SCRIVETE DELLA VOSTRA AVVENTURA E PUBBLICHEREMO I VOSTRI RACCONTI!
Qui per Voi, alcuni estratti delle mie avventure sulle strade che affronterete nella Super Randonnée.
BUONA LETTURA!
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Qui per Voi, alcuni estratti delle mie avventure sulle strade che affronterete nella Super Randonnée.
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SUSA - MONCENISIO: Novalesa “spacca gambe”
Sveglia alle 04.30 del mattino. Colazione. Mi preparo ed esco in strada, bici alla mano. Matteo mi aspetta alla colletta. Il clima è fresco, ma è già molto umido. Carichiamo la mia bici e ci dirigiamo verso Susa, il ritrovo è a Gravere, per l’esattezza a Colfacero, una piccola frazione in mezzo ai boschi. Mi pone moltissime domande sui miei viaggi, le mie esperienze passate, le mie abitudini in bici sulle lunghe distanze e sul come affrontare notti intere sui pedali.
Chiacchierando arriviamo al B&B Masseria Ca’ Mia e sistemiamo le ultime cose prima di partire. Alle 07.15 ci mettiamo in strada e ci muoviamo verso Venaus, dove troviamo ancora dormienti i “resti” dei manifestanti NO TAV della sera prima, ci dev’essere stato veramente tanto movimento. Non siamo molti partecipanti, perlopiù facce a me sconosciute, ma non manca mai un solido gruppetto del Team Roadman Azimut.
La traccia passa da Novalesa e, nonostante abbia percorso quelle strade solo un paio di settimane fa, sono contenta di rifarle; questa volta non è più notte e posso godermi le sue rampe crude e aggressive alla luce del giorno. Salendo, con la coda dell’occhio, noto che ci sono altri due ciclisti dietro di noi, ma dò poco peso alla cosa. Dopo un po’ uno di loro dice “Ah, ma allora c’è qualcuno che va a ritmi da randonnée…!”. Certo, i ritmi nervosi e l’ansia da prestazione la lasciamo ai granfondisti, qui si viaggia, si osserva, si ascolta, si chiacchiera e ci si rilassa. Corro tutti i giorni tutta la settimana, almeno la domenica voglio stare “off”.
Scambio di battute. “Ma tu sei Barbara?”. Cavolo, mi coglie in contropiede. Nemmeno fossi una celebrità, molti sanno chi sono, ma io non so chi siano loro. “Sì, sono io…ma tu come lo sai?” Scopro che è un amico di Fabio di cui, in effetti, avevo sentito parlare. Ricostruisco i miei pensieri e realizzo finalmente l’identità della persona che ho di fronte. “Piacere, Roberto. Posso unirmi a voi?”. E fu così che da coppia di viaggiatori, diventammo un trio. Il bello delle randonnée. Racconti e storie. Scopro che abbiamo fatto insieme la 400 di Saluzzo, ma io non mi ricordo proprio di lui. Mi racconta della Sicilia No Stop, di Noale, che doveva venirci con Fabio, ma poi è saltato tutto. Io gli parlo del mio giugno di fuoco, le tre 600 in un mese, l’Emilia, Verona, Roma. Parliamo la stessa lingua ed è bello condividere storie di imprese e viaggi emozionali. Tutto molto interessante, ma poi decidiamo che è ora di smettere di parlare. La strada sale e il fiato serve.
Novalesa me la ricordavo dura, ma alla luce del giorno tira pugni nello stomaco che fanno ben più male delle carezze cieche della notte. Nel giro di tre ore arriviamo al Moncenisio. La giornata è splendida, nel cielo neanche una nuvola, i colori sono vividi e brillano alla luce del sole. Fa caldo, il traffico è già intenso, ma noi abbiamo proprio voglia di goderci con tutta calma lo scenario da cartolina: il lago verde cattura i nostri sguardi, i fiori viola, il cielo azzurrissimo, le montagne silenti che fan da contorno e da protagoniste assolute di tanta meraviglia. Qualche foto tutti insieme e poi ci fermiamo al bar dietro al monumento piramidale, un buon caffè, un croissant, acqua fresca e siamo pronti per scendere a Lanslebourg.
COL DU TELEGRAPHE – COL DU GALIBIER: l’odio per il numero “34”
La discesa dal Moncenisio è lunga una decina di chilometri, scorrevole e veloce. Arrivati a Lanslebourg rivedo il bivio che due settimane prima mi ha portata all'Iseran, ripenso a quella fatica e a quanto sia stato emozionante arrivare in cima. Questa volta anziché girare a destra, giro a sinistra. Il tratto che ci attende è molto lungo e piatto, quasi tutto in leggera discesa. Cinquanta chilometri ci separano da Saint Michel de Maurienne, da dove inizierà la vera sfida della giornata.
Passiamo Termignon, Sollierès e proseguiamo verso Bramans. La strada è ampia e costeggia il fiume L'Arc, lo seguiamo veloci e teniamo i 38 chilometri orari di media senza faticare. E’ un vallone fluviale molto bello e rilassante, siamo così piccolini in mezzo alle sponde verde pino delle montagne. In alcuni tratti è in ombra e si sta al fresco, in altri il sole batte in testa come un martello pneumatico. La mia attenzione è attirata da un forte bellissimo incastonato su di un promontorio, il forte di Marie-Thérèse, verrebbe voglia di svoltare e fermarsi a visitarlo, ma non oggi. Oggi l'obiettivo è un altro.
Attraversiamo Modane e capisco che ormai manca poco, infatti non ci restano che una quindicina di chilometri di riposo prima della salita tanto attesa e anche un po’ temuta. Superato il centro di Saint Michel troviamo il controllo-ristoro, ne approfittiamo per rifocillarci un po’, ma fa veramente caldo. Come avevo immaginato ci ritroviamo a pedalare la parte più impegnativa durante le ore più calde e atroci della giornata, quello che io, personalmente, cerco sempre di evitare nelle mie uscite in solitaria.
Il cartello che mi si para davanti fornisce essenzialmente due indicazioni: Col du Télégraphe, 12 km e Col du Galibier 34 km. Accidenti, trentaquattro chilometri di salita?! Dio mio, quanto può far male un numero. Decido di focalizzarmi sul numero dodici, che per iniziare è decisamente più rincuorante. Quando hai di fronte a te così tanta strada devi concentrarti su tappe immaginarie intermedie, altrimenti rischi di andare fuori di testa.
