Antonio Aloisi e Valerio De Stefano, voi siete autori del libro Il tuo capo è un algoritmo. Contro il lavoro disumano edito da Laterza: quale svolta sta imponendo al mondo del lavoro l’evoluzione tecnologica?
Il mondo del lavoro cambia, spinto da tendenze legate alla digitalizzazione, alla demografia, alla globalizzazione, alla crisi climatica. Più in concreto, ogni giorno sperimentiamo questa trasformazione sulla nostra pelle. Cambia l’organizzazione, cambiano gli strumenti, cambiano i rapporti di forza. A dire il vero, essere in perenne evoluzione è una caratteristica intrinseca, e affascinante, del lavoro. Eppure, la velocità, la portata e la varietà di alcuni vettori dell’accelerazione in corso, quali automazione, intelligenza artificiale e piattaforme, ci pongono al cospetto di sfide in parte nuove, per le quali siamo scarsamente equipaggiati. Per orientarsi, sosteniamo nel libro, c’è bisogno di un cambio di passo. “Il tuo capo è un algoritmo” adotta una prospettiva inedita, rinunciando all’idea che lo stato del progresso tecnologico sia – come troppi sostengono – inevitabile. Sostiene che, per governare la trasformazione digitale, sia necessario scegliere non quanto, ma quale lavoro vogliamo.
Il caso del lavoro da remoto è in questo senso emblematico. Anziché disegnare schemi flessibili, improntati alla collaborazione e alla responsabilizzazione, molto spesso si replicano logiche gerarchiche di controllo che beneficiano dell’abbondanza di “software spia” e strumenti collaborativi, finendo di fatto per sprecare questa occasione. L’evoluzione tecnologica, infatti, porta a fare i conti con noi stessi – e più precisamente con le nostre priorità.
Nel libro scriviamo che “la tecnologia è un alleato imprescindibile, dalla fabbrica alla scrivania, dal magazzino all’ufficio. È essenziale, però, sfidarla continuamente sul terreno della convenienza sociale e politica, prima ancora che economica”. Il testo intende vuol far riflettere su come la tecnologia possa essere utilizzata per migliorare la vita e il lavoro, a patto di non lasciare che il settore del tech si auto(de)regolamenti pretendendo di reggere le decisioni pubbliche quale unico arbitro del nostro destino. Vogliamo anche raccontare come i nuovi strumenti di lavoro ci permetteranno di risparmiare fatica e noia, rimpiazzando lavori pericolosi, duri o ripetitivi. Allo stesso tempo, ci sforziamo di mettere in guardia su come alcune applicazioni tecnologiche tendano a essere usate per sottoporre tutti a regimi di sorveglianza invasiva e continua, anche sul lavoro (accrescendo il livello di stress e annullando gli spazi più intimi di riservatezza). Anziché semplificarci la vita, c’è il rischio che la tecnologia replichi errori del passato, mai davvero archiviati. Dagli algoritmi (usati per selezionare i candidati a una posizione lavorativa) che incorporano pregiudizi e disparità, alle piattaforme online della gig-economy (che in molti usano per ordinare una pizza in una sera di pioggia) che esercitano poteri robusti rinunciando alle responsabilità che ne conseguono, fino all’intelligenza artificiale usata per sorvegliare al millimetro il comportamento dei lavoratori, così comprimendo ogni spazio di autonomia e creatività. Ma non siamo condannati a questa realtà. Il testo offre gli strumenti per godersi il meglio dell’innovazione, senza abdicare ai valori fondamentali.
Quali rischi comportano per il lavoro umano l’elevata automazione e la sempre maggiore innovazione tecnologica?
