981: 9-10). Sfortunatamente, però, nessuno di questi manoscritti è conservato, per via della grave devastazione ad opera dei mercenari catalani avvenuta dal 1308 al 1311 su tutto il territorio del Monte Athos. Intorno al 1309, infatti, il monastero di Panteleimon fu saccheggiato e poi incendiato, causando la morte di un elevato numero di monaci russi e una totale rovina del complesso monastico (“Russkij Monastyr’” 1886: 20-24). A partire dalla metà del XIV secolo, tuttavia, grazie all’intervento dello zar Stefan Dušan, il monastero verrà interamente ristrutturato e avverrà un cospicuo incremento della presenza di monaci serbi nel monastero russo. Si apre così una nuova epoca per Panteleimon, che diventerà uno dei centri di quella nuova attività letteraria serba che si stava sviluppando nella seconda metà del XIV secolo.

Oggi, è possibile ricostruire la produzione manoscritta serba presente nell’archivio del monastero in questione grazie al lavoro di A-E. N. Tachiaos del 1981, continuato poi nel 2012 da A. A. Turilov. I manoscritti di redazione serba del XIV secolo presenti nell’archivio sono diciotto e di questi, però, non è possibile desumere il luogo di produzione. Si ipotizza però che, ad esempio, il manoscritto Il Servizio di San Panteleimon (Pant. 9), sia stato scritto lì per via del contenuto e dell’eterogeneità delle scritture, quali, principalmente, la lingua serba e quella greca, con qualche tropario in lingua bulgara. L’unica attestazione pervenuta, che è stata certamente scritta presso lo scriptorium, è il manoscritto Hil. 11 [№34], oggi nell’archivio del monastero di Hilandar. Secondo quanto riportato nel catalogo di D. Bogdanović (1978), il codice può essere stato datato tra il 1351 e il 1374 e la sottoscrizione presente nella c. 278 riporta anche il nome del copista, Grigorije (I), che afferma di essersi occupato della scrittura del testo. Inoltre, un manoscritto sul quale è il caso concentrare l’attenzione è il Pant. 11, oggi negli archivi di Panteleimon. Esso apparteneva probabilmente alla cella di Karyes e faceva parte di una collezione di Menanion, due dei quali sono oggi conservati ad Hilandar, ovvero il Menanion dei mesi da marzo a maggio (Hil. 145) e il Menanion per i mesi da giugno a luglio (Hil. 147). Il codice è stato recentemente riconsiderato perché contiene non soltanto la più antica copia del Servizio a San Simeone scritta da Sava ma anche la Vita di San Simeone, che non esiste in nessun altro manoscritto del genere (Špadijer 2018: 103-111).

Il monastero di
Studenica

Kraljevo, Serbia

Situato a Kraljevo, nel distretto di Raška, il complesso monastico di Studenica è il più grande e ricco della Serbia centrale. Nel corso dei secoli, subì diversi sviluppi. Venne commissionato dallo župan Stefan Nemanja (1113-1199) e comprendeva originariamente soltanto la chiesa dedicata alla Theotokos Euergetis, ovvero ‘la Vergine benefattrice’ e alcuni edifici, tra i quali il refettorio e delle residenze adiacenti alla cinta muraria che ne circoscrive il perimetro (Radan-Jovin et al. 1988: 32). Secondo quanto scritto da Sava,

Il nostro santo monastero, come sapete, era come un luogo deserto - terreno di caccia per le bestie. Quando venne il tempo della caccia, il nostro signore e autocrate, il sovrano di tutte le terre serbe Stefan Nemanja, venne a cacciare qui e volle costruire questo monastero in questo luogo deserto, per riposare e per moltiplicare il rango monastico. […] Lui stesso creò dei monasteri: prima a Toplica del Santo Padre Nikola, e poi altri della Santa Madre di Dio a Toplica, poi di nuovo creò il monastero di San Giorgio a Ras. […] E in seguito creò questo nostro santo monastero, che dedicò al nome del Santissimo Vescovo di nostra Madre di Dio Benefattrice[1].