La salita al Col du Télégraphe è costante e piacevole, in mezzo alle pinete saliamo ininterrottamente intorno al 6-8 %. Dodici chilometri non sono pochi e richiedono tempo, raggiungiamo il primo colle intorno alle 14.00, ci impieghiamo un'ora abbondante. C'è molto movimento, il bar è colmo di gente e c'è la fila per fare una foto sotto allo sciatore di paglia gigante, ci dissetiamo e rinfreschiamo alla fontanella e ripartiamo. Sappiamo tutti e tre che quello era solo un primo assaggio di ciò che ci attende: diciotto chilometri ci separano dal Galibier, di cui buona parte con pendenze interessanti, dal 9% in su.
Prima di risalire abbiamo un breve tratto di discesa fino a Valloire, piccolo centro cittadino dalle caratteristiche abitazioni montane. Adoro i paesini di montagna, sono curati, sono valorizzati, ordinati e puliti, colorati dai fiori e dalle piante di lavanda. Si percepisce il rispetto, per il prossimo, per la natura, per i visitatori, per chi mostra a sua volta altrettanto rispetto. E’ bello, è affascinante, è puro. Ogni rotatoria è abbellita da statue di legno meravigliose, prima di una mucca, poi di un'alce, poi di uno stambecco. Poco prima di uscire dall'ultima piccola frazione di Valloire, sulla sinistra troviamo un'esposizione di statue di paglia raffiguranti i soggetti più disparati: strumenti musicali, titani, coppie di innamorati, volti di profilo. Sono allegre, sono goliardiche, sono opere d'arte. La gente è lì per ammirarle, originali ed uniche nel loro genere.
Abbiamo percorso 105 chilometri e la strada ricomincia a salire, prima qualche ampio tornante, poi si trasforma e diventa lineare, con qualche morbida curva. Qui le montagne sono sabbiose, le pietraie sradicano la vegetazione e non lasciano posto ad altro che a cascate di ghiaia, che svaniscono nel fiume. Non riesco a distogliere lo sguardo dalle cime imponenti intorno a me, ogni volta ne resto ipnotizzata. Salgo piano, ma mi godo ogni centimetro. Facciamo una piccola sosta in un bar prima degli ultimi otto chilometri, vediamo che la strada si inerpica aggressiva e, forse, è meglio raccogliere un po’ di energie.
L'ascesa è fantastica, faticosa, sfiancante, sfibrante, pesante e ubriacante, ma l'ho amata interamente, fin dalla prima curva, dalla prima rampa, dal primo drittone infinito. E’ tutto troppo bello intorno a me, tanto che ho come l'impressione che la fatica fatta per esser giunti fino a lì sia una moneta di scambio più che ragionevole. Le cose belle vanno conquistate con tanti sforzi, sacrifici e sudore e la soddisfazione finale sarà direttamente proporzionale alle forze impiegate per raggiungere l'obiettivo. Il panorama è favoloso e io ho fame di paesaggi fantastici, mi guardo attorno con bramosia, voglio raccogliere ogni dettaglio, ogni sfumatura.
Gli ultimi tornanti sono secchi e mi bruciano i muscoli, le gambe, la schiena, le braccia. Mi alzo in piedi, voglio arrivare, inizio a tirare più forte. L’ultimo chilometro sopra la galleria è veramente “cattivo”, ma ormai ci siamo, il colle lo vedo là, straripante di gente.
Svalico. Respiro. Mi fermo. Guardo dietro di me, studio la strada che ho fatto, ogni curva, tornante dopo tornante. Siamo partiti da un punto lontanissimo e siamo arrivati fino lì. Da piccoli siamo diventati grandi e, adesso, catturiamo l’orizzonte con un solo sguardo. E’ difficile dire come ti senti quando arrivi così in alto, quando hai la sensazione di poter fare qualunque cosa, ti dimentichi persino di essere stanco, di aver male alle gambe, di sentir bruciare la pelle. Brucia tutto, ma è più un fuoco dentro l’anima, ti infiamma e ti scalda, ti pervade d’euforia. Il senso di onnipotenza che ti regala una scalata in montagna è qualcosa di unico, di inimitabile e non è mai uguale, è sempre diverso, ma ogni volta è indescrivibile.
E’ quello il mio posto, la mia casa, la mia essenza. Sono selvatica, indomabile, amo la solitudine, le cose semplici, sono imprevedibile e mutevole. La montagna è il mio ritratto silenzioso e voglio attingere da quella millenaria saggezza, in silenzio, ne ascolto i racconti senza parole, come un film muto di un’epoca diversa, dove ancora si riuscivano a cogliere significati intrinseci e valori tra le righe. Vorrei restare lì ancora un po’, scendere al tramonto e vedere le valli assopirsi e precipitare lentamente nell’ombra, ma dobbiamo scendere, è come risvegliarsi da un sogno bellissimo, vorremmo riaddormentarci e sognare ancora un po’.
Scendiamo veloci, quaranta chilometri ci separano dal resto della truppa. Passiamo il Col du Lautaret e ci buttiamo a capofitto in quella che pare una discesa senza fine. A Roberto cade la catena, dobbiamo fermarci per capire cosa sia successo; si è annodata in modo anomalo alla pedivella, ma per fortuna niente di grave, con un po’ di calma la risistemiamo. Nel giro di un’ora arriviamo in città e troviamo Christian e Sabrina ad aspettarci seduti su di una panchina. Mangiamo qualcosa prima di affrontare la colletta di Monginevro e ripartiamo tutti e cinque insieme. Hanno lasciato la macchina ad Oulx, pedaliamo insieme fino a lì e poi loro ci raggiungeranno all’arrivo in auto.
Quegli ultimi chilometri di salita sono quasi un calvario per me, il sole mi ha cotta a puntino e, a quanto pare, anche le mie gambe non hanno più voglia di spingere. L’avevo trovata noiosa già due settimane prima, oggi lo è ancora di più. Da Monginevro comincia un’altra discesa lunghissima e mi rilasso, lascio andare la bici, lascio fare a lei, la correggo solo quando necessario. E’ bello, è liberatorio, è fantastico.
