Un partito e un'idea per il centrosinistra

Un partito e un'idea per il centrosinistra

di GIORGIO RUFFOLO

(un pezzo attualissimo scritto nel dicembre 2001)

Certo che il centrosinistra, a capo del nuovo anno, sembra messo piuttosto male. È privo di un leader: come contraddire Berlusconi su questo punto? Sulla sua tolda, ci sono solo comandanti in seconda: troppi. È disorganizzato in una coalizione malferma: basta seguire il recitativo televisivo serale dei suoi molteplici portavoce per deprimersi. Fa l'opposizione, sì, ma ponendo resistenze e ostacoli alla maggioranza, non opponendogli un'alternativa di governo. Questo terzo aspetto è senz'altro il più decisivo e critico, per una forza politica che fa del riformismo la sua bandiera. Il fatto è che le «riforme» e le controriforme, le sta facendo la destra. Una destra che non manca certo di contraddizioni, ma che un progetto ce l'ha e lo sta realizzando. Le sue mosse le sta mettendo in campo. E queste si collegano implicitamente a una visione della società che può essere senz'altro sgradevole: mercatistica, privatistica, affaristica; ma che è a suo modo coerente e non certo priva di una base ampia di consenso. Dove si riconoscono le riforme del centrosinistra? Se per riforme intendiamo non i popperiani interventi a spizzico, ma cambiamenti istituzionali di fondo ispirati a un progetto di società, di riforme di questo genere i governi di centrosinistra ne hanno promosse due, rilevantissime: l'ingresso nell'Unione monetaria europea e la riforma della Costituzione. La prima sono riusciti a realizzarla, suscitando nel paese una autentica tensione di consenso e acquisendo un merito storico imperituro. La seconda è fallita. Qualcuno ha parlato di una Canne. Ma dopo Canne il Senato romano andò incontro al console Varrone per ringraziarlo di non aver disperato della Repubblica. Sul console D'Alema sono piovuti i sarcasmi più vili e più ingiusti. Ha fatto degli errori? Delle omissioni? È possibile. Ma il disegno era grande e giusto. È stato a un passo dal realizzarlo. E il suo fallimento non è stato dovuto solo al ribaltamento del tavolo di chi non si sentì alla fine tutelato sufficientemente nei suoi interessi più o meno inconfessabili. Ma anche al sabotaggio di quella coalizione sommersa di radicalismo estremista e di conservatorismo corporativo che, da sinistra, ha sempre contrastato il riformismo. Oggi, all'opposizione, il centrosinistra si trova totalmente privo di un progetto riformista d'insieme. Non sta in questo la ragione essenziale della sua crisi? Quale credibilità può avere e quale grado di consenso può suscitare una forza politica «riformista» che non dice per quali riforme -di quel tipo strutturale che s'è detto - intende battersi? E sulla base di quale progetto politico? Per la verità il più grande partito del centrosinistra, dei Ds, si impegnò nella elaborazione e poi nell'approvazione solenne di un progetto, che avrebbe dovuto concretamente marcarne l'identità e orientarne la politica. Ma nessuno dei suoi massimi dirigenti pensò mai di usarlo davvero come bussola. Fu inalberato per qualche settimana come vessillo, e poi ammainato e riposto chi sa dove. Radicata nella cultura dei partiti di origine marxista è la convinzione del progenitore che alla storia non si mettono mutande: con il risultato, talvolta, di ritrovarcisi. Quanto agli altri partiti componenti dell'Ulivo, il pensiero di sobbarcarsi a quella fatica non li ha mai neppure sfiorati, impegnati già severamente com'erano a comporsi ricomporsi e scomporsi in complesse configurazioni floreali. È strano. A nessuno di questi riformisti immaginari (ricordo il titolo del libro di Vittoria Ronchey) viene in mente che le grandi riforme dell'età socialdemocratica sono state ideate in progetti scritti, come talvolta si afferma con sarcasmo, «a tavolino» (e dove mai li si dovrebbe scrivere?): che si tratti di Keynes o di Beveridge o dei fabiani, tutti comodamente seduti alle loro belle scrivanie. Quelle grandi riforme sono figlie di grandi riflessioni, che erano possibili allora e non più adesso, dato che i più eminenti intellettuali della sinistra sono costantemente e affannosamente impegnati a spostarsi, come le «squillo» di un famoso romanzo di Arthur Koestler, da un convegno e da una tavola rotonda all'altra, senza soluzione di continuità. Sta di fatto che il riformismo della sinistra italiana volteggia, ma non atterra. È gonfio di parole, ma povero di cifre, di date, di appuntamenti. In queste condizioni penso che Berlusconi e la sua maggioranza possano star sicuri che il «loro» riformismo, in parte, certo, mediatico, non avrà mai rivali preoccupanti per lungo tempo. Se i leader del centrosinistra avessero un po' di tempo, potrebbero concentrarsi su due impegni non del tutto frivoli. Il primo sarebbe quello di costruire finalmente una proposta riformista d'insieme, seria e circostanziata, al paese. E centrata su un'idea forza. Se l'ideaforza fondamentale della destra è il privatismo, in tutte le sue forme, l'ideaforza della proposta della sinistra dovrebbe essere la solidarietà, in tutte le sue forme: dalla lotta alla povertà alla difesa dell'ambiente, dallo sviluppo della spesa sociale e dei beni collettivi - la scuola, la salute, la sicurezza personale, la sicurezza sociale - alla promozione della cultura, dalla modernizzazione delle amministrazioni e dei servizi pubblici alla espansione e all'arricchimento dell'economia associativa e dell'autogestione sociale. Un'ideaforza formidabile davvero, poiché è sempre più chiaro che il malessere delle società ricche del nostro tempo dipende dalla scarsità di beni pubblici, non certo di beni privati. Il secondo impegno potrebbe essere quello di costruire un partito, un grande partito di tutti i riformisti italiani, fondato e impegnato su quella proposta: un nuovo Soggetto, nato da quel Progetto. Un partito, non una coalizione, fatalmente centrifuga. Nuovo, non «inventato»: e cioè radicato nelle tradizioni storiche della sinistra, collocato nello spazio geopolitico del socialismo europeo; ma libero finalmente dai condizionamenti di una nomenklatura che sopravvive a tutte le stagioni, e che attinge le fonti della sua perennità non da un progetto di società, ma dal manuale Cencelli. I dirigenti del nuovo partito dovrebbero nascere per naturale fecondazione gioiosamente scaturita dagli incontri con la società aperta e non per clonazione burocratica. Come vecchio ex trotzkista, detesto i burocrati. Penso sempre che, in quanto classe (o quasiclasse? Fate voi) bisognerebbe eliminarli. Senza fare prigionieri: perché si riproducono anche in cattività.

la Repubblica

29 dicembre 2001

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