Secondo quanto appena descritto, il monastero fu molto probabilmente costruito tra il 1186 e il 1196, prima che il già anziano Nemanja vi andasse a vivere nella primavera del 1196, mutando il proprio nome in Simeone. Secondo una fonte tardiva, infatti, il katholikon venne completato intorno al 1195 (Marković 2019: 27).

Lo stile architettonico ed artistico degli edifici appare prettamente bizantino, specie se si considera l’imponente struttura in marmo bianco della chiesa principale (Erdeljan 2011: 95). Questa influenza sembra essere facilmente giustificabile dato il matrimonio di Stefan Nemanjić con Eudokia, la figlia dell'imperatore bizantino, avvenuto proprio all’inizio dei lavori del monastero, a seguito della pace stipulata tra le due potenze (Fine 1994: 26). Tale unione, tuttavia, non può essere verificata nel famoso testo della Vita di San Simeone scritto da Sava, ovvero Rastko, il figlio di Stefan, perché lo scrittore decise di non menzionare l’evento (Pirivatrić 2015: 50). Al contrario, invece, ciò che Sava riporterà con enfasi nell’ordinamento di Studenica è che il complesso monastico godette fin da subito di piena autonomia dal vescovo alla cui giurisdizione sarebbe altrimenti appartenuta. Si ammetteva dunque una sorta di indipendenza, che si traduceva però in netta separazione di Studenica nei confronti dell'arcivescovado di Ohrid. Non a caso, molti studiosi ritengono tutt’oggi che fu proprio questa autonomia religiosa del monastero a gettare il seme della futura autocefalia della Chiesa serba (Marković 2019: 28). Appare chiaro, dunque, che il contesto della costruzione di Studenica si riconnette al tentativo di fondare una Nuova Euergetis, una Nuova Costantinopoli, una Nuova Gerusalemme, e, quindi, alla volontà di creare un primo locus sanctus del culto dinastico dei Nemanjić. Un unico tabernacolo per i serbi, dunque, che da lì a poco sarebbe diventato il luogo di riposo di San Simeone, ovvero Stefan Nemanjia.

Assumendo la gestione della chiesa di fondazione di suo padre e con il sostegno dei suoi fratelli maggiori, quali lo župan Stefan e il principe Vukan, Sava continuò la costruzione e la decorazione del monastero in veste di archimandrita. Intorno al 1217, però, decise di lasciare Studenica, per spostarsi prima a Hilandar e qualche anno dopo Nicea, dove fu ordinato arcivescovo, riuscendo ad ottenere l'indipendenza della Chiesa serba nel 1219.

Testimonianze successive in merito alle costruzioni a Studenica risalgono al regno di Radoslav Nemanjić, figlio di Stefan Prvovenčani, che assunse i diritti di ktitor di Studenica, insieme a suo fratello minore Vladislav che gli succedette nel ruolo di sovrano. Durante il regno di questi due re, con il consenso di Sava e quasi certamente su suo stimolo, furono intrapresi nuovi importanti lavori tra i quali la costruzione del campanile sopra l'ingresso occidentale del monastero e della piccola chiesa di San Nicola.

Il custode più devoto della fondazione ancestrale fu il re Milutin (1253-1321). Con l'aiuto dell’igumeno Jovan, nel 1313 o 1314, fece costruire una piccola chiesa dedicata ai genitori della madre di Dio, i santi Gioacchino e Anna. Il parekklesion ben proporzionato era dotato di arredi sacri in marmo bianco ed era stato decorato con rilievi simili alla scultura architettonica del katholikon di Hilandar e di quello di Banjska (Stevović 2016: 325). Fu poi affrescato nello spirito del classicismo bizantino dell'epoca da Michele Astrapas di Salonicco, uno dei più grandi pittori del suo tempo (Marković 2010: 18). Inoltre, durante il suo regno, avvenne la ristrutturazione del refettorio del monastero, anche se non può essere identificato con piena certezza colui che ebbe l’incarico di completare i lavori, poiché nei documenti relativi i collaboratori di Studenica includevano anche i nomi dei dignitari della chiesa (Marković 2019: 85).