Per troppo tempo siamo stati bombardati da tesi molto avventurose sul rischio che i robot ci rubassero il mestiere, lasciandoci disoccupati o sul lastrico. Solo per citare un caso emblematico, qualche anno fa, sulla copertina del New Yorker campeggiava a tutta pagina un robot dalle fattezze umane intento a fare l’elemosina a un mendicante barbuto o trasandato. Sullo stesso numero della rivista americana, tuttavia, si poteva leggere un lungo articolo dal titolo “La fabbrica oscura”, a firma di Sheelah Kolhatkar. Il pezzo passava in rassegna le diverse implicazioni dell’introduzione di moderni processi industriali nei luoghi di lavoro, e si concentrava, tra le altre cose, su un’analisi approfondita della relazione tra lavoro umano e macchine intelligenti. Il pezzo ruotava attorno alla testimonianza diretta di alcuni operai che hanno sperimentato picchi, crolli e poi risurrezioni, legati ai fenomeni di globalizzazione e digitalizzazione che hanno investito la manifattura statunitense. Nel complesso, l’articolo trattava si premurava di affrontare in maniera scrupolosa l’impatto dell’automazione sui posti di lavoro che sopravvivono alla crisi economica, alle delocalizzazioni e all’installazione di apparati automatizzati. Il messaggio è che non ci si deve far distrarre dal feticcio della “robocalisse”, lo scenario distopico che va tanto di moda. Il lavoro non finisce, semmai in larga parte cambia. Per questo servono competenze nuove, regole certe e investimenti corposi. È stato dimostrato da studi molto più attendibili di quelli allarmistici che un lavoro è fatto di tante mansioni diverse, di queste solo alcune possono essere sostituite da dispositivi automatizzati (quelle più monotone e ripetitive, sia manuali che di concetto). In molti casi, l’uomo mantiene una posizione di vantaggio imbattibile: destrezza, pensiero critico, flessibilità – sono doti umane che non possono essere “codificate” e per questo è pressoché impossibile insegnarle ai robot. Questa notizia ci rincuora fino a un certo punto. D’altra parte, come scriviamo nel libro, non è detto che l’automazione sia l’unico rischio che corriamo. Il lavoro precario, povero, svuotato del contributo astratto individuale è spesso più conveniente della stessa automazione di massa – che comporterebbe esosi investimenti su larga scala. Di questo dovremmo occuparci, anziché rincorrere i profeti di sventura. Il rischio è che, assunta a piccole dosi, l’automazione imperfetta svilisca l’apporto umano e renda le attività fungibili, appaltabili al ribasso. Esiste un filo rosso che collega la retorica della “fine del lavoro” e la perdita di qualità di molte mansioni. In una battuta, è più probabile che gli umani vengano condannati a fare i lavori che neanche le macchine si sognerebbero di fare. Ci sembra un terreno poco esplorato e con il libro proviamo ad accendere un faro sulla questione. Sarebbe interessante aprire un dialogo con i lettori su questa prospettiva.
Come cambia nell’era digitale il diritto del lavoro?
“Il tuo capo è un algoritmo” è un libro che parte da questioni di natura giuridica per occuparsi prioritariamente di temi che investono l’intera società e riguardano ognuno di noi. Come ammettiamo nel prologo, è un libro anche di diritto, ma parla la lingua di tutti e si avvale di esempi tratti dal quotidiano, di casi concreti (talvolta anche ironici) e di aneddoti ispirati a casi comuni. Se proprio occorresse incasellarlo in un genere letterario, ci piacerebbe considerarlo un dispaccio dal fronte del lavoro che cambia, senza alcuna velleità da manualistica. È vero, però, il diritto del lavoro è al centro della nostra analisi. Noi sosteniamo che il diritto un alleato dell’innovazione autentica, dacché fornisce soluzioni credibili ad esigenze genuine. Troppo spesso si sente dire che le regole esistenti finiscono per ammazzare la modernità nella culla. Eppure, lo stato di salute dei paesi in cui le istituzioni sociali sono solide è ottimo, si pensi alla Germania. Chi si lamenta delle regole poco al passo con i tempi, spesso ha in mente un modello in cui si compete in maniera sleale – i cui successi tardano ad arrivare.
