Festa patronale con banda

Stavolta la banda musicale di Ittiri era stata invitata alla festa patronale di Nostra Signora

di Paulis, nel vicino paese di Uri.

La banda era composta da una ventina di elementi, guidati da tiu Battista Canu, un

falegname buono e saggio tarantolato dalla musica, che faticava non poco a tenere a bada quella

che più che una banda musicale appariva un’allegra compagnia di amici scioperati.

C’era tra loro Pietrinu Dolianu, padre di numerosissima prole, che non era riuscita a

togliergli né il sonno né il buonumore. Era perennemente disoccupato e a sentir lui la colpa era

del cugino onorevole, che non gli dava il “posto”. Ma, a dire il vero, il cugino onorevole faceva

quel che poteva per Pietrinu (che considerava un incosciente scansafatiche), sistemandolo in tutti

i cantieri di lavoro che si aprivano in paese. Pietrinu accettava con degnazione, impegnandosi il

meno che poteva.Tutto il suo impegno lo riservava a suonare il tamburo, con risultati davvero

brillanti.

Suo pendant era Giovanni Giardinu, compare ed amico inseparabile, altrettanto allergico

ad ogni fatica, anch’egli padre di numerosa prole, che gli consentiva di aver diritto, di tanto in

tanto, alle assunzioni nei cantieri di lavoro, dove, peraltro, grazie alle facezie di cui era prodigo,

oltre a non lavorare lui non faceva lavorare neanche gli altri.

Nella banda suonava i piatti e alternava questo suo impegno con quello di portiere nella

squadra di calcio locale,seguitissima dalla popolazione più che per i suoi meriti sportivi proprio

per “numeri”, non propriamente calcistici, che Giovanni sapeva elargire a chi lo stava a vedere in

porta.

E c’era Maurizio Carloni, che non sapeva suonare alcuno strumento, ma era presente tutte

le volte che la banda andava in altri paesi, dove non era conosciuto e dove perciò poteva passare

anch’egli come musicante : impugnava una cornetta, l’avvicinava alla bocca e gonfiava le gote,

mimando l’atteggiamento dei suonatori. La sua credibilità era assicurata dal colorito porporino

del viso, che chi non lo conosceva attribuiva allo sforzo e chi lo conosceva alle allegre bevute cui

non si sottraeva sin dal mattino. Maurizio si univa alla banda per amore della compagnia e delle

bisbocciate che non di rado seguivano alle esibizioni.

E quella volta c’era anche Doddore Luna, cui non sempre lo sviscerato amore per il vino

lasciava il minimo di sobrietà indispensabile per poter partecipare alle manifestazioni cui la

banda era invitata. Ma quel giorno c’era e Tiu Battista,a scanso di sorprese, s’era fatto

promettere solennemente che sarebbe rimasto sobrio, almeno sino ad esibizione conclusa.

Doddore aveva promesso convinto sulla testa dei suoi figlioletti ed erano partiti.

Già nel viaggio d’andata, seduti sul cassone del camion di Tiu Fighighedda, però, le cose

avevano incominciato a mettersi male. Approfittando del fatto che Tiu Battista sedeva in cabina,

vicino all’autista, Tiu Ciccitu Luvinu, un uomo piccolo e magro, ormai avanti negli anni, ma

sempre disponibile alla battuta e al buon bicchiere, aveva tirato fuori, non si sa da dove, un

fiasco di vermentino di Usini e aveva cominciato a passarlo all’uno e all’altro. Ne avevano

approfittato un po’ tutti e in particolare Maurizio Carloni, che in questo modo aveva

incominciato ad assumere quel colore rubizzo che per gli ultimi tre quarti di ogni giornata che

mandava il buon Dio era il colore caratteristico della sua faccia di arguto buontempone.

Doddore Luna, conscio d’aver impegnato con giuramento la vita dei figlioletti, che erano

la luce dei suoi occhi, non senza grande travaglio interiore aveva resistito a lungo, per cedere alla

fine, poco prima dell’arrivo, quando, per sua fortuna, il contenuto del fiasco era agli sgoccioli.

Ma intanto il giuramento era stato infranto. E quando la banda giunse ad Uri, Doddore era

depresso ed avvilito.

Tiu Battista, ignaro di tutto, riordinando i suoi per avviarsi a casa dell’obriere suonando la

prima marcia in programma, aveva notato la tristezza di Doddore e l’aveva scambiata per

concentrazione nel difficile impegno assunto e nel suo cuore buono era passato un sentimento di

benevolenza e di solidarietà per il suo clarinettista.Giunti dall’obriere, mentre la folla festosa e

rumorosa dei ragazzini che li aveva seguiti sin dal loro arrivo, aspettava fra grida e spintoni il

consueto lancio delle caramelle, i componenti della banda furono invitati per un primo rapido

spuntino, prima di recarsi in corteo alla messa solenne di mezzogiorno.

Il programma, come voleva una consolidata tradizione, prevedeva che dopo la messa,

ciascun membro del comitato dei festeggiamenti avrebbe invitato a casa sua uno o più

componenti la banda per il pranzo e infine, nel pomeriggio, sarebbe venuto il momento più

importante della manifestazione: la processione di Nostra Signora per le vie del paese,

inghirlandate a festa con l’alloro; i bei tappeti e le coperte sapientemente ricamate alle finestre;

tutto il paese: uomini, donne e bambini col vestito buono appresso al simulacro e la banda a

suonare “ O Bella Regina“. Infine si sarebbe riformato il corteo per riaccompagnare a casa

l’obriere che avrebbe offerto ancora uno spuntino, accompagnato stavolta dal rosolio preparato

con cura da mesi dalle donne di casa e infine la banda si sarebbe accomiatata per far ritorno a

Ittiri.