Milutin incoraggiò anche le attività di scrittura a Studenica e dati indiretti possono essere trovati nella copia dello Statuto di Milutin alla chiesa di San Giorgio sul fiume Serava, vicino a Skopje. Tuttavia, gli studiosi non sono concordi sulla esecuzione del documento per mano di Milutin, in quanto alcuni credono che il re l'abbia commissionata per intero a Sava, l'abate di Studenica (Davidović 2016: 78). In ogni caso, “è possibile concludere che nel 1300 il re Milutin nominò una commissione per il rinnovamento del testo delle vecchie carte del monastero, poiché erano così rovinate dall'età, mangiate dalle tarme, sbiadite e cancellate che il testo non era più leggibile” (Sindik 1988: 176)[2]. Erano necessarie nuove copie e quindi si può supporre che i copisti delle sezioni legali fossero i migliori scrivani di Studenica dell'epoca. Tuttavia, la decisione di Milutin di rinnovare le vecchie carte non era diretta solo a fornire nuove copie come adeguate sostituzioni delle vecchie, invecchiate e rovinate, ma implicava l'inclusione di clausole legali dalle carte greche e bulgare nel testo dei documenti legali serbi. Tali requisiti avrebbero potuto essere soddisfatti solo da esperti eccezionalmente qualificati che conoscevano perfettamente le lingue greca e bulgara. Il re trovò tali uomini in Sava, l'abate, in Nikola Opareša e nello scriba reale Dabiša. “Il re ordinò a Dabiša di copiare e tradurre le carte greche e bulgare e di scrivere il testo serbo. Sava e Nikola lo controllavano e probabilmente lo aiutavano a leggere i vecchi testi rovinati e a fare nuovi riassunti” (Sindik 1988: 177)[3]. La copia di vecchi libri serbi a Studenica è anche una conferma indiretta che questo centro spirituale era luogo di ritrovo dei più rinomati intellettuali di quell'epoca.

Durante il regno di Stefan Dušan furono intrapresi importanti lavori a Studenica, tra i quali la costruzione della Chiesa di San Giovanni Battista, modellata sulla chiesa di San Nicola, e il completamento del famoso affresco della facciata orientale della torre sopra l'entrata principale del monastero, dove l'albero genealogico della famiglia Nemanjić è rappresentato accanto all'Albero di Jesse (Marković 2019: 85). Dalla metà del XIV secolo le fonti su Studenica diventano sempre più silenziose ma una testimonianza delle attività scrittoria di Studenica è un menaion (Hil. 144), ora conservato a Hilandar, copiato presso lo scriptorium intorno al 1360 (Bogdanović 1978: 93).

Dopo la morte degli ultimi membri della dinastia Nemanjić, come stipulato nel typikon di Studenica, i diritti del fondatore e quindi di colui che doveva finanziare la costruzione o ricostruzione (cf. Marinković 2007) dovevano passare ai nuovi sovrani di ‘tutta la terra serba’. Recenti ricerche archeologiche hanno dimostrato che, durante il regno di Stefan Lazarević, Studenica fu restaurata per riparare i danni che aveva subito durante uno dei primi attacchi ottomani al monastero, dopo la battaglia del Kosovo. I bastioni, il refettorio, gli edifici di servizio e probabilmente uno dei dormitori del monastero subirono i danni più gravi a causa di un grave incendio. Si ipotizza, infatti, che in questa occasione moltissimi manoscritti prodotti in quel periodo siano andati perduti (Marković 2019: 88).