Il caso del lavoro tramite piattaforma è in questo senso emblematico. Autisti, fattorini, traduttori, manutentori, giardinieri, camerieri, baby-sitter, spedizionieri, artisti, revisori. Per anni abbiamo dovuto subire le sirene del “lavoretto”, del passatempo in un regime di quasi gratuità. Passata questa illusione, si è fatto ricorso al tema della flessibilità oraria che un rapporto di lavoro avrebbe giocoforza annullato, a scapito dei lavoratori con esigenze discontinue e intermittenti. Il tutto all’ombra di un modello fortemente gerarchico e rigidamente standardizzato, in cui si annullano le tutele e trionfa la deresponsabilizzazione. Anni e anni di sofismi sbriciolati di fronte alle sentenze, compresa quella autorevolissima della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che sancisce che il controllo esercitato da molti sedicenti intermediari è in tutto simile, se non più penetrante, di quello che si manifesta in un rapporto di lavoro “classico”. Che dire? Nonostante gli allarmismi sull’obsolescenza del rapporto di lavoro sulla scia delle perturbazioni tecnologiche, nel libro sosteniamo che le istituzioni sociali possono benissimo coesistere con la modernizzazione. Non è vero che la flessibilità di decidere quando e se lavorare sia inconciliabile con il lavoro subordinato, tanto più quando a dominare sono algoritmi, manager in carne e ossa attivi via chat o via telefono e sistemi di valutazione affidati ai consumatori. Anche in questo caso, abbiamo perso troppo tempo. Di recente, nonostante confuse fughe in avanti, molte piattaforme hanno annunciato di voler ricorrere a rapporti stabili per garantire servizi di qualità, all’altezza delle attese e dei volumi che sono aumentati anche per via del lockdown da pandemia. Checché ne dicano le cheerleader dell’innovazione “che spacca”, è importante notare che moduli organizzativi flessibili sono perfettamente compatibili con il contratto di lavoro subordinato, come hanno dimostrato decenni di innovazioni aziendali e pronunce giurisprudenziali.
Per sua natura, il diritto del lavoro ha attraversato grandi mutazioni e non manca certo di adattabilità. Grazie alla sua anima flessibile è in grado di offrire strumenti in linea con i bisogni del contesto produttivo, anche in epoche mercuriali come quella attuale, mediando tra interessi contrapposti. In questo senso, nel libro offriamo un catalogo di soluzioni su cui è oggi urgente confrontarsi. Prima di tutto, attraverso l’azione collettiva. Sebbene vissuta come un relitto del passato, la contrattazione collettiva fornisce strumenti rapidi ed elastici per affrontare la trasformazione in atto, dal governo degli algoritmi alla gestione del tempo di lavoro passando per la formazione costante e le premialità rispetto ai risultati conseguiti. C’è bisogno però che tutte le parti scommettano su questa opportunità, costruendo strategie nuove e imparando a maneggiare le tecnologie.
Quale futuro per il lavoro?
Il nostro tentativo è proprio quello di uscire dallo stato di eccezionalità riconosciuto al tech. Il lavoro del futuro è senz’altro più tecnologico di quello presente, allo stesso tempo, le tecnologie del futuro saranno usate in modo più umano-centrico di come facciamo oggi.
Ne “Il tuo capo è un algoritmo” scriviamo che “la tecnologia e le sue conseguenze sono il frutto di azioni umane, o ancora di strategie aziendali, e in quanto tali dipendono strettamente dal tessuto sociale e regolamentare su cui si riverberano. La tecnologia e i suoi effetti possono, insomma, essere governate ed è bene che lo si faccia in fretta. Gli strumenti ci sono già, oppure si possono individuare in modo corale. L’importante è non dare l’innovazione per scontata né temere di contestarla, quando necessario, per indirizzarla verso il progresso a beneficio di tutti”.
Ciò che contrastiamo, infatti, è un utilizzo poco critico del digitale, tanto nel privato quanto sul posto di lavoro e, più, in generale nella società. Da un mercato del lavoro in trasformazione ci si aspetta un contributo in termini di inclusione, uguaglianza, accesso diffuso alle opportunità, concorrenza, ma anche efficacia nell’allocazione delle prestazioni sociali, nel contrasto alle frodi e al malaffare. Alle macchine va affidato il compito di liberarci dai lavori meno stimolanti e più faticosi. Agli algoritmi selezionatori l’aspirazione di riuscire ad assumere decisioni più giuste di quelle prese oggi, scrostando ogni scelta dalle scorie che minacciano la dignità umana. Alle piattaforme la capacità di favorire l’incontro di domanda e offerta di lavoro in modo intelligente e sostenibile, evitando la precarizzazione e l’impoverimento. Ci serve una tecnologia che sia in grado di produrre risultati migliori di quelli finora ottenuti a mani nude. Per realizzare in concreto la promessa emancipatrice che oggi tarda a materializzarsi. Questo è l’auspicio con cui concludiamo il testo, sperando di mettere queste idee a disposizione di un pubblico ampio e interessato.
