L’autore nell’«Avvertenza» presenta il suo lavoro come un pamphlet, vale a dire come un libro di dimensioni ridotte su un tema attualissimo e animato da una vis polemica, e quindi con i toni e i colori adatti a questo tipo di opera. Il libro è tutto questo, ma anche molto di più, e l’autore stesso trova modo di dirlo quando, chiudendo l’«Avvertenza», ricorda ai suoi lettori corregionali di essere in qualche modo responsabili del fenomeno che condannano: i lettori che diventano protagonisti sono un dato da aggiungere al genere pamphlet e un qualcosa che riguarda l’essenza stessa del lavoro di Alessandro Tarsia, ed è indicata nel sottotitolo, Antropologia dei calabresi. In effetti il saggio è uno studio antropologico del territorio e dell’ambiente culturale nel quale fiorisce la ’Ndrangheta. E' uno studio impostato con quella nozione di agency, recentemente messa in circolazione dagli psicologi e antropologi americani e presto entrata in Italia come ‘agentività’, ossia una sorta di interdipendenza o anche collaborazione fra due o più sistemi culturali. In altre parole, come dimostra il libro, la mentalità e la cultura calabrese hanno prodotto la ’ndrangheta che poi diventa un modello attraverso il quale i calabresi capiscono la vita e la mitologizzano. Data una simile impostazione il libro non s’incentra sulle tresche delle cosche, sui crimini dei boss e degli accoliti di cui parlano spesso i giornali e tantissimi film e documentari, ma ci descrive e ci racconta la cultura dei calabresi, e si concentra sulla sinergia o quel tutto organico che la cultura calabrese produce in un circolo di causa - effetto - causa. L’autore, insomma, vuol conoscere per causas, come dicevano gli scolastici, perché questo tipo di conoscenza è quella che penetra le origini e le essenze delle cose. Per questo il libro mi sembra originalissimo e singolare fra i mille lavori dedicati al tema.
Parlare di cultura significa correre il rischio di cadere in ampie generalizzazioni, ma Tarsia evita questo pericolo, riuscendo a fare discorsi generali che illuminano caratteristiche o linee portanti e costanti di una cultura, ma nello stesso tempo a renderle specifiche con un’attenzione ai particolari visti con tecniche narrative addirittura naturalistiche. La struttura del libro ci aiuta a entrare in questa sinergia. È ripartita in 16 capitoli, di cui i primi 8 sono dedicati alla natura o all’habitat (1. Le radici dell’ideologia; 2. L’agricoltura; 3. L’orto; 4. Il giardino; 5. La natura selvatica; 6. Gli animali; 7. Le vie dell’acqua; 8. L’Ente ’Ndranghetista (per la difesa del territorio); e gli altri otto alla natura o cultura della ’ndrangheta (1.Briganti si diventa; 2. Vuoto a perdere; 3. Totem e tribù; 4. Sei calabrese e ti tirano pietre; 5. La casa sull’abisso; 6. L'ecistica della roba; 7. Ideologia e mitologia; 8 L’anti-’ndrangheta). Da questo indice si può vedere che il tema venga studiato per sezioni, e già questo limita la potenziale dispersività dei discorsi generali. In secondo luogo appare evidente una dialettica fra la natura (e si intuisce che sarà la prima vittima) e gli snaturati figli suoi che essa produce e che la rinnegano fino a farla apparire simile a loro. È una situazione che ricorda un po’ la definizione che Adorno diede dell’antisemitismo: «picchiare gli ebrei fino a farli apparire tali». La Calabria degli ’ndranghetisti sta diventando simile a quella che vogliono i suoi figli snaturati.