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[1] “Наш свети манастир овај, као што знате, као пусто место беше — ловишта зверова беху. Дошавши, пак, улов господин наш и самодржац, владар све Српске земље, Стефан Немања, ловљаше овде, и допаде се њему да у пустом овом овде месту подигне манастир овај, на покој и на умножење монашког чина. […] Сâм, пак, сазда манастире: и прво у Топлици Светог оца Николе, и други тамо Свету Богородицу у Топлици, потом опет сазда манастир Светог Ђорђа у Расу. […] А после тих овај наш свети манастир сазда, који и посвети имену Пресвете Владичице наше Богородице Доброчинитељке.” (Sveti Sava 1998: 147-153; traduzione mia M.R.).

[2] “Дâ се закључити да је краљ Милутин 1300. године образовао комисију за обнову текста старих повеља овог манастира, које су толико страдале од старости, изгрижене од мољаца, избледеле и избрисане да се текст више није могао читати” (Sindik 1988: 176; traduzione miaM.R.).

[3] “Дабиши је краљ наредио да испише и преведе грчке и бугарске повеље и направи српски текст. Сава и Никола су га надзирали и вероватно помагали у ишчитавању старих оштећених текстова и прављењу сажетака.” (Sindik 1988: 177; traduzione mia M.R.).

Il monastero di
Visoki Dečani

Deçan, Serbia

Il monastero si trova a pochi chilometri dal centro abitato di Deçan, nell’attuale Kosovo, in una posizione strategica che venne descritta per la prima volta all'inizio del XV secolo da Grigorij Camblak, igumeno del monastero, nella sua Vita di Stefan Dečanski. Nei paragrafi dedicati alla scelta del luogo da parte del re, si legge:

Visitando molti e diversi luoghi in tutto il suo territorio, [il re Stefan Dečanski] cercava un posto del genere. E trovò un luogo nella regione di Hvostno, chiamato Dečani […]. Qui sgorgano grandi sorgenti e sono alimentate da un fiume limpido […]. Sul lato ovest, è chiuso principalmente dalle montagne e dai loro pendii, e da lì arriva aria salubre. Sul lato est, si raffronta un grande campo, irrigato dallo stesso fiume. Un tale luogo è dunque onorevole e dignitoso per l’erezione di un monastero[1].

Ad inizio lavori, il re Uroš III ordinò che l'area fosse circondata da un bastione fortificato da torri, adiacente al quale dovevano essere posti gli alloggi dei monaci e gli altri edifici. L'esperto costruttore Djordje e i suoi fratelli, Dobroslav e Nikola furono incaricati dell’edificazione del complesso, mentre il capomastro Fra Vita e gli scalpellini di Cattaro costruirono il katholikon dedicato a Cristo Pantocratore e lo decorarono con bassorilievi in stile romano-gotico (Visoki Dečani 2014: 16). La costruzione della chiesa, e quindi probabilmente di tutto il monastero, iniziò nel 1327 circa e si concluse otto anni dopo, secondo quanto riportato dall’iscrizione dell’entrata sud della chiesa:

Fra. Vita, Frati minori, protomastro da Kotor [Cattaro], città dei re, costruì questa chiesa del Santo Pantocratore, per il signore re Stefan Uroš III e suo figlio, il brillante e maestoso e glorioso signore re Stefan. Costruito in otto anni. E la chiesa fu costruita nell’anno 6843[2].

Secondo la numerazione degli anni del calendario bizantino, l’anno 6843 indicherebbe l’intervallo di tempo tra il 1° settembre del 1334 e il 31 agosto del 1335 ma, poiché la stagione di costruzione solitamente si concludeva in autunno e non in estate, sembra corretto supporre che l’iscrizione, e di conseguenza l’ultimazione dei lavori, siano databili al 1334.