Il lavoro tramite piattaforma digitale è un campo di battaglia. Prendiamo i rider, l'iceberg emerso di un continente ancora poco visibile dove lavoratori senza tutele arricchiscono i Leviatani della rete. Le loro lotte sono un fuoco di fila. E le risposte sono più dure ancora. In California Uber e le altre mega-aziende hanno finanziato un referendum vittorioso che ha rovesciato una legge dello Stato che riconosceva i ciclo-fattorini e gli autisti come dipendenti e non appaltatori. In Italia le piattaforme digitali della consegna del cibo a domicilio hanno firmato un contratto con il sindacato Ugl e impongono a più di 20 mila rider in Italia di continuare a lavorare a cottimo, mentre ci sarebbe una legge che dice il contrario. Antonio Aloisi e Valerio De Stefano hanno pubblicato per Laterza Il tuo capo è un algoritmo pp.224, euro 18), un libro che permette di orientarsi in queste lotte e delinea un interessante piano politico e programmatico.
Partiamo dai rider in Italia. Con il contratto Assodelivery-Ugl, definito “pirata” dai sindacati, cosa bisogna fare per riconoscere i diritti e le tutele?
Questa è una vicenda paradossale. Non esiste un paese sviluppato dove si possa imporre a tutti un contratto firmato da un sindacato la cui rappresentatività nel settore è minima, sotto minaccia di escludere chi dissente privandolo del lavoro. Il Ministero del lavoro ha reagito negando che il contratto sia abbastanza rappresentativo da poter disinnescare la legge che impone di parametrare il compenso ai contratti collettivi di settori affini, vietando il cottimo. Bisogna anche ricordare che, per la Cassazione, i rider di Foodora erano etero-organizzati. Non si vede perché per i fattorini delle altre piattaforme dovrebbe valere un giudizio diverso. Per questo, in mancanza di un contratto collettivo idoneo, andrebbero tutelati come subordinati, salvaguardando i benefici del lavoro autonomo, come prevede la legge. Se UGL agisse come un sindacato genuino, il minimo che dovrebbe fare è intimare alle piattaforme di non escludere i rider che non accettano il nuovo contratto. Nessun sindacato tollererebbe l’estromissione dei lavoratori dissenzienti. Si sfruttano alcune ambiguità sulla tutela collettiva dei lavoratori presunti autonomi. Ma non c’è alcuna valida ragione perché le libertà sindacali degli autonomi siano inferiori a quelle dei dipendenti, secondo la Costituzione e il diritto internazionale. Speriamo che la nostra giurisprudenza se ne dimostri consapevole.
Dal punto di vista del diritto del lavoro, ambito in cui vi muovete, in che modo pensate bisogna contrattare il lavoro digitale dato che non tutto è assimilabile al lavoro subordinato come accade per i rider o gli autisti di Uber?
Sindacalizzazione e divieto di discriminazione, prima di tutto. Bisognerebbe anche discutere di compensi minimi, anche se è difficile immaginare un meccanismo per fissarli. Persone da ogni parte del mondo competono per le stesse commesse: un compenso per noi infimo potrebbe essere “appetibile” per un lavoratore nel Sud del Mondo. Esistono meccanismi di tutela a transnazionali, per esempio nell’ambito dell’Unione Europea, che consentono di garantire standard minimi limitando la corsa al ribasso delle tutele. Pensiamo che vada fatto uno sforzo di questo tipo per il settore, ma la strada è lunga. In ogni caso, se è vero che non tutti i freelancer online sono subordinati, va anche ribadito che certi diritti fondamentali valgono anche per gli autonomi.
Oltre alle tutele nel rapporto di lavoro, ritenete necessario istituire tutele universali come un reddito di base per tutti i lavoratori poveri, non solo per quelli digitali?
