I retroterra del NO

IL RETROTERRA DEL “NO” Unità settembre 2016

Giancarla Codrignani

Un amico, rispondendo alle mie scuse per essere stata impedita da uno strappo muscolare di partecipare ad un confronto referendario, mi scrive: “l'amicizia fra di noi rimane profonda nonostante i diversi punti di vista sulla lettura della globalizzazione”. Che cosa c'entra la globalizzazione con la riforma della Costituzione? Eppure, ripensandoci, mi sono resa conto che non è la prima volta che qualcosa del genere torna fuori nei dibattiti: giusto ieri un vecchio compagno mi citava l'importanza della Cia, concreto fantasma di cui siamo tutti ampiamente edotti anche se i tempi di Nixon e Reagan non sono quelli di Obama....

Tuttavia ho incominciato a preoccuparmi quando ho ascoltato parole analoghe dal professor Zagrebelsky in un dibattito con il ministro Orlando: dopo considerazioni condivisibilissime, concludeva dando largo spazio a espressioni tipo “questa riforma è funzionale alle richieste della finanza internazionale...”, “i giornali economici esteri si sono espressi a favore del sì” (e si rammaricava che il Presidente della Repubblica non avesse protestato, come se la stampa italiana non avesse interferito sul Brexit)..., “voto no soprattutto per riprendere la sovranità”....

Se anche Zagrebelsky “evoca”, sarà mica vero che risorgono le ideologie?

Perché che “siamo sotto ricatto” lo sanno anche la Apple e l'Irlanda che i ricatti rispettivamente fanno e subiscono; e anche l'Unione europea che torna a sollecitare l'approvazione di un'aliquota unica per le imprese in qualsiasi Paese operino. Questo è il terreno delle sfide attuali ai principi della sinistra (o della destra).

Forse, tuttavia, è bene rifare il punto. Più o meno quarant'anni fa noi “di sinistra” ci misuravamo con l' “imperialismo delle multinazionali”: lavorando con Lelio Basso per la “liberazione dei popoli”, ho assistito all'esaurirsi di un movimento generoso che si era impegnato seriamente quando l'America Latina era un lager di governi militari e in Sudafrica regnava l'apartheid. Infatti, recuperati i processi democratici in molti paesi oppressi, il progetto internazionalista della sinistra venne registrando il declino: mentre le multinazionali, fuse con le banche, le assicurazioni, le mafie guidavano la globalizzazione, governavano l'onda delle nuove tecnologie e spostavano ogni ora sul mercato virtuale miliardi di dollari (poi di yuan e di euro), i progressisti non colsero la sfida di costruire una globalizzazione culturale come contrappeso e alternativa. Non eravamo più in grado di farlo: nonostante l'internazionalismo fosse un dogma, nessuno si era impegnato a studiare inculturazioni asiatiche o africane del socialismo e nemmeno del welfare, riuscendo solo a replicare i modi occidentali dell'antico colonialismo. Neppure abbiamo approfittato delle nuove tecnologie: la tv avrebbe potuto eliminare l'analfabetismo dal mondo e oggi manca un serio (me lo augurerei perfino ideologico) uso politico del web: il mondo, adeguatosi ai consumismo, è vulnerabile al pericolo populista dei Trump non solo in America.

E' passato così tanto tempo dal secolo scorso che le generazioni più giovani non sanno quasi nulla di queste cose. Tuttavia, se Zagrebelsky pensa al “ricatto” come se non fosse un dato di realtà a cui opporre urgentemente progetti trasformativi, i lavoratori intuiscono che il “padrone” che decentra o chiude, è a sua volta ricattato; come il sindacato che mette sul piatto della contrattazione la patrimoniale. Perché il sistema oggi non è migliore o peggiore: è diventato un altro rispetto a quando – mi scuso dello schematismo – il Pci portava i lavoratori in piazza e Andreotti stampava carta moneta. Oggi i governi europei incrociano i problemi di un lavoro che non sarà mai più lo stesso e le sinistre europee debbono difendere i principi - e le Costituzioni democratiche (anche quella europea che non c'è anche se è viva la Carta di Nizza, quella dei diritti) - in uno scenario assolutamente nuovo. Se giustamente Zagrebelsky sostiene che l'Europa “deve operare per la giustizia tra le nazioni e non per dare diktat”, non può essere poi contento degli applausi se, per giustificare il “no” al referendum, dice “vorrei un'Europa non finanziarizzata, ma politicizzata”. Lo penso anch'io, ma la Costituzione nata dalla Resistenza ha bisogno di governi che la attuino e “resistano”, provvedendo con democratica tempestività alle nuove esigenze, senza logoranti diatribe di navette strumentali, che non sono più – se mai lo furono - la dialettica parlamentare. Anche perché perché dobbiamo studiare come uscire senza conflitti da una fase in cui la finanza potrebbe farsi più pericolosa perché non sta davvero trionfando. Se la Lehman Bros è del 2008, continuano i “titoli-spazzatura”, la “bad bank” cioè la banca-pattumiera, si comprano e vendono i debiti dei paesi, qualcosa di malsano ci deve essere nel fondo di logiche mercatiste che hanno fatto del denaro la merce principale da programmare nei nuovi algoritmi.

Solo che, per tornare al referendum, chi governa (“governare non è una festa”, diceva Zagrebelsky) deve poterlo fare senza ricatti interni. Mi permetto una domanda a chi dice “no” per recuperare la sovranità: dove eravate nel 2012 quando è stato messo in Costituzione (art.81) il pareggio di bilancio su proposta dei governi Berlusconi e, poi, Monti (anche loro, mi direte oggi, “ricattati” dai poteri forti)? Se pensavate che avere bilanci in ordine fosse sempre stata una virtù, la “regola aurea” dell'economia (quella non finanziarizzata, dico bene?), giusto che diventasse un valore costituzionale. Ma oggi, 2016, con il debito in salita non solo in Italia (siamo al 120 %), il buon Draghi che dal vertice Bce manda segnali preoccupanti, il disordine bancario diffuso, il prezzo del petrolio in discesa o salita a piacere, nemmeno la Merkel crede più ai bilanci in pareggio.

Non è colpa di Renzi se gli è capitato di “governare” nel 2016 e ha deciso di chiudere un problema in mora da 33 anni. Il popolo, a sua volta, deve assumere con cognizione di causa la responsabilità del voto, segno non formale della sua sovranità.