Durante la costruzione, nel 1330, il re Uroš III emise uno statuto che stabiliva lo status legale del monastero e l'estensione delle proprietà che il re aveva donato. Le successive variazioni in termini di amministrazione e di patrimonio dell’intero complesso vennero poi registrate in altre due versioni della carta, rispettivamente scritte nel 1331 e nel 1343/1345 (cf. Grković 2004). La necessità di tenere traccia di tali repentini cambiamenti si spiega non soltanto nei tre documenti ma anche nella iscrizione sopra menzionata. Fra. Vita, infatti, citerà entrambi i re benefattori, ma accanto al nome di Dušan elencherà diversi appellativi che in modo chiaro esprimono le evoluzioni politiche del paese: come fedele suddito, il mastro di Cattaro portava un particolare rispetto al re che nel frattempo aveva infatti preso il regno (Subotić 1998: 174). Nel 1331, a seguito dell’imprigionamento e successiva uccisione del padre Uroš III per mano sua, Stefan Dušan diede il permesso di trasferire il corpo del Santo Re presso il monastero di Visoki Dečani. Lì, venne solennemente sepolto e da quel momento, il giovane re si assunse la responsabilità del completamento dei lavori. Il monastero, dunque, divenne il centro degli sforzi materiali, spirituali e artistici dello stato serbo della prima metà del XIV secolo: dalla fondazione ad opera del re Uroš III alla conclusione dei lavori grazie al figlio Dušan e all'arcivescovo Danilo II, fino ad arrivare all’operato dei migliori architetti e artisti del tempo. Non c'è dubbio, inoltre, che il monastero fosse abitato da numerosi monaci eletti, che vivevano secondo le severe regole del cenobitismo.

Il primo abate di Visoki Dečani fu Arsenije, uomo scelto dallo stesso fondatore. Dedito asceta e cenobita, venne dipinto due volte all’interno della chiesa, una volta nel presbiterio e la seconda nel nartece. Ciò dimostra che ad Arsenije venivano riconosciuti grandi meriti dai re per il suo impegno sia nella fondazione del monastero, che nella gestione della vita spirituale dei monaci che, per la prima volta, si insediavano. A lui, inoltre, è ricollegabile una fervente attività di copiatura di manoscritti nello scriptorium di Dečani (Todić et al. 2005: 19).

Fin dalla sua fondazione, il monastero godette di una diretta collaborazione con il monastero di Hilandar e ciò spiegherebbe i testi presenti presso la biblioteca monastica scritti però presso lo scriptorium athonita: tra questi, Deč. 88 (cf. 2.2.1), Deč. 5 e Deč. 46 scritti dal copista Damjan intorno al 1360/1370, Deč. 73 probabilmente dal copista Josif-Damjan tra il 1360 e il 1400, e Deč. 63 dal copista Jovan intorno al 1370.[3] Da aggiungere, ci sono poi i due codici, quali Deč. 3 e Deč. 35, scritti rispettivamente per il monastero di Dečani e per il monastero di Hilandar. Tuttavia, proprio questo stretto rapporto tra i due grandi scriptoria complica il quadro dei copisti che hanno effettivamente prodotto i testi presso lo scriptorium di Dečani. Basandoci sul recente catalogo prodotto, relativo alla biblioteca monastica in questione, a cura di L. Cernić, B. Jovanović-Stipčevič, K. Mano-Zisi (2012), è possibile stabilire che nonostante i codici databili al XIV secolo lì conservati siano esattamente sessantasette, di questi, soltanto quattro sono stati attribuiti al monastero, ed alcuni anche con un certo grado di incertezza. Si tratta dei codici Deč. 32 [№17] del copista Oliver di Prilep, Deč. 52 [№11], 53 [№12], 54 [№13], 96 [№48] del copista Danilac Leevoki (Varlaam), Deč. 55 [№39] del copista Lukija, Deč. 61 [№42] del copista Kasijan, Deč. 72 [№27] del copista Radoslav (II), Deč. 76 [№46] dal copista Makarije, anche autore del Deč. 90 del 1409, Deč. 89 [№47] del copista Vavila, Deč. 105 [№40] del copista Sava e Deč. 107 [№41] del copista Brajen.