Sì, pensiamo che vadano universalizzate alcune tutele e garantito l’accesso al reddito, muovendo gradualmente verso reddito di base. Per farlo è necessario rimuovere le condizionalità del welfare che impongono di accettare lavori sottopagati, che drogano al ribasso il mercato del lavoro e soffocano la competitività. I meccanismi di controllo delle condizionalità costano molti denari, tra burocrazia e personale, sono opprimenti per i beneficiari e generano sussidi distorti anche per le imprese. in questa prospettiva il lavoro su piattaforma di scarsa qualità non va isolato. I lavori poveri, sottotutelati e che hanno alla base meccanismi di elusione normativa – come il falso lavoro autonomo o le finte cooperative – sono parte di un fenomeno vastissimo che va molto oltre e lo precede. Insomma, non è colpa dell’iPhone se abbiamo il lavoro precario.
Per quale ragione criticate il cosiddetto “reddito di cittadinanza” e in quale direzione dovrebbe evolvere?
Mischia misure di sostegno economico e politiche attive in modo confuso ed è basato ancora sull’idea della condizionalità. Così facendo si cade nella retorica di quelli che si battono contro gli “sdraiati sul divano”, sbandierando un omaggio distorto alla dignità del lavoro. In realtà, forzare chi è in difficoltà ad accettare qualsiasi lavoro pur di non morire di fame è il contrario del nostro modello costituzionale.
Nella pandemia in tutto il mondo lo smart working è esploso. Quali sono le insidie di e in che modo lo si può contrattare?
Nonostante le troppe, dissennate resistenze, il lavoro da casa è anche uno strumento per “appiattire la curva” dei contagi, limitando gli spostamenti non indispensabili. Si tratta di una pratica riservata alle professioni impiegatizie, certo, ma i benefici si estendono indirettamente anche ai quei lavoratori le cui attività “essenziali” non sono remotizzabili. I primi dati confermano che produttività e soddisfazione sono cresciuti nonostante i disagi. È spesso emersa l’incapacità di molti manager di adattarsi a una cultura organizzativa tarata su progetti e consegne. La logica del presenzialismo tossico si è trasferita dall’“open space” al tinello. È anche esplosa la richiesta di piattaforme “collaborative” piegate alle esigenze di una sorveglianza soffocante dalla rendicontazione al millimetro fino alle telefonate di controllo, a scapito dell’efficienza. Non solo, molti lavoratori hanno assistito ad una dilatazione dei tempi di lavoro. Anche ora, districarsi tra obblighi di cura, isolamenti volontari o forzati e impegni professionali mette a dura prova le categorie vulnerabili. Rispetto al modello ideale, mancano due elementi chiave: volontarietà della scelta e alternanza tra sede e altri spazi. Non bisogna però sprecare l’occasione per disegnare flussi e ruoli dinamici, negoziando remunerazioni che tengano conto dei risultati, zone franche senza riunioni e strumentazioni che garantiscano riservatezza, protezione dei dati e cybersicurezza. L’obiettivo è passare da un regime di sospetto a uno di autonomia e collaborazione, investendo in responsabilizzazione e fiducia.
Cosa rispondete a chi crede che il lavoro è finito e sarà sostituito dall’automazione digitale?
Magari! Battute a parte, nell’attesa che arrivino i robot a spazzare via tute blu e colletti bianchi assistiamo al tentativo di usare questo feticcio – smentito ormai unanimemente – per accelerare un processo di svalutazione del contributo umano e di erosione delle tutele. La tecnologia non è neutra. Il suo impiego nell’organizzare il lavoro su piattaforma è fonte di abusi. Nel mezzo della pandemia, molti fanatici del soluzionismo tech si sono avventurati a ricordarci che “le macchine non si ammalano”. Eppure, abbiamo tutti potuto verificare come dietro la facciata scintillante di molti modelli produttivi operi un esercito quasi invisibile di lavoratori in carne e ossa il cui contributo è poco valorizzato, ma insostituibile. Per due motivi. Da un lato, molta innovazione “al consumatore” è ancora disfunzionale e ha bisogno di costanti aggiustamenti. Dall’altro, purtroppo il lavoro precario è spesso più conveniente di un serio investimento in nuove tecnologie che liberino le energie e semplifichino i processi. Per ora ci tocca una versione troppo fanfarona dell’innovazione, soprattutto in alcuni settori in cui di automazione non c’è traccia, mentre invece prevale il lavoro povero e sottoprotetto. La fine del lavoro è rimandata a data da destinarsi.
