Eurofound, agenzia dell’Unione Europea nata per promuovere il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, ha pubblicato un corposo report sui lavori via piattaforma. Lo studio comparativo – a cui si accompagna una serie di sei approfondimenti nazionali, tra cui quello italiano – è stato realizzato negli ultimi dodici mesi da un consorzio formato dai centri di ricerca CEPS ed Eftheia e dagli autori di questa sintesi, oltre che dalla stessa agenzia che ne ha coordinato gli sforzi. Rimandando per ogni approfondimento ai materiali originali, tutti accessibili qui, questo breve contributo riprende i risultati principali dell’analisi della situazione complessiva negli stati membri e riepiloga alcuni interessanti spunti emersi dai casi studio nazionali.
Il nuovo report curato da Eurofound offre una panoramica completa delle piattaforme online che favoriscono l’incontro di domanda e offerta di lavoro retribuito. Dopo aver delineato i contorni del fenomeno e averne descritto gli impatti positivi e negativi, il testo opera una mappatura degli attori di questo segmento economico, delle condizioni di lavoro, del quadro legislativo così come delle recenti riforme e delle tendenze generali in atto nel mercato europeo del lavoro. Sei tra i diciotto paesi presi in considerazione – Austria, Francia, Germania, Italia, Polonia e Svezia, che si segnalano per una certa maturità del trend e garantiscono un buon equilibrio tra zone diverse del continente – sono analizzati più in profondità anche grazie al contributo di esperti nazionali che, a loro volta, hanno svolto interviste semi-strutturate con policy-maker, accademici, lavoratori, piattaforme, rappresentanti dei sindacati e delle organizzazioni datoriali. La sezione qualitativa si rivela oltremodo ricca di informazioni, anche inedite: le interviste ai lavoratori (v. sotto e pag. 34) hanno infatti offerto uno spaccato molto dettagliato delle condizioni di lavoro e di altri profili caratterizzanti, talvolta trascurati in letteratura.
Tabella 1: Profili dei lavoratori delle piattaforme intervistati (e relativi numeri)
Il campo d’indagine è circoscritto dalla definizione che Eurofound dà di “platform work”, uno dei 9 nuovi “formati” di lavoro emersi in Europa a partire dai primi anni del nuovo millennio: “una forma di lavoro che usa una piattaforma digitale per consentire a organizzazioni o individui (lavoratori) di entrare in contatto con altre organizzazioni o individui (clienti) al fine di risolvere specifici problemi o offrire particolari servizi in cambio di un pagamento” (vedi box a pag. 9). In particolare, tre specifiche tipologie di lavoro via piattaforma sono state esaminate: (i) attività locali allocate ed organizzate dalle piattaforme, (ii) attività locali selezionate dai lavoratori, (iii) attività online, in genere di natura creativa, assegnate tramite contest. Per ciascuno di questi segmenti sono stati presi in considerazione la composizione della forza lavoro, l’ambiente fisico così come il contesto regolatorio, il grado di autonomia e l’intensità del controllo, l’accesso alle tutele sociali, le questioni legate alle competenze, alla formazione e alle prospettive di carriera, oltre che i proventi e i relativi profili fiscali e previdenziali.
A questa rassegna si aggiunge un’analisi di taglio giuridico sul quadro legislativo applicabile, sull’inquadramento contrattuale dei lavoratori, sulla relazione formale e sostanziale tra lavoratori, clienti e piattaforme, e sull’organizzazione (proto)sindacale dei lavoratori ad opera di parti sociali e nuovi movimenti spontanei. Anche i casi nazionali replicano questa struttura di massima. Rinunciando alla velleità di riprodurre pedissequamente i contenuti dello studio, nei paragrafi successivi ci limiteremo a evidenziare conclusioni e suggerimenti per le future misure da adottare in questo ambito.