Proseguiamo per Gravere, passando da Salbertrand, dove ci attende ancora un piccolo strappo di cinquecento metri, nulla di che, ma speravo di non dover più scalare su rapporti agili. Costeggiamo la Dora Riparia e ci gustiamo il forte di Exilles, arrivati a Chiomonte deviamo per Gravere ed è fatta. L’arrivo è un po’ bastardo, c’è ancora un chilometro di salita a pendenze snervanti dopo una giornata così, ma poco importa, la sfida è vinta ancora una volta.
Terminiamo il percorso che sono le 21.15, ci abbiamo impiegato esattamente quattordici ore, considerando due ore di pausa tra una sosta e l’altra. Non mi sono portata la frontale e ho capito che è stata un’imprudenza: ancora una mezzora e mi sarei ritrovata al buio. L’esperienza insegna, non partirò più senza luci. Non credevo ci avremmo messo tutto questo tempo, ma del resto ce la siamo goduta fino in fondo ed è così che si vivono le randonnée.
Ci sediamo a tavola e ci mangiamo un bel piatto di pasta tutti insieme. Ridiamo, scherziamo, pare di essere in famiglia. Lì in mezzo al bosco valsusino, si chiude un’altra avventura, un altro obiettivo raggiunto. Mi siedo in macchina, non vedo l’ora di arrivare a casa e farmi una doccia, bere qualcosa di caldo, coricarmi nel letto, chiudere gli occhi e sognare ancora un po’ quei monti e quei paesaggi, quelle valli e quei fiumi, tutta quella vita intorno a me.
PINEROLO – COLLE DELL’AGNELLO
Sera. Notte. Sono le 21.30, il ritrovo è intorno alle 22.00 a Pinerolo nel parcheggio della stazione. Questa volta sono in compagnia di tre ragazzi, tre amici conosciuti in sella, tra una randonnée e l’altra. Fabio arriva da Torino in treno ed è già lì quando arrivo, Claudio arriva da Saluzzo e ci raggiungerà poco dopo, mentre Emanuele è un mio compaesano che, intrepido, sceglie di venire in bici fino a lì.
C’è chi ha già sonno e dobbiamo ancora partire, c’è chi guarda preoccupato i nuvoloni neri e minacciosi sopra le nostre teste, c’è chi (io) freme dalla voglia di partire per un’altra avventura.
Le previsioni meteo sono catastrofiche: rischio idrologico su tutto l’arco alpino, con possibili episodi di grandine, raffiche di vento e piogge torrenziali. Bene. E noi abbiamo deciso di fare 250 chilometri di soli passi montani. Temporali e nubifragi mi hanno resa irrequieta per tutto il giorno. Dalla finestra di casa osservavo le montagne nella direzione in cui sarei dovuta andare io, come se potessi capire che tempo e che clima ci potesse essere da quelle parti. Le cinquanta sfumature di grigio non promettono nulla di buono.
Dalla regia mi comunicano che a Chianale c’è appena stata una bella grandinata. Claudio arrivando da Saluzzo ci dice che a dieci minuti da Pinerolo diluvia. Ottimo, sempre meglio. Ma noi non ci tiriamo indietro. Alle 22.15 è tutto pronto e partiamo.
Pinerolo al sabato sera è caotica, dobbiamo districarci tra il traffico e i giovani in vena di fare festa, ma nel giro di una decina di minuti usciamo da quella baraonda. Il primo tratto del percorso sappiamo tutti sarà decisamente noioso, le cose inizieranno a farsi interessanti da Chianale, dove comincia l’ascesa al Colle dell’Agnello, l’obiettivo della nottata.
Tutto sommato 95 chilometri di falsopiano. Claudio fa strada, ci dirigiamo verso Bricherasio, attraversiamo il ponte di Bibiana e puntiamo Cavour. Si pedala bene, il traffico è accettabile, le strade un po’ meno, ma filiamo via veloci. Da Cavour tagliamo fuori Barge e arriviamo a Revello, attraversiamo il Po e raggiungiamo Saluzzo, dove decidiamo di prendere un bel caffettino in pieno centro. Adoro Saluzzo, è una bellissima cittadina “viva”, il centro storico nel fine settimana brulica di gente, ti fa proprio venire voglia di farti una passeggiata digestiva dopo cena o anche solamente sederti su una panchina a chiacchierare alla luce dei lampioni.
Le strade sono bagnate, segno che ha smesso di piovere da poco. Ripartiamo e proseguiamo verso Manta, poi Piasco, poco dopo arriviamo a Venasca e, così, via dicendo a Brossasco, Melle, fino a Sampeyre. Da qui iniziamo un lungo tratto di strada provinciale in mezzo a boschi disordinati e caotici di betulle e faggi, disseminati su di un letto di erba alta e sterpaglie. Deve aver piovuto parecchio a giudicare dallo scroscio fragoroso delle acque del Varaita e dalle pozzanghere insidiose che si sono formate per via delle buche nell’asfalto.
C’è silenzio, c’è pace. Emanuele e Fabio hanno un altro passo, io e Claudio saliamo tranquilli, ma capisco che c’è qualcosa che non va, non si sente tanto bene, lo noto soprattutto nei primi tornanti di una simpatica frazione denominata Caldane. Arriviamo a Casteldelfino intorno l’una e ci fermiamo sotto il campanile a fare scorta d’acqua e a vestirci: il clima è decisamente fresco e, appena ti fermi, i brividi si scatenano lungo la schiena. L’umidità è impressionante. I boschi caotici di betulle e faggi lasciano il posto a pinete fitte e ordinate.
Poco più avanti inizio a scorgere il laghetto artificiale di Ponte Chianale e intuisco che la pacchia sta per finire, da qui ci aspettano quindici chilometri intensi, specie gli ultimi otto, con pendenze medie del 12-13% e strappi al 15. Purtroppo più la salita si fa impegnativa, più Claudio accusa un forte mal di stomaco. Non va, decide che è meglio tornare indietro. Perdiamo un po’ di tempo per prendere una decisione sul da farsi. Mi spiace davvero per lui, so cosa significa non sentirsi bene e doversi fermare, ancor di più so come ti senti quando gli altri non vogliono lasciarti da solo e si vincolano a te. Ti fa sentire ancora peggio.