Oggetto di approfondito studio, poi, è il codice Deč. 94 [№20], datato intorno al 1340/1350, che riporta la maggior parte dei nomi dei copisti, quali il monaco Jefrem, con l’aiuto di altri quattro copisti anonimi, il monaco Nikola, altri due copisti anonimi e, infine, il monaco Georgije. In totale, dunque, ben nove uomini si occuparono di trascrivere il menologio per i mesi di settembre, ottobre e novembre ma su di essi, ad oggi, non è possibile reperire molte informazioni. I loro nomi non ricorrono in altri codici databili nella seconda metà del XIV secolo, ad eccezione del monaco Jefrem. Di quest’ultimo, infatti, sembrerebbe essere conservata una ulteriore firma in un altro manoscritto della biblioteca monastica di Dečani, ovvero il codice Deč. 92 [№5] concluso nel 1351. Le molteplici coincidenze, come la datazione dei due testi e la loro presenza presso la medesima biblioteca monastica, potrebbero condurre alla semplicistica soluzione di raggruppare i due codici sotto lo stesso copista. Sulla base dell’analisi paleografica, nello specifico, attraverso il confronto del ductus, è invece possibile affermare che si tratta di un caso di omonimia (Jovanović-Stipčević 1998: 159-161). Appurata l’esistenza di due diversi monaci dallo stesso nome, Jefrem appunto, è necessario nominare in questa sede anche alcune teorie che indagano la paternità dei manoscritti in questione. D. Bogdanović, infatti, sosterrà che il manoscritto Deč. 92 [№5] venne scritto da un monaco dal nome Jefrem, divenuto poi il patriarca serbo dal 1375 al 1379, e di nuovo dal 1389 al 1390 e già probabile autore del codice Hil. 342 (Bogdanović 1986: 38-40, Špadjier 2016: 160-161). Un’altra ipotesi relativa a un’ulteriore connessione con il patriarca Jefrem è quella sostenuta da B. Jovanović-Stipčević nelle sue ricerche condotte sul monaco Georgije, ultimo copista del Deč. 94 [№20]. Georgije è, infatti, il nome mondano del futuro monaco Gerasim, padre di Marko Pećki e, grazie alle testimonianze di un soggiorno presso il monastero di Dečani alla presenza dell’anziano Abraam, si è potuta formulare la teoria di una collaborazione del patriarca con Georgji nella stesura di un qualche testo (Jovanović-Stipčević 1998: 162-164).

Uno dei problemi dello scriptorium di Dečani è che si ritiene essere un testimone diretto non soltanto di un’incessante circolazione di manoscritti dai maggiori centri di copiatura, ma anche di una vera e propria migrazione di copisti. A tal proposito, in un recente articolo nel 2013, A. A. Turilov ha tentato di fornire una ricostruzione del percorso di alcuni codici che, a suo parere, sono stati scritti nel monastero di Visoki Dečani. Uno di questi è il Tetravangelo №102 della vecchia collezione della Biblioteca Nazionale serba, ritrovato qualche anno fa ad Erfurt, in Germania, da A. Ju. Černodarov (cf. Mladenović et al. 2009-2010). Si tratta di codice commissionato dal re e prodotto da Nikola, famoso e ricercato igumeno del monastero di Studenica. Il copista lascia una sottoscrizione nella c. 343, senza però specificare il luogo di scrittura o la datazione del testo (Turilov 2012b: 16-18). Un altro manoscritto quasi certamente scritto a Dečani, secondo A. A. Turilov, è il codice Deč. 67. Il copista può essere identificato con il primo scriba del NBKM 501, un Lezionario Apostolico datato nel 1291-1310, e in ogni caso non oltre il 1339 (Conev 1923: 34-38). Questo scriba serbo è, a sua volta, molto probabilmente l'unico scriba conosciuto della kormčaja kniga, ovvero ‘il libro delle norme della chiesa’ di Sarajevo (Sarajevo, Museo della Chiesa Vecchia dei Santi Arcangeli, №222), cioè Miroslav (cf. Turilov 2014). Sulla base di queste affermazioni, il codice può essere datato con sicurezza al primo terzo del XIV secolo ed è molto probabile che appartenga all'insieme originale dei libri liturgici scritti nel monastero di Dečani (Turilov 2012b: 18-20).