Usano Twitter e Facebook, per lavoro e svago. Guardano Netflix, ogni tanto. Ma di fare la spesa online, ordinare una pizza o condividere un’auto tramite App non se parla: «Quasi mai, sarebbe incoerente». Loro sono due giuslavoristi italiani laureati in Bocconi che insegnano diritto del lavoro all’estero. Valerio De Stefano, 38 anni, calabrese, Università di Lovanio (KU Leuven), Belgio. Antonio Aloisi, 31 anni, pugliese, IE University di Madrid, Spagna. «Ma non chiamateci cervelli in fuga», chiariscono subito via Whatsapp. Il loro nuovo libro, appena uscito, ha un titolo curioso: “Il tuo capo è un algoritmo. Contro il lavoro disumano” (Laterza). Un manifesto-denuncia dell’uso distorto delle tecnologie nel mondo del lavoro. «Dovevano semplificarci la vita, invece sono un asso nella manica per sorvegliare, misurare, egemonizzare, ricattare, mercificare, brutalizzare, punire. Alzano barriere e ingigantiscono le disuguaglianze anziché ridurre le disparità».
Non sarete mica tecnofobi?
«No. Rivendichiamo il diritto a criticare la tecnologia, a sfidarla, a governarla senza subirla. Il lavoro non è una merce, non è neanche una tecnologia».
E cos’è allora? Colpa delle App se i giovani trovano solo lavoretti?
«Il precariato non l’ha inventato la Silicon Valley, non è colpa dell’iPhone. Non è una novità, ma la tecnologia lo amplifica perché procura lavoratori alla spina da pagare on demand, all’utilizzo. La gig economy, l’economia dei lavoretti, ha esacerbato la parcellizzazione dei rapporti di lavoro. Poggiando spesso su una menzogna, quella dell’autonomia, di lavorare quando si vuole. In realtà l’algoritmo ti retrocede o ti esclude, se non ti impieghi in continuità. Ecco che più sei precario, più sei senza protezione».
La tecnologia ci ha rovinato la vita? Ma non c’è un diritto del lavoro che ci difende?
«Molte regole “classiche” sono di supporto al datore che può organizzare in modo efficiente il lavoro. Mentre i lavoratori dell’era digitale non hanno la forza di negoziare le loro condizioni, sono soli, atomizzati, scarsamente sindacalizzati, privi di tutele. Il fattorino o l’autista perde il posto se viene sloggato, scollegato dalla App. L’economia informale è stata troppo a lungo tollerata, producendo precariato oltre il limite fisiologico. Chi si occupa della salute e sicurezza di questi presunti freelance? E chi del loro futuro previdenziale, dei diritti alle ferie o alla maternità?».
Si può contrattare l’algoritmo?
«Certo, siamo solo all’inizio del dibattito. L’algoritmo non nasce da automatismi, ma è programmato da umani per arrivare a certi risultati (anche positivi, come proteggere il lavoratore, ad esempio quando è stanco o si distrae). Questa sfida è il campo della contrattazione del futuro che dovrà individuare cosa entra nell’algoritmo e cosa resta fuori. Non dobbiamo credere che non ci possiamo fare nulla, la tecnologia non è una magia per pochi addetti. La consapevolezza sta crescendo, il digitale può essere “normalizzato” evitando lo stato di eccezione perenne. La sovranità sui dati va rivendicata anche sul posto di lavoro».
Ma davvero avremo tutti un capo algoritmo prima o poi?
«I sistemi e dispositivi digitali già oggi sostituiscono il manager, il capo, l’imprenditore in tutte le fasi: selezione, assunzione, organizzazione dei turni, valutazione tramite monitoraggio fino al licenziamento. Poteri che si sono stratificati e legittimati nel tempo. Ma la mutazione genetica in corso rischia di disinnescare i controlimiti sorti per contenere questi poteri. Dobbiamo dircelo: non siamo in grado di controllare fino in fondo quello che succede con gli algoritmi. I rischi di preferenze, discriminazioni, omologazioni sono più alti che mai. I manager, spiazzati come o più dei lavoratori, possono ritrovarsi neoassunti “clonati” dall’algoritmo, scelti a specchio».
Fa molto discutere The Social Dilemma, il documentario di Netflix sullo strapotere delle piattaforme social, in grado di manovrare miliardi di dati personali e non solo a fini commerciali. Succede anche sul lavoro?