I calabresi sono impegnati a cambiare il sistema o ecosistema naturale che li circonda: alle querce millenarie degli antichi abitanti della Magna Grecia preferiscono la palma; sradicano le piante di arancio per far spazio agli alberi di kiwi, e le piante di sughero per farne crescere altre d’importazione ... tutta una serie di operazioni che hanno un nota comune: diventare altri per essere come loro, spinti da quel tipo di provincialismo che rinnega il proprio ambiente per trasformarlo in qualcosa che non è compatibile con il proprio ecosistema e con la propria cultura, e quindi in qualcosa che va contro la natura. Questa violenza si rivela negli sboscamenti, nel trionfo selvaggio del calcestruzzo, in un’architettura incongrua per la natura del luogo, in un’urbanistica che snatura quelle culture sedimentate da millenni, si esprime nella violenza contro gli animali: è la matrice dalla quale nasce la mentalità degli ’ndranghetisti. Per questo esiste un rapporto di ammirazione e timore verso i campioni di quella violenza, rapporto contraddittorio che si spiega solo pensando che gli ’ndranghetisti sono creature mostruose ma che di fatto sono nate dal ventre della società. La ’ndrangheta, insomma, nasce per partenogenesi e stimola una forma di narcisismo perverso, e per questo distruggerla è difficilissimo perché si amano i propri figli anche quando sono mostruosi.
Quando poi si passa all’aspetto culturale e sociale, allora riconosciamo fatti che magari ci sono noti perché la letteratura sull’argomento è ormai vasta. E anche da questo punto di vista Tarsia vede come la collettività crei il modello dello ’ndranghetista, proiettando in esso le sue passioni peggiori e i suoi complessi, e ne diventi poi la vittima che però ammira l’efficienza di quel modello. Il termine ‘ndrangheta viene, per quel che ne so, dal greco aner/andros, cioè uomo con la connotazione fortissima di forza e di virilità, e le pagine di Tarsia mettono in luce quel comportamento violento da macho, prepotente e impegnato in tutti i modi a conformarsi all’ideale di un uomo tutto d’un pezzo, portato agli estremi specialmente in quelle azioni che mostrino la sua volontà di sopraffazione. Tale volontà ha per fine la potenza che è poi lo strumento dell’elevazione sociale, intesa non solo come status economico ma anche come un grado altissimo di rispetto, che è assicurato se lo si ottiene incutendo terrore. Tutti gli aspetti dell'identità calabrese puntano a quello status di supremazia, di affermazione sdegnosa dei propri desideri che poi, tutto sommato, sono i desideri degli altri, perché lo ’ndranghetista vuole essere come la gente vuole che sia anche se poi lo teme: il timore è la conferma che il modello desiderato/temuto si è realizzato. Questo ideale viene inculcato con la pedagogia domestica, si consolida nelle conversazioni che sono sempre motivo di esibizione della propria virilità, domina nei rapporti domestici e sessuali, nella repressione sessuale e nell’esibizione del disprezzo per i gay, nei rapporti di lavoro, nella mitologia del capo, nella devozione che però diventa servilismo, nella concezione generale della vita dove le associazioni sono sempre viste sotto l’aspetto della gerarchia, dell'ostilità, dichiarata o no, contro la legalità, nell’ottica della famiglia/clan e della tribù priva di qualsiasi altro senso sociale. Vista da tante angolature diverse emerge una calabresità, nemica a se stessa e agli altri, nell’illusione che il senso di ostilità sia la migliore via di ascesa civile e di difesa, nonché di realizzazione di quell’ideale mal concepito, costruito sull’ignoranza della propria storia e del proprio ambiente.
