I Palmenti della Sardegna Centrale


Uno studio finalizzato alla costituzione di un repertorio tipologico-funzionale
dei cosiddetti palmenti, ovvero di quei manufatti impiegati
nella fase di schiacciamento delle uve per pressione.

di Cinzia Loi

In Sardegna le più antiche testimonianze della coltivazione della vite risalgono al Bronzo Medio tardo (XV-XIV sec. a.C. ) e sono costituite dal rinvenimento nel nuraghe Duos Nuraghes di Borore di vinaccioli carbonizzati in una fase di avanzata domesticazione. Altre attestazioni riferibili al Bronzo Recente-Finale (XIII-XII sec. a.C.) e all’età del Ferro (IX sec. a.C.) provengono da alcuni scavi di abitato (Sa Osa-Cabras, Adoni-Villanovatulo, Genna Maria-Villanovaforru).

Testimonianza indiretta del consumo di vino nella Sardegna protostorica sono, invece, le brocche askoidi, tipica  produzione vascolare sarda perdurata fino alla prima età del Ferro ed oltre, adottata anche nelle coste tirreniche presso le Culture Villanoviane ed Etrusca (IX –VII sec. a.C.).

Per quanto concerne il processo di vinificazione, strutture connesse con questa attività sono state individuate sia in alcuni insediamenti nuragici (Genna Maria-Villanovaforru, Monte Zara-Monastir) sia in contesti relativi alle successive età punica (Truncu ’e Molas-Terralba) e romana (Arrubiu-Orroli, S’Imbalconadu-Olbia). Altri impianti riferibili a quest’epoca sono segnalati nella Sardegna nord-occidentale.

Tuttavia, se da un lato le ricerche sull’archeologia della vite e del vino nell’isola si sono notevolmente sviluppate in questi ultimi anni, dall’altro rimangono aperti numerosi interrogativi legati non solo alle origini e alle modalità della domesticazione della vite, ma anche alle metodologie di produzione del vino.

È con la convinzione che le testimonianze archeologiche raccolte finora rappresentino soltanto una minima parte di un patrimonio connesso ad un’attività produttiva assai significativa, che circa un anno fa chi scrive ha intrapreso un lavoro di ricerca finalizzato alla costituzione di un repertorio tipologico-funzionale dei cosiddetti palmenti, ovvero di quei manufatti impiegati nella fase di schiacciamento delle uve per pressione.

I palmenti costituiscono un sistema produttivo molto importante da un punto di vista storico archeologico che oltre a rappresentare un indicatore microeconomico testimoniano contatti e scambi nel settore delle tecnologie agricole presso le società antiche. Considerati reperti meno nobili di altri, questi manufatti hanno goduto fino ad oggi in Sardegna di scarso interesse presso gli archeologi e i ricercatori in genere. Gli esemplari giunti fino a noi pongono pertanto notevoli difficoltà di interpretazione e di datazione. Fino agli anni ’50 del Novecento anche l’allevamento di viti su sostegni vivi (quali quercie, bagolari, lecci, frassini) era diffusissimo particolarmente lungo i corsi d’acqua e i confini di proprietà. All’interno di questo territorio, attraverso varie campagne di indagine etnografica e di ricerca sul campo, sono stati individuati numerosi palmenti chiamati qui lacos de catzigare (vasche per la pigiatura), alcuni dei quali utilizzati fino ad epoca recente. Il loro numero è di certo destinato a crescere con il prosieguo delle ricerche, anche se l’abbandono delle campagne e il conseguente venir meno degli stili di vita tradizionali, può aver causato in questi ultimi anni l’obliterazione e/o la distruzione di molti di essi. 

La tipologia più comune, scavata nella roccia affiorante, è costituita da un sistema di due vasche comunicanti attraverso un foro o un’apertura a canaletta. La vasca per la pigiatura, denominata sa pratzada, leggermente inclinata, di scarsa profondità e forma grossomodo semicircolare con dimensioni doppie o più rispetto alla seconda, risulta delimita - nella sua forma più antica - da una serie di ortostati di varia altezza. La vasca di raccolta, chiamata su lacu, profonda in media 40 cm, posta sempre ad un livello inferiore rispetto a sa pratzada, mostra varie planimetrie: rettangolare, subcircolare, ellittica, etc.. Sul piano pavimentale, costante è la presenza di una fossetta utile alla raccolta del liquido. Mancano totalmente fori o alloggiamenti nella roccia funzionali al fissaggio degli elementi del torchio; la tecnica di vinificazione si basava dunque, principalmente, sulla pigiatura con i piedi. 

Circa il loro utilizzo, dalla ricerca etnografica è emerso solo l’uso connesso alla viticoltura: le uve, - ammassate in sa pratzada - venivano sistemate man mano all’interno di sacchi di lino tessuti a maglie larghe (sas cuneddas) e poi schiacciate con i piedi da un pigiatore esperto (su catzigadore). Terminata questa operazione i sacchi subivano un’ulteriore azione di pressione mediante la cosiddetta perda ’e isbinare, un masso di pietra di forma grossomodo circolare dalla base appiattita. Alcune prazadas mostrano ancora una fossetta in cui, durante la vendemmia (sa innenna), veniva posto un acino (su pibione) per ogni cesto d’uva tagliata (sa cannada). In questo modo il proprietario della vigna (bintzateri) riusciva a prevedere il quantitativo di mosto che ne sarebbe derivato, così da predisporre per tempo il numero di otri (sas butzas) utili per il trasporto a dorso d’asino e quello delle botti (sas cubas) necessarie alla fermentazione. 

Altri elementi accessori potevano essere piccole vasche rettangolari connesse al sistema di pressione con le pietre e canalizzazioni per lo scolo delle acque piovane. Dalle vinacce poste a macerare con l’acqua si otteneva, invece, il piritzolu, una bevanda identica a quella che gli antichi romani chiamavano "Iora". Per quanto concerne la loro cronologia, lo studio del contesto archeologico in cui questi manufatti sono inseriti può fornirci, in assenza di dati di scavo e di indagini molecolari, utili indicazioni - se non sul periodo di escavazione - almeno su quello di utilizzo.