«L’algoritmo sa tutto: cosa fai quando lavori o non lavori, mappa col gps la velocità nel prendere o consegnare un pacco, ti sanziona se sei troppo lento o non stai nei tempi, è solerte nella sorveglianza, può licenziarti. Una macchina capricciosa e imprevedibile, spesso sconosciuta agli stessi manager che la usano scommettendo su neutralità e imparzialità. In realtà ogni algoritmo risponde solo al suo programmatore e spesso nemmeno più a lui. La domanda che dobbiamo farci a questo punto non è quanti lavoratori saranno sostituiti dalla tecnologia o quando arriverà la “robocalisse”. Ma quanti subiranno management sempre più invasivi e opachi. E quale sarà la qualità del lavoro futuro».
La pandemia ha accelerato lo smart working o quantomeno il telelavoro. Sta andando davvero tutto bene?
«Intere squadre di lavoratori spostati a domicilio dall’oggi al domani viene vissuta dalle aziende di tutti i settori come l’occasione della vita per esportare su vasta scala una tradizione di controllo tramite software già esistente. Non è solo l’intrusione nelle mail, ma la tracciatura a distanza dei movimenti di mouse e tastiera o delle attività su schermo per vedere cosa fa o non fa il dipendente. Modalità di sorveglianza e raccolta occulta dei dati del tutto sproporzionate e illegittime. I lavoratori sono ignari, le aziende non sanno che i software più diffusi - client di e-mail, videochiamate, scambio di file - tracciano, profilano e vendono i dati di tutti. C’è accettazione e tolleranza oltre a disinteresse. Ma interrogarci su costi e benefici delle tecnologie significa oggi più che mai non ridurre l’innovazione a chiacchiere e food delivery».
In teoria il loro capo è un algoritmo. Sono le persone il cui lavoro è gestito con un’App: dagli autisti di Uber (e di UberEats) ai fattorini che in bicicletta consegnano i pasti per varie aziende come Deliveroo, Glovo, Just Eat, Uber Eats e Social food. Persone che si muovono sulla base delle indicazioni ricevute sullo smartphone. E definite, appunto, da un algoritmo. Il fenomeno fa parte della Gig economy, cioè un modello economico basato sul lavoro a chiamata, occasionale e temporaneo, e non sulle prestazioni lavorative stabili e continuative, caratterizzate da maggiori garanzie contrattuali.
Di garanzie in Italia si parlava da anni, e a settembre 2020 è stato siglato il primo contratto nazionale (ed europeo) dei rider. La loro associazione Assodelivery e il sindacato Ugl hanno raggiunto un’intesa per inquadrare i pony express che consegnano il cibo a domicilio: prevede vari accordi, ma la sostanza è che i fattorini restano lavoratori autonomi ed è riconosciuto un compenso orario minimo di 10 euro. Il dibattito scaturito dalla notizia tra politici, sindacati, esponenti delle varie categorie lavorative e giuristi si è fatto subito acceso.
Proprio due giuristi, Antonio Aloisi e Valerio De Stefano, ne parlano nel libro Il tuo capo è un algoritmo. Contro il lavoro disumano, edito da Laterza e disponibile dal 22 ottobre 2020. Il testo sottolinea come, a causa dell’automazione, degli algoritmi, delle piattaforme online e dello Smart working il mondo del lavoro stia vivendo una vera e propria rivoluzione. La paura diffusa è che crolli il numero degli occupati e che il lavoro umano venga riconosciuto e apprezzato sempre meno. Si teme la capacità di controllo dei software di Intelligenza Artificiale. Ma gli autori avvertono: non esistono tecnologie buone e tecnologie cattive; esistono usi distorti e usi consapevoli delle invenzioni e delle innovazioni.
Quello che è certo è che la tecnologia cambia rapidamente e incide in profondità in tutti gli ambiti, con esiti spesso preoccupanti. Che cosa sta accadendo, quindi, alle professioni che non sono state spazzate via dalla tecnologia? Come ci si confronta con strumenti di sorveglianza dei lavoratori sempre più pervasivi? Quante possibilità ci sono che il modello della Gig economy si affermi come nuovo paradigma produttivo? Che cosa potranno fare le parti sociali e le forze politiche per mettere in campo protezioni efficaci? Il libro, analizzando la situazione attuale e facendo qualche previsione futura, prova a rispondere a queste domande.