In particolare, è opportuno segnalare come l’assenza di una definizione condivisa del fenomeno, non solo tra paesi ma anche tra esperti, renda impraticabile la comparazione dei dati raccolti dalle diverse rilevazioni svolte negli ultimi semestri e, quel che è peggio, determini gravi fraintendimenti nel dibattito pubblico sul tema. Evidentemente, l’adozione di una definizione comune faciliterebbe il monitoraggio degli sviluppi del fenomeno, da un lato, e garantirebbe una sorta di ecologia dei contributi al confronto su questo trend in ascesa. A tal proposito, pur nel turbinoso rincorrersi di cifre e stime, si registra indubbiamente una rapida crescita del numero di piattaforme e, parallelamente, tanto del numero di lavoratori coinvolti quanto dei moduli organizzativi “alternativi”: monitorare l’evoluzione di questo processo è decisivo.
D’altra parte, gli interventi regolatori non possono fare a meno di tenere conto dell’eterogeneità delle situazioni di fatto nelle diverse tipologie di lavoro via piattaforma, anche al fine di evitare l’eterogenesi dei fini che interventi normativi poco accorti potrebbero determinare. Il report raccomanda che ogni tentativo di “catturare” gli operatori del settore dovrebbe mirare prioritariamente ai “giganti”, proprio per assicurare condizioni leali di competizione e spazi di innovazione per i nuovi entranti. Di certo, è urgente imporre strumenti in grado di accrescere la trasparenza, l’equità (e anche l’interoperabilità) dei rating e introdurre meccanismi di risoluzione delle controversie per evitare che i lavoratori siano alla mercé di algoritmi e metriche, spesso in assenza di qualsiasi canale diretto di comunicazione e confronto con i responsabili aziendali – specie nel primo e nel terzo modello esaminati.
Tra le principali motivazioni del ricorso alle piattaforme si annoverano il desiderio di guadagni aggiuntivi e di flessibilità, l’esigenza di cercare nuove esperienze e nuovi clienti, ma anche e soprattutto – come molti intervistati hanno denunciato – la mancanza di opportunità nel mercato del lavoro tradizionale (peccato, tuttavia, che queste forme non rappresentino quasi mai un canale di accesso a posizioni più stabili). In ragione di ciò, la vasta complessità del fenomeno non va trascurata neppure quando si discute di come qualificare i lavoratori o di come regolarne lo status legale. In particolare, si segnala la necessità di chiarire l’alternativa secca tra lavoro subordinato e lavoro autonomo in alcune giurisdizioni. Si sottolinea come, in assenza di una categoria “cucita su misura” per il lavoro via piattaforma, i lavoratori siano contrattualizzati sulla base delle categorie esistenti, nella maggior parte dei casi inquadrati come autonomi, esclusi dal grosso delle tutele lavoristiche e responsabili in prima persona per la contribuzione – la qual cosa assume una natura ancor più critica per quanti facciano affidamento sul lavoro via piattaforma come prima fonte di reddito. Non mancano le cause e i ricorsi in tutta Europa, e i primi risultati, ovviamente non generalizzabili, sono piuttosto disomogenei. In ogni caso, l’applicazione delle regole esistenti va monitorata e rafforzata per evitare la classificazione fraudolenta di alcuni lavoratori.
Si segnala come le nuove tecnologie siano utilizzate dalle piattaforme per sorvegliare costantemente i lavoratori mentre questi completano la prestazione – questa prerogativa si rivela oltremodo problematica quando è compiuta esclusivamente attraverso sistemi algoritmici (non umani). In più, la sospensione o l’esclusione degli account dovute a comportamenti ritenuti sotto lo standard qualitativo determinano una situazione di profonda precarietà, che si somma all’insicurezza contrattuale e all’instabilità dei proventi. A tal proposito, dallo studio emerge come molti lavoratori spendano una notevole quantità di tempo non remunerato nella ricerca di committenze. Anche in questo caso, occorre promuovere più trasparenza nella descrizione delle pratiche e delle mansioni prima che queste siano prese in carico: solo in questo modo i lavoratori potranno decidere in modo consapevole se sia conveniente accettare l’ingaggio.
