Il futuro del lavoro non è più quello di una volta. Gli ultimi mesi sono stati segnati da un cambio di passo nel conflitto tra lavoratori delle piattaforme e società della gig-economy. A maggio 2018, a Bologna, sindacati confederali e collettivi dei ciclofattorini hanno firmato un patto territoriale con una società di consegne a domicilio, assistiti dall’amministrazione comunale. La “Carta dei diritti fondamentali del lavoro digitale” fissa una paga oraria non inferiore a quella sancita dai contratti collettivi di settore sottoscritti dalle sigle comparativamente più rappresentative, prevede ferie e straordinari pagati, oltre ad obblighi di informazione sulle condizioni di lavoro e sui meccanismi reputazionali e un’assicurazione contro infortuni e malattie. Significativamente, l’accordo riconosce diritti collettivi a tutti “i lavoratori e collaboratori d[elle] piattaforme digitali”.
A questo protagonismo di “prossimità urbana” si sono aggiunti altri accordi aziendali. A luglio 2018, un contratto collettivo è stato firmato tra il sindacato danese 3F e la piattaforma di servizi di pulizie Hilfr.dk. Grazie all’accordo – salutato come “storico” dai commentatori – i lavoratori domestici, in precedenza classificati come autonomi, sono considerati subordinati nel caso in cui completino cento ore di lavoro, a meno che non optino per restare indipendenti. Si prevedono inoltre un salario minimo orario, un regime di tutele in caso di licenziamento e un sistema di protezione dei dati personali e della reputazione (frutto delle recensioni). Più di recente, a febbraio 2019, Hermes, società britannica di consegne, ha negoziato con il sindacato GMB un accordo che garantisce salario minimo e ferie pagate. Il contratto riconosce anche i diritti sindacali.
Segnali positivi emergono in tutta Europa. Da un lato, questi episodi sgretolano il mito d’argilla della presunta non sostenibilità economica di modelli organizzativi, e di formati contrattuali, alternativi a quello tipico della “irresponsabilità organizzata”. D’altra parte, si dimostra come le istituzioni sociali siano in grado di offrire soluzioni flessibili per l’economia on-demand. In più, queste prime intese mettono a dura prova una visione forse troppo conservatrice del diritto della concorrenza, secondo cui – sulla scia delle sentenze Albany e FNV Kunsten – gli accordi per fissare le tariffe a vantaggio di lavoratori non subordinati (si esentano tutt’al più i falsi autonomi) avrebbero effetti restrittivi sulla concorrenza e sarebbero cartelli proibiti a norma dell’articolo 101 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea. Un’interpretazione da aggiornare.
A livello internazionale, i diritti collettivi sono riconosciuti senza distinzioni di categoria legale. Tanto nel contesto del Consiglio d’Europa quanto in quello dell’Unione Europea, in virtù della Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori, sono sanciti libertà di associazione e di contrattazione per tutti i lavoratori. La giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha inoltre stabilito che il diritto alla contrattazione collettiva è elemento essenziale del diritto di associazione sindacale e ne ha progressivamente allargato l’ambito soggettivo. Una simile concezione “universalistica” si trova nella Carta Sociale Europea all’articolo 6 e nella Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, nota come Carta di Nizza, all’articolo 28. In dottrina molte voci hanno sostenuto che i diritti collettivi vanno considerati alla stregua di diritti umani.
Quale che sia la loro natura, le restrizioni ai diritti collettivi appaiono sempre più ingiustificate, proprio alla luce delle profonde trasformazioni in atto. Se si rivolge lo sguardo al diritto internazionale del lavoro, gli articoli 20(1) e 23(4) della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo assicurano rispettivamente il diritto di assemblea e associazione e il diritto di formare o aderire a un sindacato. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro annovera tra i “Fundamental Principles and Rights at Work” la libertà di associazione e l’effettivo riconoscimento del diritto alla contrattazione collettiva. In più l’OIL riconosce il diritto di sciopero quale essenziale corollario della libertà sindacale protetta dalla Convenzione 87. L’articolo 2 sancisce che “i lavoratori e i datori di lavoro hanno il diritto, senza alcuna distinzione […], di costituire organizzazioni”.
Le rivendicazioni di fattorini, autisti e collaboratori probabilmente rappresentano la miccia di una ritrovata vitalità delle relazioni industriali. Anche le centrali sindacali “istituzionali” si sono mobilitate al fianco delle iniziative informali. Nell’era della disintermediazione, c’è ancora bisogno di corpi intermedi e di comunità di rappresentanza in grado di negoziare la trasformazione digitale. Sul piano giuridico, sarà importante superare il riflesso condizionato che fa sì che si riproponga, in campo collettivo e con effetti indesiderati, la classica dicotomia tra subordinazione e autonomia. Il ritorno in auge di schemi standardizzati, la prevalenza di falso lavoro autonomo e le condizioni di monopsonio del mercato del lavoro digitale impongono di rinvigorire a tutti i livelli gli strumenti della contrattazione collettiva, per loro natura più rapidi e flessibili di contenzioso e riforme.
pubblicato su IDEADIFFUSA inserto di informazione sul lavoro 4.0/Marzo2019