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[1] “Обилазећи многа и различна места по целој својој области, тражаше прикладно за такво дело. И нађе неко место у пределима хвостанским, звано Дечане. […] Ту извиру велики извори и напаја га бистра река […]. Са западне стране затварају га највише горе и њихове стрмине, и отуда је тамо здрав ваздух. Са источне стране овоме се приуподобљава велико поље, наводњавано истом реком. Такво је дакле место часно и достохвално за подизање манастира” (Petrović 1989: 65-66; traduzione mia M.R.).

[2] “Фра Вита, мали брат, протомајстор из Котора, краљевог града, сазида ову цркву светога Пантократора, господину краљу Стефану Урошу Трећем и његовом сину, светлом и превеликом и преславном господину краљу Сшефану. Сазида се за осами година. И довршила се сасвим црква године 6843” (Todić et al. 2005: 22; traduzione mia M.R.).

[3] Per i codici Deč 46, Deč 63, Deč 73 e Deč 88 non è stata inserita una scheda in appendice, in quanto non sono stata ritrovate sottoscrizioni del copista o note riconducibili al luogo di trascrizione. Si rimanda, dunque, ai recenti approfondimenti condotti da Cernić et al. 2012 in merito.

Il monastero di Ravanica
Ćuprija, Serbia

A seguito della richiesta del principe Lazar Hrebeljanović, il monastero di Ravanica fu costruito come suo mausoleo ai piedi dei monti Kučaj, nel villaggio di Senje. Con la costruzione della Chiesa della Santa Ascensione del monastero, circondata da alcuni edifici e torri, inizierà una nuova epoca per lo stile architettonico del tardo medioevo serbo. Infatti, i maestri costruttori di questo complesso getteranno le basi per lo sviluppo del nuovo stile caratteristico della cosiddetta Moravska škola, ovvero ‘scuola Morava’ (Vulović 1966: 19). Inoltre, così come altri importanti centri spirituali, la chiesa segnerà una nuova fase di cristianizzazione del popolo serbo, specie per quelle aree della Serbia Moravica non ancora completamente integrate nella vita sociale, economica e culturale del paese (Bogdanović 1981: 14).

La data di costruzione del complesso è incerta, in quanto le uniche due trascrizioni dello statuto originale, risalenti alla fine del XVII secolo e all’inizio del XVIII secolo, riportano due date differenti: la sottoscrizione firmata dal principe Lazar riporta la data del 1380/1381 (Вь лѣто. ѕ҃ д҃. п҃. ѡ҃.), mentre la trascrizione di Bologna, firmata dal patriarca Jefrem, registra la costruzione nel 1376/1377 (Вь лѣто: ѕ҃ ѡ҃ п҃ е҃.) (Starodubcev 2014: 107-108). Rifacendoci poi alla ricostruzione di Ljubinković M., altri elementi testimonierebbero una esistenza del monastero addirittura pregressa, quali, ad esempio, il testo della vita del santo ortodosso Romil Svetogorski che riporta la sua morte nel 1375 a Ravanica (Ljubinković 1966: 1-2).

Nonostante le fasi di costruzione e la datazione siano ancora oggi argomenti di discussione tra gli studiosi, è certo, tuttavia, che quando nel 1389 il principe fu ucciso durante la battaglia della Piana dei Merli contro i turchi, il suo corpo fu trasferito presso il monastero.

[…] secondo che riferisce Filippo Leonicero al I lib. e come si legge negli Annali de’ Turchi, Lazaro fu preso vivo, & decollato ne’ padiglioni dell’inimico. Fu poi sepelito in Ravaniza, in una Chiesa molto bella, fatta tutta di marmo mischio, la dove ancora si vede il suo corpo involto in un lenzuolo ricamato d’oro, qual dicono essere stato fatto di mano di sua moglie Miliza (Orbini 1601: 318).