Fabio decide di accompagnarlo giù, non lo facciamo andare da solo di notte e propone che io ed Emanuele proseguiamo il giro. Un dibattito, idee e sentimenti contrastanti. Dico che ho intenzione di proseguire, anche da sola se necessario, ma arrivati sin qui sarebbe un peccato abdicare al giro. Emanuele è titubante, Fabio imperscrutabile. Claudio continua ad insistere dicendoci di andare, di non preoccuparsi. E’ veramente nobile da parte sua. Probabilmente più nobile di quanto decido di fare io. Alla fine anche Emanuele decide di scendere e tornare indietro. Scelte. Saluto e resto sola, ma del resto si rimane soli sempre, prima o poi e io viaggio sempre da sola, giorno o notte che sia.
Proseguo col magone. Sono le quattro, mi rassicura il fatto che tra poco più di un’ora finalmente farà giorno. Ripenso e rimugino sull’accaduto. Forse non ho fatto la mossa migliore, ma alla fine siamo autonomi. Ciò che conta è che chi è in difficoltà non resti solo.
Mi sento in forma, le gambe girano bene e anche nei tratti più aspri salgo in scioltezza. Nell’oscurità vedo solo gli occhi gialli, abbagliati dalla mia frontale, delle mucche che riposano nei pascoli lungo la strada. Inutile sottolineare il fatto che non ci sia anima viva.
La temperatura scende mano a mano che salgo, il freddo si fa sempre più pungente. Il cielo schiarisce e i contorni delle montagne appaiono sempre più nitidi, comincio a vedere le catene montuose dietro di me. Che meraviglia. Quando è ormai quasi giorno, la mia attenzione viene attirata dal rumore di piccole pietre rotolanti. Sposto lo sguardo verso l’alto e vedo un gruppetto di stambecchi che guardano incuriositi e, forse, un po’ spaventati nella mia direzione. Mi domando come riescano a stare in equilibrio su pareti rocciose tanto ripide, quasi verticali. Sono uno spettacolo, silenzioso ed elegante. Mi fermo ad osservarli per qualche istante e provo a scattargli una foto.
Arrivo in vetta al Colle dell’Agnello che sono le sei del mattino. E’ bellissimo da lassù, dall’alto dei suoi 2750 metri posso ammirare le montagne imponenti e maestose tutto intorno, adornate di piccole nuvole rosa-arancio, pennellate sfumate di una nuova alba. Termina la Val Varaita e posso ammirare la Valle del Queyras, che si disperde a vista d’occhio fino a scontrarsi con altre montagne.
Il Garmin segna che ci sono due gradi. Immaginavo avrebbe fatto piuttosto freddo in cima, quindi mi vesto pesante per prepararmi alla discesa, indosso tutto quello che ho. Non basta, inizio a scendere e attacco a tremare come una foglia. La discesa è lunga, ma morbida, un po’ nervosa solo in alcuni tornanti.
Tremo talmente forte che traballa il manubrio, non riesco a tenerlo fermo, è più forte di me. Che freddo. Non ricordo l’ultima volta che ho sofferto il freddo in quel modo, mi sono letteralmente congelata.
Decido di rallentare per diminuire il flusso d’aria gelida. Non mi sento più mani e piedi, comincio a tamburellare con le dita sulle leve per riattivare la circolazione, serve a poco. Provo a muovere le dita dei piedi nelle scarpe, ma le sento a malapena. E’ una sofferenza, spero finisca presto. Normalmente le discese uno spera non finiscano mai, ma non in quelle condizioni. Nella mia testa spero presto di poter ricominciare a spingere sui pedali, esclusivamente per riscaldarmi!
La risalita inizierà solamente dopo aver superato Chateau Queyras, piccolo agglomerato di case il cui castello troneggia su un promontorio roccioso. L’effetto è suggestivo.
Finalmente comincio a stare un po’ meglio. Un falsopiano mi porta verso Arvieux. Il primo colle è fatto, mi mangio il primo panino, mi godo il sole nascere e mi riscaldo un po’. L’Izoard è lì di fronte, ad attendermi, baciato dal primo sole.
COLLE DELL’AGNELLO - COL D’IZOARD
Ho percorso 135 chilometri, sono quasi le 7.30 del mattino e la temperatura inizia ad essere più ragionevole, tuttavia il Garmin rileva appena otto gradi. Sfilo i manicotti e tolgo l’antivento, non fa per niente caldo ma voglio evitare di arrivare in cima all’Izoard sudata e umidiccia.
Il primo tratto è tranquillo, le pendenze sono dolci, salgo e scendo godendomi lo scenario: sono in un canalone d’origine fluviale, pizzicata tra due pareti montane ricoperte di pini; i prati sono verdissimi e curati, la chiesa di Saint-Laurent all’ingresso di Arvieux è la protagonista di un quadro quasi dolomitico, ricorda molto la chiesetta di Colfosco. Ci sono quattordici chilometri di salita per arrivare in vetta, la pendenza resta costante intorno all’8-9%, ma l’ascesa mi rilassa a tal punto che quando arrivo all’ultimo tornante quasi mi dispiace.
Non è né eccessivamente aggressiva, né lunga e noiosa, ti dà il tempo di rifiatare tra uno strappo e l’altro e goderti il panorama mozzafiato sulla valle.
Le casette di legno sono decorate da sagome di biciclette, ce n’è dappertutto, di tutte le forme e colori. Dev’essere passato da poco il Tour de France, l’asfalto è costellato da scritte e frasi colorate e mi distraggo leggendole tutte mentre salgo. Mi impressiona la quantità di scritte tricolore per Fabio Aru, i suoi tifosi han dato libero sfogo alla loro vena artistica.
In una curva panoramica approfitto della presenza di un tavolo e delle panche per sedermi dieci minuti a rifiatare e assaporare fino all’ultimo dettaglio di un poster in scala reale; come vorrei poter stare lì, immobile a pensare, nel silenzio urlante dei miei pensieri. Chiudo gli occhi e sospiro, mi nutro di quel momento di libertà. Mi sento molto “zen” e vago nella mia introspezione. Andare in bici non è soltanto pedalare, è anche questo e, quando mi trovo da sola, lontana da tutto e tutti, ne passo veramente tanti di momenti così. E’ meglio di qualsiasi “chiacchiera”, di tutte le parole, di qualsiasi voce umana.
In quel silenzio ti accorgi di poter cogliere suoni e rumori che altrimenti non sentiresti. E’ meraviglioso ciò che la montagna può regalarti e, sebbene in quel dipinto non sono che un piccolissimo puntino insignificante, non mi sento persa, non mi sento sola, mi sento esattamente così come dovrei sentirmi sempre: libera di essere, lì esattamente nel posto giusto al momento giusto.
