Damm’e denare rappresenta una piccola digressione nella produzione discografica degli Squallor che, nel rivolgersi a civiltà esotiche, abbandonano per un attimo la rassicurante cultura nativo-americana per dedicarsi al mondo arabo, creando l’occasione per sfoggiare una bellissima base musicale orientale fiabesca da Mille e una Notte e, contemporaneamente, per lasciare Cerruti alle sue straordinarie invenzioni linguistiche e metasemantiche.
In particolare ci si riferisce alle celebrazioni del Ramadan nei “paesi prodosamanidiali ” e del “Damm’e denare” nel “golfo campano-afrodisiaco” e, ancora più nel dettaglio, a come tali celebrazioni trovino applicazione nel contesto di una cerimonia nuziale, anche se tale contesto verrà svelato solo più avanti nel brano.
L’inizio è completo appannaggio dei canti da muezzin di Cerruti che ben rappresentano la duplice origine del Damm’e denare: quella afrodisiaca (“si no t’o metto tutto quanto ‘n culo” ) e quella campana (“stanno ‘e terremoti, cadono ’e palazze” ). La comprensibilità del testo viene a un certo punto meno, tanto che al di là di un classico “Acchiàppete ‘a uallera 'e papà: salamà, salamà”, il Cerruti muezzin viene mal compreso dal Cerruti presentatore che se ne lamenta utilizzando parole ben più facilmente distinguibili.
Ma proprio mentre ci si sta ormai appassionando ai canti del minareto - che vedono addirittura l’arrivo di un eroe, Salopètt, il racconto delle cui gesta viene abortito sul nascere - l’attenzione del Cerruti presentatore si sposta sui dettagli coreografici del rituale. E qui il tono diventa molto simile a quello che si ritrova nella descrizione degli usi e dei costumi sessuali della tribù degli Arrapaho, traslata però in un contesto diverso: il ballo del “Vaittenne tu” diventa occasione per facili accoppiamenti, così come la “prognosi”, una danza rituale dall’evidente finalità orgiastica.
Si scopre infatti che la danza può essere eseguita durante festeggiamenti matrimoniali, inizialmente addirittura di sapore western (le “quattro spose per quattro fratelli ” ricordano evidentemente il famoso musical di Stanley Donen, nel quale però le coppie di sposi erano sette), poi di ispirazione commerciale (grazie alla sponsorizzazione della “ditta Samoni che qua ha una cazzo di esportazione impressionante”), per poi tornare ad una rassicurante e tradizionale celebrazione per le nozze tra il principe Samud ed una anonima principessa.
Oddio, rassicurante mò: il rituale prevede che gli sposi siano “ingroppati per motivi di sadrome e vanno avanti fin quando non sono intromati insieme, e sono singopi”: vi sentite rassicurati? Se sì: bene, perché poi la “cerimonia diventa più complicata” tanto che “i frammenti polaroid che vengono esagomati” generano “un burdèl: un grandissimo burdèl”.
Cerruti sembra in gran forma, eppure, verso la conclusione, stranamente si concede il vezzo di un’autocritica, chiedendo scusa perché “ci siamo alloffiati in fondo, non per sembrare incapaci del nostro lavoro ma bensì per mancanza di idee”.
E invece la perla arriva proprio sul finale del pezzo: il principe Sabid, già Samud, pur avendo “difficoltà nel parlare”, esprime chiaramente le proprie intenzioni asserendo che sposa la signorina perché “’ggiàchiavà: aggiachiavà”. Lasciamo invece all’interpretazione del lettore il significato di “Babba, bubba, samanda, bubba”, probabilmente parte del rituale esoterico, anche perché noi abbiamo ancora una cosa da fare: rintracciare la principessa che, dopo aver ascoltato i voti nuziali del principe, decide opportunamente di allontanarsi per andare chi sa dove…
“Principè! Principèssa !?!”