Nel caso del lavoro allocato dalle piattaforme si sono evidenziate forme intense di dipendenza dei lavoratori – lo studio evidenzia peraltro come i lavoratori impegnati in attività del primo tipo abbiamo un controllo limitato su orario e organizzazione del lavoro, a beneficio delle stesse piattaforme che mantengono un certo grado di controllo, pur “esternalizzando” le responsabilità connesse con la posizione datoriale. Bisogna, da un lato, assicurare tutele più forti quali, per esempio, l’introduzione di un salario minimo, nei casi in cui queste attività non siano coperte da contratti collettivi o da un minimo legale, e, dall’altro, interventi mirati in materia di orario di lavoro (lunghezza dei turni e delle pause, tempi di attesa delle chiamate) e salute e sicurezza sul posto di lavoro. Significativamente, interventi di questo tipo possono scongiurare la competizione al ribasso sul costo del lavoro.
I ricavi sono per lo più instabili e incerti, legati a turni, consegne e premi stabiliti dalle piattaforme – talvolta stabiliti sulla base di un sistema che combina paga oraria a sistemi di cottimo. Per converso, la partecipazione all’“economia delle piattaforme” per i guadagni collaterali andrebbe promossa per mezzo di regole fiscali più semplici e meno onerose per i lavoratori: il modello può contribuire positivamente all’emersione e alla conseguente formalizzazione di introiti non dichiarati o, addirittura, incoraggiare nuove attività economiche in regime sperimentale. Il fatto che, recentemente, molti governi abbiano avviato un confronto sul tema lascia presagire che anche l’organizzazione dei lavoratori subirà una certa accelerazione. Per ora, si segnala un basso tasso di sindacalizzazione, pur in presenza di primi tentativi di condivisione delle esperienze e di sparuti focolai di azione collettiva (scioperi, sit-in, ricorsi, ma anche gruppi di lavoro e carte dei diritti su scala metropolitana o nazionale). A sindacati e movimenti va il merito di aver guidato e per certi versi dominato il dibattito pubblico sul fenomeno.
Questa breve rassegna non rende giustizia dei contenuti del report, a cui si rimanda senza riserve. In particolare, le conclusioni e le raccomandazioni si prestano a ispirare le scelte politiche sulla necessità e sulla direzione di un intervento pubblico in materia, tanto più che il lavoro via piattaforma presenta molti punti in comune con altre attività comparabili nel mercato del lavoro “tradizionale”. Da un lato, i risultati offrono una roadmap essenziale per gli interventi su scala nazionale e locale, dall’altro, contribuiscono al dibattito sul futuro del lavoro nel quadro del Pilastro europeo dei diritti sociali. Sebbene, in vista dell’appuntamento elettorale del 2019, ci si possa aspettare un rallentamento delle iniziative politiche della Commissione nei mesi che verranno, anche le future istituzioni europee saranno chiamate a confrontarsi con questo tema. Ci si augura possano lavorare per rendere prioritari interventi in campo sociale, a partire da un rafforzamento delle tutele per i lavoratori non standard o comunque impegnati in moduli organizzativi abilitati dalle tecnologie, che rappresenteranno una costante del mercato del lavoro dei prossimi anni.
* Antonio Aloisi è Max Weber Postdoctoral Fellow allo European University Institute di Firenze. È anche docente a contratto di European Social Law presso l’Università Bocconi di Milano, dove ha completato un dottorato di ricerca sul lavoro via piattaforma. In passato ha svolto attività di ricerca presso la Saint Louis University, negli USA.
** Valerio De Stefano insegna diritto del lavoro all’Università di Lovanio (KU Leuven), in Belgio. In passato ha studiato e insegnato presso l’Università Bocconi di Milano, ha fatto l’avvocato giuslavorista e ha lavorato presso l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, un’agenzia specializzata delle Nazioni Unite con sede a Ginevra.