Abbandono il mio eden e riprendo a salire, non manca molto e ho voglia di vedere cosa troverò in cima. Raggiungo il secondo colle intorno alle 09.30. C’è un banco enorme di caramelle, cerco di distogliere lo sguardo, onde evitare che la mia golosità prenda il sopravvento e faccia una razzia. Altri ciclisti arrivano dal lato opposto, la salita da Briançon è meno dura a giudicare dal cartello che mette a confronto le due varianti. Si sta bene, il sole è caldo nonostante ci siano pochi gradi e decido di mangiare lì il secondo panino, seduta di fronte al pilone celebrativo dell’Izoard. E’ stata davvero una bellissima salita.
COL D’IZOARD – MONGINEVRO - SESTRIERE - PINEROLO
La discesa dall’Izoard è tanto bella quanto la salita appena affrontata, con l’unica differenza che raggiungo i settanta orari al contrario dei sette di media e che mi diverto un casino senza faticare.
La strada scende armoniosa, le curve sono dolci, ti cullano fino in fondo alla valle e ti permettono di osservare un altro stupendo versante montano. La bici va da sola, non devo far altro che assecondare le sue lievi inclinazioni. Venti chilometri di estasi, l’altra faccia degli stupefacenti. Il freddo non morde più come sull’Agnello, complice anche un sole sicuramente più forte e deciso.
Arrivo a Briançon e inizio a girovagare per il paese senza una logica ben precisa, la traccia è confusa e mi regala uno strappo cittadino al 13% che non avevo previsto. E dire che l’ho fatta io. Dettagli.
Ho l’impressione di girare su me stessa, ma mi fido del gps. Mi guardo intorno alla disperata ricerca di un po’ d’acqua, ma ovviamente quando cerchi una fontanella non ne trovi una nel raggio di dieci chilometri. Si sente che sono scesa di quota, il clima in città è torrido e soffocante quasi quanto il traffico, i gas di scarico infestano l’aria e bruciano la gola. Trovo dei giardinetti, mi addentro, mi godo un po’ d’ombra e trovo finalmente una fonte idrica, faccio rifornimento velocemente e riparto, sono quasi le 10.30 è ora di rimettersi in marcia e puntare Monginevro.
Il morale è alto, sono soddisfatta del viaggio fatto sino a qui e so che ormai la parte più dura è andata, non restano che due salite di circa dieci-quindici chilometri ciascuna, dopo di che la strada è tutta a scendere.
La via che porta a Monginevro è molto trafficata e tortuosa, la pendenza non è mai aggressiva, ma la trovo poco coinvolgente e mi annoio. Cerco di distrarmi osservando il panorama: Briançon pare un ricordo lontanissimo tant’è distante, pare microscopica laggiù in fondo alla valle.
Non ci impiego molto a salire, la fatica comincia a farsi sentire, ma soffro per di più la strada, il caldo, la noia. Questa volta non ho con me l’mp3 e non posso ripiegare sulla musica per intrattenermi.
Poco dopo inizio a scorgere i primi impianti sciistici, capisco che sono arrivata. E’ sempre stato un posto caro al mio cuore: su quelle piste ho imparato a sciare, ad andare sullo snowboard, ho passato delle belle giornate sulla neve con i miei amici. D’estate stento a riconoscerlo, ma è ugualmente affascinante.
Attraverso le vie del paese, il passaggio in galleria è vietato a ciclisti e pedoni, quindi faccio la passerella in mezzo ai negozi e ai passanti. E’ coinvolgente.
Saluto la mia infanzia e i miei ricordi e inizio a scendere. Ho pedalato per 180 chilometri, ne restano una settantina per tornare a Pinerolo. Mi fermo a Claviére cinque minuti per mangiare il terzo panino per il terzo colle e poi punto Cesana. Dopo dodici ore in sella finalmente percepisco il profumo dei luoghi familiari e delle montagne di casa. Non mi resta che affrontare il Colle del Sestriere, l’ultima fatica di giornata.
Scendo da Monginevro gasatissima. La strada è larga e mi permette di buttarmi a capofitto nei suoi immensi tornanti. Neanche me ne accorgo e già sto risalendo. Fabio ci aveva informati del fatto che oggi ci sarebbe stata la Gran Fondo del Sestriere e che ci sarebbero potuti essere dei blocchi lungo la strada.
Infatti, ben oltre la prima parte di salita inizio ad incontrare squadre di AIB, Protezione Civile, Polizia e addetti alla corsa.
Accidenti, è mezzogiorno, sono perfettamente in linea con i tempi, mi devono bloccare proprio ora?
Spero di no, spero di poter passare comunque. Mentre percorro la strada del Sestriere mi superano vari scooter della scorta tecnica, ma nessuno mi dice nulla e proseguo. Era una vita che non percorrevo quella strada, ovviamente era la prima volta che la facevo in bici. Non ricordavo come fosse, pensavo fosse più impegnativa. L’affronto rilassata. Dopo l’Agnello e l’Izoard, oggi nulla mi impensierisce. E’ solo il caldo e un po’ la stanchezza dell’ennesima notte insonne a darmi un pugno sul naso gli ultimi tre chilometri, quelli più tosti.
Mi supera l’auto dell’inizio gara ciclistica. Penso che da un momento all’altro mi raggiungeranno i primi della corsa. Che ansia. Faccio finta di nulla e vado avanti. Sento qualcuno dell’organizzazione dire che sono già tre chilometri più sotto. Bene, per quanto siano veloci, io sono più avanti, non verrò colta da una massa impazzita di granfondisti posseduti dal demonio. Arrivano alla spicciolata, mi viene chiesto di tenermi a sinistra e così faccio. Cerco di passare inosservata. Nonostante la bici carica di borse, alcuni spettatori pensano stia gareggiando e mi urlano frasi di incitamento. Sorrido divertita per il “misunderstanding” e proseguo, ormai sono arrivata.
Sestriere brulica di gente. Voglio fuggire da quel caos. Vedo che la strada per scendere verso Pinerolo è bloccata, le auto non possono scendere, i ciclisti stanno salendo, sono tantissimi. Perdo tempo a districarmi tra corridori, pubblico e marciapiedi insidiosi.