Presto, le reliquie[1] resero Ravanica un luogo di pellegrinaggio e posero le basi per quello che sarebbe diventato il culto del principe martire e di tutto il suo esercito, i cosiddetti kosovski junaci, ovvero ‘gli eroi del Kosovo’.[2] A tal proposito, tra la fine del XIV secolo e l’inizio del XV secolo, sono stati prodotti dieci testi dedicati al principe Lazar. Sebbene scritte principalmente allo scopo di stabilire e fortificare il culto del nuovo martire, queste opere forniscono testimonianze particolarmente significative del periodo successivo alla battaglia del Kosovo (Špadijer 2016: 164).

Di questi testi, è possibile selezionare i seguenti scritti nel XIV secolo:

Prološko žitije kneza Lazara [Prologue Life of Prince Lazar] (1390-93) of Ravaničanin II [a monk of the monastery of Ravanica]; “Slovo o knezu Lazaru” [“Discourse on Prince Lazar”] (end of 1392 or beginning of 1393) of Danilo the Younger (Patriarch Danilo III); Žitije kneza Lazara [Life of Prince Lazar] (after 1392 and before 1398) and “Služba knezu Lazaru” [“Office for Prince Lazar”] (in the fall of 1390 or 1402) of Ravaničanin I; “Slovo o knezu Lazaru” (1392-98) of Ravaničanin III. (Redjep 1991: 254-255)[3].

Sfortunatamente, non abbiamo notizie dettagliate in merito ai codici originali di questi testi e tutti sono sopravvissuti soltanto in successive versioni. Ad esempio, nel caso del Prološko žitije kneza Lazara, ovvero ‘Prologo alla vita del principe Lazar’, sappiamo che è stato recentemente trovato trascritto nel manoscritto Hil. 425. Il primo a scoprire l’elogio dedicato al principe fu Radojičić Dj. durante una ricerca presso il monastero di Hilandar tra il novembre e il dicembre del 1952 (Trifunović 1993: 34), riportando quanto segue:

Il Sinassario da marzo ad agosto №425 (filigrana del 1460) contiene Lode al principe Lazar con versi. È un testo fino ad ora sconosciuto della vecchia letteratura serba. Il titolo sottolinea che non solo il principe Lazar è celebrato in lode, ma tutti coloro che sono morti con lui, ‘molte migliaia’. La lode è stata ovviamente scritta da un monaco nel monastero di Ravanica. È dell'epoca immediatamente successiva alla battaglia del Kosovo, perché parla della battaglia come una vittoria serba. Fu una ‘vittoria brillante’. All'emiro turco fu tagliata la ‘testa odiosa’ e molti dei suoi uomini furono giustiziati[4].

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[1] È necessario precisare che nel XVII secolo le reliquie del principe Lazar Hrebeljanović furono trasferite al monastero di Vrdnik-Ravanica sul monte Fruška Gora durante il periodo delle “Grandi migrazioni” (cf. Mihaljčić 2001). Recentemente, in occasione del seicentesimo anniversario della battaglia del Kosovo, le reliquie sono tornate al monastero di Ravanica (cf. Medaković 2007).

[2] Per un maggiore approfondimento sul culto del principe Lazar Hrebeljanović e sulle leggende connesse alla battaglia del Kosovo del 1389, cf. Mihaljčić 1989.

[3] Per maggiori informazioni su i testi citati, cf. Trifunović 1993.

[4] “Пролог од марта до августа бр. 425 (водени знак из 1460. год.) садржи Похвалу кнезу Лазару са стиховима (сл. 7). То је досад непознати спис старе српске књижевности. У наслову се истиче да се у Похвали не слави само кнез Лазар, већ сви они који су с ьим изгинули, ‘множство тисушт’. Похвалу је очевидно писао неки монах у манастиру Раваници. Из времена је одмах после Косовске битке, јер се у њој о бици говори каоо победи српској. То је била светла победа". Турскоме амиру одсечена је "мрска глава", а погубљени су и многи његови људи.” (Radojičić 1952: 62; traduzione mia M.R.).