Quanto sia credibile una tale ricostruzione della cultura calabrese è cosa che non possiamo verificare: per un verso si sa che ogni discorso generale, pur sostanzialmente giusto nelle caratterizzazioni, pecca sempre un po’ di una sommarietà che molti particolari possono smentire; per un altro verso un libro scritto in modo così brillante non può essere tutto frutto di osservazioni infondate. Si tratta, infatti, di un libro avvincente per la natura della sua scrittura colta e incisiva. In parte ritiene la vena della satira, e quindi tende alla ipercaratterizzazione — immancabile ingrediente delle caricature che rendono sommari gli aspetti concreti, ma riescono in modo eccellente ad evidenziare le caratteristiche principali —, sottolineata da toni ora sarcastici ora umoristici ora ironici, in una prosa che non rallenta mai il ritmo e la foga dello smascheramento che persegue. Si procede con sorprese continue: una volta è la descrizione di un paesaggio che sotto la penna di Tarsia acquista sapori e colori e suoni. Altre volte è un bozzetto magari di una cena ad una festa, tra urla e gare di volgarità, oppure una passeggiata fra amici in cui non manca mai il vanto della virilità o la battuta oscena, oppure dell’impiegato che in ufficio dormicchia, del tutto indifferente, anzi ostile, ai bisogni del padrone ma anche del pubblico; oppure è la vicenda politica di un’autostrada mai finita; oppure le punizioni corporali di un padre che crede che educare bene significhi prendere a calci i figli; oppure un casolare accanto ad una casa moderna, molto «Maiami» ma poco Ionio e poco Sila. Sono tutti tocchi calibratissimi e vivaci che tengono il libro vivo ad ogni apertura di pagina. Non mancano neppure interventi che potrebbero sembrare frutto di uno sperimentalismo. Mi riferisco, ad esempio, ad elenchi sostenuti di nomi di piante o di ortaggi o di pesci o di uccelli o di frutti e verdure che sono forse l’aspetto più concreto del mondo descritto. I cataloghi sono un genere strano che potrebbe esistere solo per se stesso ma potrebbe entrare anche a far parte di tantissime opere di generi svariati, lasciando che in ogni caso sia l’autore a dar ad essi una funzione. I cataloghi non hanno misure: possono essere infiniti o brevi, possono essere accorciati o allungati, possono accettare riduzioni o aggiunte in qualsiasi loro punto ma rimangono sempre cataloghi, serie di nomi di oggetti senza altra funzione che quella di far parte di una lista. Elenchi di questo tipo nomenclatorio sono normalmente associati al genere delle enciclopedie e sono spesso di natura dotta. I cataloghi di Tarsia, che potrebbero sembrare soperchierie ed esibizione di sapere gratuito, in realtà dimostrano conoscenze e competenze autentiche, ma non sono gratuiti in quanto hanno sicuramente una funzione. Fermandoci soltanto ai cataloghi delle piante, cogliamo subito la natura dotta dell’elenco di nomi scientifici, e ci sorprende tanto sapere botanico in un libro sulla ’ndrangheta, e quello che potrebbe sembrare esibizionismo da parte dell’autore è invece una parte integrale della sua polemica. Quei nomi di piante e di verdure — per fermarci al bosco e all’orto — formano quasi un manifesto delle cose che esistono e che vengono dimenticate da quanti si affannano a distruggere il loro ambiente. Sono quasi una rassegna ontologica dell’essenza di una Calabria che resiste alla furia distruttiva di fruitori degeneri. Sunt lacrimae rerum. Tutti quei nomi sono quasi documenti indiziari di una realtà che vorrebbe resistere all’arroganza di chi ama sradicare se stesso per esibire la propria potenza di essere un altro. Gli elenchi di piante hanno la forza della storia vissuta da una terra, una storia che produce un senso di vertigine per la sua durevolezza e che la lunghezza dell’elenco vuole documentare in misura proporzionale alla sua longevità. E il documentarlo con sapere scientifico, oltre a rendere preziose quelle piante, vuole anche contrapporsi all’ignoranza di coloro che combattono contro la propria natura senza saperlo. La scrittura di Alessandro Tarsia si avvale anche di queste raffinatissime tecniche letterarie. La polemica contro questa Calabria che si ostina a rimanere nel mondo dei valori che non sono più compatibili con le esigenze della nazione moderna, che nello stesso tempo vuole svecchiarsi inseguendo un concetto di modernità affatto sbagliato, è chiaramente una terra amata dall’autore, ed è questo amore che lo porta ad essere durissimo con chi non lo condivide e distrugge ciò che a lui è caro. Tutte le polemiche presuppongono la visione di una realtà diversa e alternativa a quella che condannano. Alessandro Tarsia non fa eccezione. Il suo è sì un pamphlet polemico, ma è anche un manifesto d’amore, un appello ad uscire da quel circolo dell'agentività che il suo libro illustra da maestro e con lo sguardo penetrante dell’amante offeso, e che proprio per questo è anche volutamente deformante in senso caricaturale. E il messaggio generale del libro, se non fosse esplicitamente indicato nei paragrafi conclusivi, si deduce dal modo in cui l’intero tema è stato considerato: non si vince la ’ndrangheta con operazioni politiche e di polizia se non la si combatte anche sul fronte di quella cultura che la genera.