Mi fermo vicino ad una pattuglia e chiedo se si può scendere verso Pinerolo. Fortunatamente mi comunicano che le bici possono passare, mi suggeriscono solamente di tenermi bene sulla destra e di fare attenzione alle auto e ai ciclisti che salgono. Ringrazio e mi lancio giù per gli ultimi 50 chilometri di falsopiano e discesa che mi separano da Pinerolo. L’ultimo panino lo mangio scendendo, non ho più voglia di fermarmi e perdere altro tempo. Nuvoloni minacciosi iniziano a spargersi nel cielo e scende qualche goccia, devo aumentare il passo. Finalmente penso che posso riposarmi un po’ e andare avanti per inerzia, ma invece si alza un vento maledetto che mi sposta pericolosamente con le sue raffiche improvvise.
Mi rannicchio sulla bici, la testa bassa nascosta dietro al borsello, pinzo il telaio con le ginocchia e tengo i piedi paralleli. Mi sembra la stessa posizione della discesa nello sci, “a uovo” la chiamano. Lo scopo è quello di essere il più aerodinamico possibile e, tutto sommato, la differenza la noto; appena mi abbasso prendo velocità senza il minimo sforzo. E’ bellissimo. E’ divertente. E’ adrenalinico. Scendo ai 45 di media, dando qualche pedalata ogni tanto quando la strada spiana. Tengo il manubrio stretto tra le mani, il vento mi frena di tanto in tanto, ma riesco a “tagliarlo” di prepotenza. Non voglio prendere pioggia almeno oggi. Devo scendere e in fretta. Sestriere. Borgata. Pragelato. Soucheres Basses. Fraisse. Pourrieres. Fenestrelle. Depot. Mentoulles. Villaretto. Roure. E poi il cartello di Perosa Argentina. E’ evidente che ormai manca poco e sto scendendo veloce senza accorgermene. Pinasca, Villar Perosa, San Germano Chisone, Porte. Entro ad Abbadia Alpina, attraverso il centro di Pinerolo e raggiungo la stazione dove trovo la mia macchina ad aspettarmi. Mi libero di ogni fardello, casco, guanti, occhiali, borselli, scarpe. Corico la bici in macchina e mi metto immediatamente sulla strada di ritorno. Ho bisogno di una doccia e di dormire. Ho bisogno di metabolizzare un altro grande traguardo raggiunto, ma non adesso, non lì, non in quel momento.
La digestione è lenta, va assecondata, non va forzata. Adesso la mente è un caleidoscopio di immagini e sensazioni, devo riordinare le idee e riprendermi un po’.
E’ stato un altro fantastico viaggio, sebbene non dovesse andare proprio così. Ho terminato il giro da sola e non avrei voluto, ma neanche volevo tornare indietro. Le mie gambe reclamano salite, la mia mente chiede di essere messa sotto torchio nelle lunghe distanze, in previsione di qualcosa di ben più grande, di un capitolo che sarà tutta un’altra storia, un’avventura che spero di potervi raccontare tra un paio di mesi.
Tutto questo non è che la rincorsa prima del grande salto e spero di riuscire, ancora una volta, a spiccare il volo. Verso l’infinito….e oltre!
SUSA - MONCENISIO
Finalmente lontano da tutto e da tutti. Finalmente ci sono solo io, la mia bici, un lieve cono di luce, il bosco e la notte. Da lì fino alla statale del Moncenisio, alle prime luci dell’alba, non incontrerò anima viva.
Da Susa al Moncenisio sono una quarantina di chilometri, praticamente sempre in salita.
La notte è fresca e umida, il clima è perfetto. Questa volta non c’è neanche la luna a farmi compagnia, ma un cielo nerissimo, limpido e stellato. Bellissimo.
Salgo da Novalesa, ne approfitto per fare scorta d’acqua e inizio la serie di tornanti e tornantelli che mi attendono. Non vedo niente, solo gli alberi intorno a me che sembrano stringersi sempre di più.
Una coppia di tassi cicciottelli mi attraversa la strada all’improvviso e per poco non cado. Che spavento, però erano carini, sebbene non così amichevoli, il verso che mi hanno fatto non penso potesse equivalere ad un “Ciao! Ma che bello incontrarti!”.
La strada si inerpica a zig zag sempre di più, in alcuni tratti il Garmin mi segnala pendenze dall’11 fino al 15%. Una goduria. Sono queste le salite che piacciono a me, quelle che ti fanno saltare in piedi sulla sella, tirare e spingere a denti stretti, e guadagni quota in pochissimi metri. In tutto sono 5 o 6 chilometri così, con pendenze minime dell’8-9%, poi arrivata al Comune di Moncenisio, comincia una divertente discesa in mezzo al bosco di altri 5 o 6 chilometri, che mi trasporterà sulla Statale.
Sono le cinque del mattino passate, le montagne iniziano a farsi visibili e da ombre nere e imponenti, si tingono di verde, di grigio e di bianco. Lo vedo là, massiccio e silenzioso, il “mio” Rocciamelone.
Quante volte ho accarezzato la sua vetta, quante volte ancora vorrei potermi godere lo spettacolo da lassù. Il sole irrora timidamente i suoi contorni di una debole luce quasi aurea. E’ meraviglioso.
Giungo sulla statale, ormai è chiaro, inizio a vedere il mondo intorno a me. La strada tiene una pendenza costante del 7-8% fino alla vecchia dogana. L’asfalto è perfetto e si sale su bene. Incrocerò sì e no tre o quattro macchine, ma di fondo ci sono soltanto io.
Il pezzo di strada sotto la diga è leggermente più impegnativo, nel giro di sei o sette tornanti lunghi ed ampi mi trovo praticamente a bordo lago. Il panorama merita un secondo per rifiatare e godere di quello spettacolo: le montagne intorno si riflettono nell’acqua, duplicando il loro splendore.
La strada costeggia tutto il Lago del Moncenisio, sentieri sterrati ci girano attorno, penso che un giorno o l’altro ci tornerò in Mountain Bike, per scoprire nuovi orizzonti e allenarmi a fatiche diverse.
Il Colle, ufficialmente, è appena superato questo tratto, quando si inizia a cambiare versante, siamo a quota 2081 m e sono quasi le otto del mattino, l’aria è fresca, mi devo vestire, il clima di montagna inizia a farsi sentire. Da qui inizio a scendere e mi dirigo verso Lanslevillard, dove inizierò la terza tappa del mio tour montano, verso il Col de L’Iseran.