Nel volume si legge, per esempio, che la qualità del lavoro presente e futuro dipende da come esso è concepito, contrattato e organizzato. La trasformazione digitale può essere infatti un alleato indispensabile, dalla fabbrica alla scrivania, dal magazzino all’ufficio, ma va messa alla prova sul terreno della convenienza sociale e politica e non solo su quello della convenienza economica. Questo libro, quindi, è uno strumento per orientarsi con coordinate precise sui nuovi scenari, sui rischi che corriamo e sulle scelte necessarie per affrontare il futuro.
Gli autori non lo definiscono un saggio, ma un “dispaccio dal fronte del lavoro”, che “militerà al fianco delle cose più ostinate del mondo, vale a dire i fatti, e dalla parte delle opinioni più sincere in circolazione”: esce il 22 ottobre “Il tuo capo è un algoritmo” (edizioni Editori Laterza), volume che affronta il diritto del lavoro nel contesto della gig-economy, dalla prospettiva di due dei massimi esperti italiani del tema, Valerio De Stefano, giuslavorista e professore alla Università Cattolica di Lovanio, e Antonio Aloisi, docente di diritto del lavoro alla IE University di Madrid.
Scritto con un tono quasi romanzato, il libro parte da questioni di natura giuridica per occuparsi prioritariamente di temi che investono l’intera società e “riguardano ognuno di noi”, con l'ambizione di “scrivere una storia alternativa delle trasformazioni, soprattutto digitali, del lavoro”.
Gli autori partono dal presupposto che quello precario “finisce per rendere precarie, o comunque meno liberali, le nostre democrazie inquiete” (i virgolettati sono citazioni del saggio, ndr.). E provano a rispondere ad alcune delle domande che hanno a che fare col futuro ma soprattutto col presente: “Che cosa succede ai lavori che non vengono spazzati via dalla tecnologia? In che modo si assicura una distribuzione equa dei dividendi del progresso tecnologico? Come si ristruttura la rete di sicurezza sociale affinché sia in grado di offrire soluzioni ai lavoratori non-standard? Quali sono gli elementi indispensabili di un nuovo patto sociale e istituzionale in grado di ridurre le disuguaglianze, contenere il rancore e allargare le opportunità? Che cosa stanno facendo, e cosa potranno fare, le parti sociali e le forze politiche per introdurre misure efficaci che accompagnino la transizione? A questi interrogativi si aggiungono due dilemmi ancora più intimi: a che cosa siamo disposti a rinunciare e a quali obiettivi puntiamo” come società tutta.
L’affermazione che dà il titolo al primo capitolo fuga i dubbi sugli scenari che tratteggiano un mondo fatto di robot: i due autori ne sono convinti: “Niente panico, sono false le voci sulla fine del lavoro”, niente “robocalisse”, dunque, ovvero l’apocalisse della supremazia dalle macchine: “La tesi per cui le macchine, se non più intelligenti, saranno quantomeno più convenienti dei lavoratori è agitata a mo’ di minaccia da chiunque intenda competere spregiudicatamente", tagliano corto. Inoltre, non esiste una ‘torta’ fissa di posti da occupare, bensì una produzione che, se diventa più efficiente, aumenta “il potere d’acquisto e genera maggiore domanda di beni” e di conseguenza più lavoro.
L’avanzata delle tecnologie digitali “può e deve essere governata”, affermano i due giovani professori universitari, mettendo in guardia: “Il processo dinamico dell'innovazione non avviene in un vuoto istituzionale, politico, socioeconomico e culturale”.
D’altro canto, nel testo si mette in guardia da un’altra illusione: “Un pacchetto di regole, per quanto illuminate, non è sufficiente a risolvere i problemi derivanti dall’automazione e, più in generale, dalla rivoluzione digitale”. Ancora una volta sarà la “contrattazione” a governare “la trasformazione digitale”, sostengono i due docenti: “Lavoratori, sindacati e imprese devono negoziare l’uso delle tecnologie sui posti di lavoro, l’utilizzo dei big data e dell’intelligenza artificiale e l’impiego di algoritmi-manager. Le decisioni che hanno un impatto significativo sulla vita delle persone e sul loro lavoro non devono essere prese dalle macchine, con la scusa della loro presunta oggettività”.