Intanto, però, c’era da gustare, in quel primo spuntino, le buone salsicce dell’obriere e

innaffiarle con un po’ di quel rosso che brillava ammiccante nei bicchieri buoni di cristallo.

Pietrinu e il compare Giovanni, nella confusione, avevano arrancato una salsiccia ciascuno e

l’avevano fatta sparire in men che non si dica nelle loro capaci tasche. Maurizio aveva

cominciato imperturbabile a tracannare bicchieri, il cui contenuto gli colorava sempre di più la

faccia di rosso. Ma tutti sapevano che la sua resistenza era infinita.L’unico segno apparente delle

sue bevute era dato appunto dal colore del suo viso. Era alto e abbastanza robusto ed essendo

agiato commerciante, si distingueva dai suoi compagni, quasi tutti piccoli artigiani o operai non

sempre occupati, per i suoi abiti di buona fattura e la cravatta, alla quale non rinunciava mai.

Doddore Luna, come s’è detto, era sconfortato e avvilito e pensava con commozione ai

suoi figlioletti, per amore dei quali non era riuscito di fare un sacrificio nemmeno in giorno di

festa grande. Silenzioso in mezzo al baccano generale, desiderava solo affogare la sua

umiliazione, far tacere il rimorso, sopratutto non pensare. E quale mezzo migliore di quello

offerto da quel rosso traditore di cui si diffondeva l’aroma nell’aria quasi a volerlo tramortire?

Ma Tiu Battista, anche se impegnato nei convenevoli con l’obriere era pur sempre presente. E

Doddore, e non solo lui, aveva un grande rispetto, misto a timore, per quell’uomo dolce, così

diverso da lui e da tutti, che non aveva mai alzato la voce per comandare, ma otteneva tutto da

tutti, non si sapeva in forza di quale virtù. Perciò, in un momento di distrazione, afferrato un

fiasco, si allontanò dai compagni e si infilò in un ripostiglio dov’erano riposte numerose

provviste, e vi si rinchiuse dentro.

Qui, sedutosi per terra, si attaccò al fiasco e, non senza lacrime, cominciò a bere in un

silenzio cupo, quasi dovesse adempiere ad un rito sacrificale.

I suoi compagni, intanto, si accingevano a formare il corteo per accompagnare l’obriere

alla messa solenne. Accortisi della sua mancanza, lo cercarono, chiesero qua e là, ma

inutilmente. Tiu Battista era costernato: non era mai successo che un musicante venisse meno al

suo impegno durante una manifestazione per la quale la banda riceveva anche un compenso.

Pensò ad un malore improvviso, si ricordò dello strano aspetto che aveva all’arrivo e sperò che

non gli fosse successo nulla di grave,che si fosse recato da qualche amico urese per ristabilirsi e

che comunque ritornasse al momento più importante: la processione.

Invece, niente: di Doddore, nessuna traccia.

Pensarono tutti che, chissà per quale motivo, si fosse avviato a Ittiri, magari con mezzi di

fortuna o anche a piedi, e si dettero pace.

Maurizio moltiplicò i suoi sforzi per far rilevare il suo impegno nel suonare, gonfiando più

che mai le gote e rendendo ancora più porporino il suo viso, così che Tiu Battista dimenticasse

per un po’ la delusione sofferta e riuscisse a sorridere e tutti gli altri diedero il meglio di loro

stessi.

Nello spuntino finale Pietrinu e Giovanni proposero con convinzione che era giusto bere

anche in nome e per conto del musicante assente; proposta che fu immancabilmente accolta e

messa in pratica da quasi tutti.

Quando rientrarono in paese era ormai tardi e parecchi si recarono subito a dormire.

Ma Tiu Battista, che nutriva qualche preoccupazione, si recò a casa di Doddore per

chiedere il motivo dell’abbandono, trovando solo la moglie che dalla meraviglia passò subito

all’angoscia.

Sparsa la voce, nonostante l’ora tarda, si organizzò subito una ricerca per tutte le bettole

del paese e le case degli amici e conoscenti, ma con esito negativo.

Tiu Battista s’incolpava di non aver badato a sufficienza al suo musicante e voleva

addirittura partire subito per Uri con Tiu Fighighedda che lo dissuase convincendolo che a

quell’ora non avrebbe trovato alcuna casa aperta. Quella notte non chiuse occhio e l’indomani

mattina, subito dopo l’alba, assieme alla moglie di Doddore e ad alcuni componenti la banda,

prese la prima corriera e si recò ad Uri.

La prima tappa fu la casa dell’obriere, dover era stato visto per l’ultima volta il musicante

scomparso.

Mentre concitati riferivano ad un obriere ancora frastornato le vicende che li avevano

condotti da lui, si sentì uno strano rumore provenire dallo sgabuzzino delle provviste.

Vi si diressero tutti in una volta, aprirono e trovarono Doddore Luna che, seduto per terra e

con in mano una barattolo di conserva di pomodoro, vi immergeva diligentemente il dito e se lo

leccava con cura.

Michelangelo Delogu