MONCENISIO - COL DE L'ISERAN
Lanslevillard. Un bellissimo centro abitato molto caratteristico: case di legno e pietra una vicina all’altra, che sembra quasi un presepe. Da qui comincio, con molta calma, a dirigermi verso la seconda fatica di giornata e, sicuramente, la più impegnativa.
Appena sopra Lanslevillard decido di fermarmi a mangiare un panino, una piccola pausa prima di iniziare l’ascesa, mi sembra un ottimo modo anche per godermi il panorama fiabesco che ho tutto intorno.
Riparto, c’è talmente tanta calma e non c’è anima viva che decido di ascoltarmi un po’ di musica. Non amo isolarmi completamente dal mondo e non sentire cosa mi succede intorno mentre vado in bici, ma non c’è davvero nessuno! Grossi pericoli non ne dovrei correre, basta continuare per la mia strada tenendomi a destra e andrà tutto bene. Mi sparo nelle orecchie qualcosa di commerciale, giusto per darmi una sveglia e un po’ di ritmo alla pedalata. Ho l’impressione di fare una seduta di spinning all’aperto. Fichissimo.
La strada prosegue verso Bessans in leggero falso piano, giusto per riavviare un po’ i motori. Da Lanslevillard ci sono una ventina di chilometri piuttosto monotoni, fino ad arrivare a Bonneval sur-Arc, dove inizia effettivamente la salita al Col de l’Iseran: dodici chilometri circa di ascesa costante con pendenze medie sempre dal 7 al 9% con strappi all’11 e al 12 e spiani al 3 e 4%. E’ segnalato ogni singolo chilometro e viene indicata anche la pendenza media e l’altitudine relativa a quel punto, in modo da avere un’idea di quanto dislivello manca ancora alla vetta.
Inizio a salire e guardo verso il basso: Bonneval sur-Arc è meraviglioso, un altro esempio di case di pietra una attaccata all’altra, ma decisamente più rustico, più montano. Curatissimo in ogni dettaglio, i francesi ci sanno fare con le loro fioriere e le fontane nei tronchi d’albero, nulla viene lasciato al caso.
I primi tre chilometri salgono decisi, sempre intorno al 9 e al 10%, poi segue un chilometro di tregua che spiana e scollino in una valle incantata; le montagne qui sono un po’ diverse, sono verdissime e paiono di velluto, verrebbe voglia di accarezzarle, sembrano ricoperte di muschio.
Non lasciamoci incantare dalla bellezza, perché la salita si fa sempre più dura. Incontro altri ciclisti, tutti francesi, salgono a ritmi decisamente più elevati, ma al di là di questo io ho già un centinaio di chilometri nelle gambe e ancora due Colli da scalare, meglio centellinare le energie e far poco la “sborona”.
Gli Eiffel 65 e poi i Sum 41 mi accompagnano nella scalata e tutto sommato mi aiutano a distrarmi dalla strada, il tempo sembra passare più veloce.
La mente vaga, persa in tutto e niente.
Il traffico si fa più intenso tra motociclisti, auto e camper, è il caso di salire facendo molta attenzione, anche se qui i cafoni sono decisamente meno che da noi e, anche se per sbaglio ti beccano un po’ in centro strada, non ti suonano, attendono semplicemente che ti sposti, ti lasciano il tempo, quasi come a non voler rovinare l’atmosfera magica di un luogo così incantato.
C’è ancora la neve in alcuni punti e quei “muraglioni” bianchi così vicini alla strada fan quasi rabbrividire, sia mai che si stacchino di colpo proprio mentre passi! Suggestione mentale dovuta alla fatica.
Avevo letto che gli ultimi due o tre chilometri erano quelli più duri. Confermo, qui le salite non scendono sotto il 10%, ma chissenefrega, ormai sono arrivata, sono carichissima.
Un tizio in uno degli ultimi tornanti mi fa delle foto mentre salgo, mi rincorre (manco andassi alla velocità della luce) e mi molla un bigliettino da visita. E’ una bella idea. Ci sono dei fotografi appostati qua e là che immortalano le tue fatiche e i tuoi sudori e poi, se vuoi rivederti in quelle pietose condizioni, puoi contattarli e acquistare le foto. Ironicamente, devo pure pagare per vedere quanto stavo soffrendo….?!?!
Andrò a cercarle online, sicuramente.
Ho iniziato a salire da Bonneval alle 08.40, arrivo in cima alle 10.30. Non so se è un buon tempo, ma poco importa, ci sono arrivata con le mie gambe e con i miei ritmi, non esistono primati e record nella mia testa.
Tra centauri e ciclisti l’Iseran brulica di gente, persone felici di essere lì, chi dopo una grande fatica, chi semplicemente per passare una domenica diversa. Tutti ridono e scherzano, fanno la fila per farsi fare la foto di fronte al cartello imponente del Colle, che ricorda i suoi 2770 metri di altezza.
L’aria che si respira è pura, fresca, carica di libertà e spensieratezza. Chiedo ad altri ciclisti piemontesi come me se gentilmente mi scattano una foto, li ringrazio e ricambio il favore.
Dieci minuti di tregua e mi godo lo scenario.
Un francese mi domanda senza chiedersi se fossi francese o meno, se capissi o meno la sua lingua, se non avevo freddo in maniche corte e mi suggerisce di vestirmi prima di scendere, “Qui’il fait froid!”. Gli sorrido, rispondo subito in italiano per fargli capire che non ero una compatriota e poi sfoggio il mio miglior francese. Mi vesto e riparto. E’ ora di scendere e puntare l’ultimo Colle: il Piccolo San Bernardo.
Quasi trenta chilometri di discesa ripagano una salita impegnativa come quella appena affrontata. Scendere è stato divertimento puro. Non amo la velocità, ho toccato i 68 orari, ma non era facile districarsi tra auto, moto, altri ciclisti che scendevano e salivano.
Sono le 10.30 del mattino circa e il traffico gradualmente si sta facendo sempre più intenso. Sono costretta a fermarmi un paio di volte: il panorama è uno spettacolo indescrivibile, scattare qualche foto è d’obbligo.
L’altezza ti dà un senso di potenza, ti carica, ti libera, ti riempie di energia, euforia ed esaltazione. Droga a costo zero.
Tra me e me penso: “Cavolo, sono riuscita ad arrivare fin quassù con le mie gambe…fino ad un paio di mesi fa non l’avrei fatto neanche sotto tortura, ora non vedo l’ora di rifarlo.”
Le stranezze della vita. La MIA stranezza!
A malincuore continuo a scendere di quota, arrivo in Val d’Isére. L’ultimo tratto di strada è un disastro di buche e avvallamenti, tant’è che ho temuto di essere sbalzata dalla bici un paio di volte. A certe velocità è un attimo perdere il controllo, decido che forse è meglio ridimensionarsi e andare più piano.
Proseguo e arrivo a La Reculaz, dove decido di fermarmi: inizio ad avere caldo e voglio togliermi l’antivento e, magari, mangiare un altro panino. Il paesaggio non è per niente male e ne approfitto. Mi affaccio sul lago e mi godo la mia libertà, la mia indipendenza, il mio pizzico di follia.
Sono le undici passate, sono in sella da circa otto ore filate. Addento il panino con avidità, ne ho preparati tre e ho deciso di mangiarli come “premio”, uno dopo ogni colle scalato.
Ad un tratto un ciclista si avvicina dal senso opposto e inizia a chiamarmi, salutarmi, mi sorride, come se ci conoscessimo. Lo guardo un po’ perplessa, perché subito non capisco cosa voglia da me.
Penso, “ma è qualcuno che conosco?”. No, non mi pare proprio. Poi, si toglie la giacchetta e mi fa vedere la maglia della Verona-Resia-Verona che ha indosso, identica a quella che porto io in quel momento.
Vedo la maglia e scoppio a ridere. Il mondo è piccolo, la fatalità è provvidenziale. Se fosse transitato di lì trenta secondi prima, avrei ancora avuto il giacchetto addosso e non avrebbe visto la maglia della VRV uguale alla sua, non mi avrebbe notata, non ci saremmo fermati a parlare e non avremmo goduto di quel piacevole momento di unione e fratellanza.
Ridiamo entrambi, gli propongo di farci subito una foto insieme, ma quando mai capita una coincidenza simile e per di più in “terra straniera”?! Troppo bello. Mi racconta che è di Verona, grande amico di Musseu Murari, che sta facendo la Trans Alpes, un bel viaggetto di cinque giorni sui passi alpini fino a Mentone.
Lo ammiro e un po’ lo invidio anche. Mi chiede cosa ci faccio lì, da sola. Gli spiego che sono partita alle due di notte da casa e sono salita al Moncenisio da Susa, che sono appena scesa dall’Iseran e che ora mi accingo a dirigermi verso il Piccolo San Bernardo, per poi raggiungere Aosta e rientrare in treno. Mi guarda a bocca aperta come se non fossi tanto normale. Oddio, nemmeno lui è molto sano di mente per fare un giro così da solo, quindi…si riprende dallo stupore e mi fa i suoi complimenti. Mi dà due dritte sulla salita che mi aspetta e ci salutiamo, chissà che non ci rincontreremo da qualche altra parte, un giorno, con la stessa maglia addosso…
Ancora divertita da quest’incontro puramente casuale proseguo il mio viaggio. Il pezzo di strada da La Reculaz fino a Sainte Foy-Terentaise è praticamente in lieve discesa e a tratti pianeggiante, una statale piuttosto movimentata e dal manto abbastanza accidentato.
C’è il sole ma inizia a piovere, e forte anche. Il tempo di fermarmi e attrezzarmi, pedalo qualche chilometro e smette. Maccchecccavolo. “Adoro” le tipiche nuvolette di montagna, arrivano, portano la pioggia, passano in un attimo e non piove più. Beffarde.
Poco prima di Sainte Foy-Terentaise esco fuori traccia e anziché tenere la destra per iniziare la salita al San Bernardo tiro dritto. Porca miseria. Mi monta il nervoso. Un amico mi aveva detto che salendo da lì era più dura, ma più corta. Invece, proseguendo, c’era modo di salire ugualmente, tant’è che le strade si sarebbero ricongiunte più o meno a metà e l’ascesa sarebbe stata più lunga, ma meno impegnativa.
Rassegnata opto per recuperare la traccia salendo da quella variante, non ho nessuna intenzione di tornare indietro. Arrivata a Séez, giro a destra e inizio a salire: un bel cartello mi segnala che da lì ad arrivare al Colle del Piccolo San Bernardo ci sono ancora 26 chilometri. Dio mio. Mi sento male. E’ la mezza, comincio ad accusare un po’ di stanchezza e al sole fa caldo, ma per fortuna è tutto sommato un caldo sopportabile.
Inizio a salire, ma non salgo mai veramente. La strada sale al 4-5%, monotona, costante, i tornanti sono lunghi due chilometri ciascuno e non c’è un filo d’ombra.
Odio le salite così, mi ammazzano psicologicamente. Paradossalmente, avrei barattato quei trenta chilometri al 5% con quindici al 10%; dopo 150 chilometri pedalati con oltre 3000 metri di dislivello positivo, non sono proprio come bere un bicchier d’acqua.
Fatico e non poco, le strade così mi stufano. Resto senz’acqua e inizio a preoccuparmi. Ho sete, ho caldo, ho bisogno di rinfrescarmi. Vedo un piccolo torrente e mi fermo, mi lavo la faccia, le gambe e le braccia, riempio la borraccia, ma so che non berrò mai quell’acqua, però almeno posso rovesciarmela addosso. Faccio bene, non troverò acqua potabile fino a La Rosière, quasi venti chilometri dopo, dove tra pochi giorni arriverà l’undicesima tappa del Tour de France.
E’ già tutto decorato per l’occasione, si respira già l’atmosfera del grande evento.
Vedo statue di cani San Bernardo e capisco che ormai manca poco alla vetta. Non sono allucinazioni, ci sono davvero!
Lo idolatrano come una divinità.
Nel giro di otto chilometri con vista mozzafiato concludo anche l’ultima fatica di giornata, anche il Piccolo San Bernardo è conquistato. Sono stanca e ho il polpaccio sinistro che non ne può più, credo di avere una contrattura e vedo le stelle ad ogni pedalata. Mi rivesto e scendo quasi subito, sono le 15.00 e devo raggiungere Aosta, che dista ancora una cinquantina di chilometri, e prendere il treno per tornare a Torino.